IL DIRITTO DI NON PERDONARE | Liliana Segre, da Auschwitz a Senatrice a vita

di Sandro Bianchi

Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 34 – Marzo 2018

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Portare nel cuore delle istituzioni il valore della memoria, per non dimenticare, perché certi orrori del passato diventino monito alla nazione, ma anche a chi ci governa. La scelta del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, di conferire il titolo di senatrice a vita a Liliana Segre, ha innanzitutto questo valore. Il conferimento è giunto mentre ci si apprestava a celebrare un Giorno della Memoria che mai come quest’anno ci interroga e ci invita a riflettere.

Liliana Segre quella memoria non la celebra ma la incarna, in quanto testimone diretta di tutto l’orrore che rappresenta. Per quarantacinque lunghi anni è rimasta chiusa nel silenzio, in ostaggio di un ricordo troppo doloroso per lei, e troppo scomodo per chi, intorno a lei, voleva invece liberarsene definitivamente. A sessant’anni è riuscita finalmente a trovare la forza e il coraggio di rompere quel muro di silenzio, di sfidare l’indifferenza di chi preferiva ignorare o voltarsi dall’altra parte, raccontando al mondo ciò che aveva visto e vissuto sulla propria pelle, e da allora non si è più fermata. Oggi Liliana Segre ha ottantotto anni e continua a portare la sua testimonianza alle nuove generazioni, fiduciosa che la memoria possa essere il solo vaccino contro l’indifferenza di ieri e di oggi.

Nel 1938, anno in cui vennero emanate le leggi razziali fasciste contro gli ebrei, Liliana aveva solo otto anni e una vita tranquilla a Milano, città dov’era nata nel 1930. D’un tratto venne espulsa dalla scuola, e fu solo allora che acquisì la consapevolezza di essere ebrea. La sua era una famiglia d’impostazione laica, perfettamente inserita nel contesto cittadino, le cui origini ebraiche rappresentavano nulla più che un mero dato anagrafico. Il padre, Alberto Segre, era stato uno di quei “ragazzi del ‘99” che avevano combattuto nella Grande Guerra del ’15-’18, un uomo colto, laureato in Scienze Economiche e Commerciali all’Università Bocconi. All’improvviso quelle origini erano riemerse come un’antica e irredimibile colpa, gli attrasse lo stigma sociale che li faceva additare come ospiti indesiderati, nemici di cui sbarazzarsi in fretta. Era cambiato tutto, la loro vita venne travolta come da un uragano di eventi fino allora impensabili. Vennero spogliati della cittadinanza italiana, estromessi da ogni diritto, braccati come bestie. Inizialmente Alberto tentò di mettere la figlia al riparo presso amici, servendosi di documenti falsi; successivamente tentarono di trovare rifugio in Svizzera, ma anche qui vennero respinti dalle autorità elvetiche. All’età di tredici anni Liliana venne quindi arrestata e condotta, prima nelle carceri di Varese e di Como poi in quelle di Milano, dove, il 30 gennaio 1944, dal Binario 21 della Stazione Centrale, venne deportata al campo di concentramento di Auschwitz – Birkenau. «(…) in fretta, a calci, pugni e bastonate, ci caricarono sui vagoni bestiame (…) fra grida, latrati, fischi e violenze terrorizzanti.» Giunti al campo Liliana venne subito separata dal padre; tanto lui che i suoi nonni vennero di lì a poco uccisi. A lei fu assegnato un numero di matricola stampato sull’avambraccio, e da quel giorno quel numero divenne il suo nome.

In una testimonianza raccolta da Silvia Romero, Liliana ripercorre quei primi momenti nell’inferno dei lager nazisti: «(…) delle ragazze francesi che erano lì da 15 giorni ci spiegarono dove eravamo arrivate: ci spiegarono cos’era quell’odore di bruciato che permeava sul campo: è l’odore della carne bruciata, perché qui gasano e poi bruciano nei forni. (…) Ci  mostrarono la ciminiera in fondo al campo dicendoci che lì bruciavano le persone e dicendoci che si chiamava crematorio. Noi non volevamo credere loro, ma poi ci spiegarono perché la neve era grigia e c’era la cenere, che eravamo diventate schiave e che per un sì o per un no potevamo andare anche noi al gas». Passando da una selezione all’altra, Liliana venne per circa un anno impiegata nel lavoro forzato presso una fabbrica di munizioni. Alla fine di gennaio del 1945 affrontò la lunga marcia della morte verso la Germania; il primo maggio successivo venne finalmente liberata dall’Armata Rossa nel campo di Malchow. Dei 776 bambini italiani deportati solo 25 sopravvissero. Liliana Segre fu una di questi.

Oggi lei dice di non perdonare, perché questo significherebbe farlo anche a nome di chi non ce l’ha fatta. È sentinella di una memoria che mai come ora bisogna mantenere viva, perché il germe folle dell’odio, seppur in forme diverse, minaccia sempre di riemergere e di ammorbare la società. In un’intervista a Tv2000 dice: “(…) quando saremo morti proprio tutti, il mare si chiuderà completamente sopra di noi nell’indifferenza e nella dimenticanza. Come si sta adesso facendo con quei corpi che annegano per cercare la libertà e nessuno più di tanto se ne occupa”.

Sandro Bianchi


Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 34 – Marzo 2018.

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