COM’È MORTA LA CITTÀ | Città e paesaggio come teatro della democrazia

COM’È MORTA LA CITTÀ

Città e paesaggio come teatro della democrazia

di Giuseppe Maggiore

Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 33 – Dicembre 2017

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Il panorama della città contemporanea è lungi dall’essere la vecchia veduta dei pittori e viaggiatori del passato. Quella veduta che, grazie ai suoi elementi di unicità, dipinta o anche solo abbozzata richiamava immediatamente un dato luogo, è un’esperienza visiva che i nostri occhi non potranno mai più contemplare. Tentare oggi di abbracciare con lo sguardo la panoramica di una qualunque città, implica innanzitutto il dover fare i conti con la difficile ricerca di un confine, di un perimetro, ovvero quella linea di demarcazione tra la città propriamente detta e il paesaggio circostante. Le vecchie mura di cinta facevano un tempo da cerniera tra due contesti, la città e la campagna, posti in vicendevole relazione; più che una barriera di esclusione erano un confine concettuale, quasi un ponte attraverso cui le due dimensioni dialogavano. Natura e cultura si fondevano in un simbiotico abbraccio, formando un tutt’uno armonico.

Se quelle vecchie mura sono state demolite o travalicate, non è stato certo per rendere la città un luogo più aperto e inclusivo rispetto al passato, anzi, è vero il contrario. Nuovi, invisibili confini sono sorti nel corpo informe delle moderne città; confini strutturalmente connaturati alla riorganizzazione e ridefinizione degli spazi urbani. I muri della città sono oggi i muri nella città. Ciò che prima serviva a circoscrivere uno spazio sociale ben organizzato e a difenderlo dall’esterno, oggi è funzionale alla creazione di una gerarchizzazione degli spazi urbani, dando luogo a quelle che in sociologia vengono definite new urban divisions.

La forma urbis è implosa, schiacciata da un’espansione edilizia selvaggia e disorganizzata che oltre ad offendere con le sue brutture la città e chi ci vive, genera nuovi dislivelli sociali, non-luoghi, spazi dell’esclusione in cui regnano il degrado e l’insicurezza. Se le vecchie mura di cinta proteggevano i cittadini, i nuovi muri creati dai moderni assetti urbanistici li esclude, li emargina, spingendoli sempre più verso le zone grigie di anonime periferie. Così siamo proprio noi, in quanto cittadini, a essere i veri estromessi dalla città contemporanea. Nel centro storico la città del passato esprimeva la propria unicità, ciò che la rendeva diversa da tutte le altre. La sua forza e la sua capacità nel saper dotare i propri cittadini di un forte senso identitario e di appartenenza derivavano proprio da quella diversità, fatta di architetture e atmosfere frutto della sedimentazione di secoli di storia e di cultura. Un’antica saggezza sapeva armonizzare l’opera dell’uomo con l’ambiente naturale, tanto nel palazzo signorile quanto nell’edilizia istituzionale e religiosa, finanche nell’umile casa del contadino. C’era un’idea di decoro e appropriatezza che s’accompagnava a un codice dello spazio e alla funzione civica cui l’edificio doveva assolvere. S’intuiva da questi elementi come tutto era concepito per dare risalto alla dignità del cittadino e al suo ruolo nella sfera pubblica.

Oggi i centri storici sembrano dei denti cariati nel corpo cementificato delle città; luoghi desolati, blindati, resi inaccessibili al flusso vitale che un tempo li animava. L’omologazione dei tempi moderni ha reso obsoleta e inadeguata la città storica per avvalorare una nuova topografia fatta di sterminati dormitori simili a termitai, privi di spazi collettivi, di luoghi deputati all’incontro e alla condivisione, quei non-luoghi per l’appunto, ben lontani dall’essere quel che la città un tempo era, ovvero luogo della socialità, teatro vivo e pulsante della democrazia. I moderni agglomerati urbani non rappresentano infatti la naturale estensione della città, ma solo una mostruosa e disorganica espansione la cui inarrestabile avanzata divora il paesaggio circostante e fagocita la città stessa.

Senza alcun riguardo per l’ambiente, per le specificità del territorio, per la memoria storica dei luoghi, e soprattutto senza alcuna proiezione sul futuro, l’attuale modello di sviluppo edilizio non crea nuove porzioni di città, non realizza nuovi quartieri, ma solo spazi dell’indecisione che non hanno più alcuna relazione con la città cui pretendono di connettersi. Lì dove la campagna viene vista solo come risorsa da monetizzare in nuove opportunità di espansione edilizia, l’obiettivo è l’ottimizzazione dello spazio finalizzata alla massimizzazione del profitto. In quest’ottica la creazione di spazi collettivi quali piazze o parchi viene non di rado trascurata. La marginalizzazione di questi nuovi agglomerati urbani, rispetto al cuore della città, si riflette anche in questo, così come nella carenza di servizi, nella mancanza di luoghi istituzionali e di quelli deputati alla cultura. Teatri, musei, biblioteche civiche, auditorium… tutto ciò che un tempo costituiva il patrimonio civico, nella progettazione delle nuove aree residenziali non viene nemmeno contemplato. Il loro posto è stato preso dai centri commerciali, nuovi templi della cultura di massa. È su questo miope quanto degradante modello urbanistico che inevitabilmente si forgia l’orizzonte mentale di chi ne è destinatario. Tutto risponde ai più elementari bisogni di una quotidianità sciatta e priva di interessi, la dove lo shopping diventa l’unica valvola di sfogo, un palliativo cui bisogna quotidianamente ricorrere per ingannare la noia, a tutto beneficio del sistema capitalista.

La speculazione edilizia prolifera in modo sconsiderato sulle inefficienze e sulla colpevole complicità delle istituzioni. Si costruisce troppo e male. Si continua a costruire a fronte di un incremento demografico che non c’è; si continua a costruire lì dove non si dovrebbe e dove invece sarebbe il caso di cominciare ad abbattere. Di tanto in tanto un cataclisma o un’alluvione ci ricordano che forse qualcosa non va in questo modus operandi. Ma dopo la solita retorica deresponsabilizzante tutto continua come se nulla fosse. Il trionfo dell’estetica del brutto in queste escrescenze urbanistiche, dove l’architettura, intesa come arte del costruire, ha ceduto il passo a un’edilizia senza pretese di qualità e bellezza, si accompagna al senso di precarietà già insito in fase di realizzazione. Edifici brutti fatti con materiali scadenti esprimono l’assoluta noncuranza per chi dovrà viverci, ne mortificano la dignità, come uomo e come cittadino. Sembra quasi che un profondo sprezzo per l’umanità alberghi tanto nelle commissioni edilizie quanto nell’ordine degli architetti. Ciò che conta è l’immediato profitto.

Ci si dimentica che tra i diritti del cittadino, oltre a quello di avere una casa dove abitare, ci sono anche il diritto alla città e il diritto al paesaggio, i quali, oltre a essere diritti naturali sono anche diritti previsti dalla Costituzione, ed è perciò compito dello Stato tutelarli. Questi diritti esprimono un bisogno sociale inalienabile dell’uomo, il quale merita di poter vivere in un contesto che non solo gli garantisca un senso di protezione e di sicurezza, ma anche luoghi qualificati dove poter avere occasioni di incontro e di confronto; merita un contesto decoroso e stimolante che lo aiuti a organizzare al meglio il proprio tempo, fatto di lavoro ma anche di attività ludiche, e dove poter sviluppare molteplici interessi che mettano in moto le sue doti creative. Sono questi i diritti che danno senso compiuto alla cittadinanza e dovrebbe essere premura delle istituzioni garantirli. Il superamento del vecchio modello di città, come spazio civico ben strutturato e organizzato attorno alle esigenze pubbliche e private del cittadino, rappresenta dunque non soltanto una deriva sul piano estetico, ma anche e soprattutto lo smantellamento di un tessuto sociale fatto di relazioni, di riti collettivi, di un consorzio di idee e saperi che insieme costituivano il nervo portante del sistema sociale, politico, culturale ed economico di un Paese.

La fine della città coincide con il declassamento del cittadino, ovvero di colui che un tempo, riconoscendosi nel luogo in cui viveva, se ne sentiva geloso custode e vi trovava quegli stimoli che lo inducevano all’esercizio di una cittadinanza attiva. Il perdurare di questa tendenza non promuove forme di convivenza che favoriscono la coesione, ma spinge i cittadini all’isolamento, a fare massa ma non comunità, con evidenti ripercussioni nel tessuto sociale e nella tenuta della democrazia. Ecco perché parlare della città in tutt’uno con il paesaggio implica oggi tutta una serie di riflessioni antropologiche, sociologiche, politiche e culturali.

Bisogna innanzitutto ripartire dalla riassunzione di un senso di responsabilità da parte delle istituzioni che contrasti concretamente gli abusi finora perpetrati, impedendone il perpetuarsi. Una classe politica responsabile che abbia a cuore il bene della società dovrebbe dimostrare maggiore attenzione rispetto al passato in materia di sviluppo urbanistico, tutela del patrimonio paesaggistico e salvaguardia dell’ambiente. Quest’assunzione di responsabilità coinvolge in primo luogo gli architetti, troppo spesso disposti a piegarsi alle richieste di una committenza avida e spregiudicata.

L’architetto non può e non deve continuare a rendersi complice della devastazione di paesaggi e città, ma deve recuperare l’etica e la deontologia del proprio mestiere, ponendosi al servizio del bene comune. Il suo contributo al miglioramento della qualità della vita dei cittadini sarà fondamentale solo quando tenderà i propri sforzi nel coniugare funzionalità e bellezza, amore e rispetto per il luogo che vedrà nascere la sua opera. Per fare ciò occorre che l’architetto metta in campo tutto il proprio bagaglio culturale, il quale deve necessariamente spaziare dalla storia alla letteratura, dalla musica alla filosofia, dall’arte alla medicina, perché solo attraverso basi culturali solide e d’ampio respiro egli potrà disporre degli strumenti necessari a declinare la propria arte nelle diverse opere che sarà chiamato a realizzare.

Bisogna ridare dignità al cittadino e rieducare al gusto per il bello. Bisogna restituire alle città decoro ed eleganza, identità e unicità. Bisogna costruire pensando al futuro e avendo cura del presente. Come suggerisce l’archeologo e storico dell’arte Salvatore Settis nel suo recente saggio Architettura e democrazia (Einaudi, 2017): «(…) la città storica può e deve essere una sorta di “macchina per pensare” il nostro tempo, con la capacità analitica (che solo la dimensione storica può donare) di riconoscere, negli sviluppi in atto, quanto riteniamo favorevole al ben vivere delle generazioni future e quanto, più o meno platealmente vi si oppone».

Giuseppe Maggiore

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Questo articolo è pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 33 – Dicembre 2017.

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