di Massimiliano Sardina
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 33 – Dicembre 2017.
Il male, entità informe e impalpabile, ha sovente bisogno di involucri che di volta in volta lo contengano e lo visualizzino. Proiettato su un oggetto o su un soggetto, e fattovi aderire, il male assume le fattezze rassicuranti di un avversario individuabile, concreto, affrontabile; così figurato e antropomorfizzato, sottratto all’invisibilità, il male incute meno terrore e diventa un bersaglio, un capro espiatorio. È quello che accade a Rabalan, un povero diavolo cui l’intero paese ha affibbiato lo stigma di stregone. Eppure di stregoneria il povero Rabalan non se intende affatto, non sa nemmeno cosa sia. Di magia la sua vita di stenti ne ha conosciuta poca.
Il racconto mirbelliano indaga gli antichi meccanismi che muovono la collettività contro il singolo. La superstizione e l’ignoranza che albergano nel piccolo paese di Trélotte sono la trasposizione di una consuetudine al male che è propria di ogni luogo in ogni epoca, nelle remote campagne come nelle scintillanti città. Rabalan è la strega additata nei secoli (cagione d’ogni sventura), ma anche l’archetipo del diverso (che turba, che attrae, che spaventa), l’avulso, lo strambo, l’incollocabile, il non affine al gruppo. Intorno a questa vittima sacrificale Mirbeau dispone un presepio di rara crudeltà, contadini e signori coagulati in un patto scellerato, tutti concordi nel riservare al malcapitato quel trattamento che merita. E giù insulti, bestemmie, gesti scaramantici, scongiuri, botte. Tutti contro uno. Ogni santo giorno. Senza pietà. È questa l’umanità che ha conosciuto il povero Rabalan. Questo il suo piccolo mondo. Da mezzo idiota qual è, sempliciotto come la natura l’ha fatto, non sa reagire, non sa sottrarsi a quelle sferzate che gli giungono improvvise, può solo incassare i colpi, fuggire, implorare misericordia. Solo in compagnia delle vacche e delle capre trovava un po’ di ristoro. Avrebbe voluto fare il pastore, vivere tra i campi, ma nessuno in paese gli aveva mai offerto un lavoro né elargito la più misera elemosina. Grazie all’amministrazione comunale si guadagnava da vivere saltuariamente come spaccapietre nel vicino bosco di Pied-Fontaine, una mansione sfiancante e mal pagata, ma doveva pur mangiare. Come abitazione una vecchia baracca pericolante appena fuori il caseggiato di Trélotte, poco più che un riparo di fortuna.
Pallido, segaligno, segnato da calli e cicatrici, Rabalan è l’icona del miserabile. A curvare la sua figura malnutrita e piena di acciacchi provvedeva il suo temperamento mite e accondiscendente, incapace di alcunché, prodigo di sorrisi ossequiosi puntualmente malriposti. Un tozzo di pane nero gli ballonzolava sempre nel piccolo tascapane legato agli abiti lisi e rattoppati. Rabalan è una specie di sopravvissuto, un morto che cammina, solo l’ombra di un essere umano. È su questa creatura indifesa che si accanisce il paese. La sua colpa? Essere l’ultimo discendente di una vecchia stirpe di stregoni guaritori (prima il suo bisavolo, poi suo nonno, infine suo padre). Fattucchieri avvezzi nel dispensare tanto il bene quanto il male, maestri nello sciogliere malocchi e nell’ordire fatture. Trélotte la sapeva lunga sulla stirpe dei Rabalan. Avevano potere sconfinato, guarivano i malati e il bestiame, rendevano feconde le terre sterili, ma alle stregonerie benefiche preferivano di gran lunga quelle malefiche, così si diceva di loro. Con la loro magica potenza tormentavano uomini e bestie, trasformavano il sidro in bovina liquida e il latte in orina. Se sfioravano un uomo lo penetravano col male. Per neutralizzare lo stregone bisognava batterlo con un bastone, percuoterlo, ripetendo tre volte “Stregone, ti rendo il male!” Sulla stirpe dei Rabalan pesava inoltre una tragica fatalità: tutti si suicidavano, nessuno moriva di morte naturale. Da tempo immemorabile, ogni anno, in occasione della Fiera di Saint-Michel, lo stregone di turno piantava una tenda sulla piazza di Trélotte. Accorrevano da lui tutti i derelitti del contado per farsi guarire «…infermi e malati, paralitici e sciancati, monchi delle due gambe, su carriole, o in calessini, o in groppa agli asini, o carponi sui loro moncherini callosi. File enormi di esseri lividi divorati da piaghe schifose, contraffatti, senza membra, si allungavano per le strade, si mescolavano e si urtavano sulla piazza di Trélotte, si stipavano sotto la tenda, intorno al mago.»; questi imponeva loro le mani e i malati contraccambiavano con un ceffone (e con un onorario di due soldi), e tornavano a casa convinti di esser guariti. Da una simile genia poteva forse sortire uno stinco di santo?
Rabalan apparteneva a quella schiatta, ne era la diretta emanazione. Questo faceva di lui uno stregone tout court, e più negava di possedere l’arte dei suoi avi più stregone diventava «giacché uno stregone che dissimula la propria natura e non esercita la sua arte manifestamente, è mille volte più temibile e pericoloso di ogni altro.» Se la grandine devastava le messi era colpa di Rabalan. Se la pioggia faceva marcire la semente era colpa di Rabalan. Se le donne o le vacche non generavano era colpa di Rabalan. Tutti i malanni, tutte le sciagure, ogni piccola o grande stortura era addebitabile a Rabalan. E sì che nei casi disperati correvano da lui per implorargli guarigioni, medicamenti, miracoli che puntualmente non si verificavano. E giù botte, bastonate, pestaggi. Agli occhi degli altri lui non era altro che un’astuta dissimulazione, un lupo travestito da agnello, il diavolo sotto mentite spoglie. E non c’è niente, niente che possa levargli di dosso questo stigma. Eppure, nonostante tutta la crudeltà che gli piove addosso, Rabalan non fa nulla per evadere dal tristo presepio. Mirbeau lo inchioda al suo calvario quotidiano, ne fa uno specchio sempre sul punto di infrangersi, una spugna in una pozzanghera. Più che una figura in carne e ossa Rabalan incarna un preconcetto, una valvola di sfogo. All’inizio del racconto la sua sagoma malconcia emerge dalle nebbie della brughiera come «un lino bianco nell’oscurità.» Rabalan si incammina lentamente verso il paese – case tetre raccolte «intorno a un campanile aguzzo» – e alla sua vista tutti si fanno il segno della croce e altri segni simbolici. Cieco di fronte al male Rabalan osa salutare una contadina: «Buongiorno, Tibalda! Buongiorno!», ma questa per poco non sviene dallo spavento e di rimando si adopera in mille scongiuri. Ecco come comincia la giornata di Rabalan. Il povero diavolo si inoltra in una prateria e qui si imbatte in una vacca al pascolo. Osa accarezzarla, perfino parlarle, ma il padrone della bestia gli si scaglia contro con un bastone. «Perché tocchi la mia vacca, tu?» E giù botte fino a spezzare il bastone. In quella carezza si celava certo il maleficio. Rabalan giace riverso sull’erba, immobile. Il padrone della vacca lo crede morto, allora traccia un cerchio intorno a quel corpo fracassato, ci getta all’interno i due pezzi del bastone e si dilegua. Ma Rabalan non è morto, almeno per il momento. «…Il vento si levò trasportando e turbinando le foglie secche degli alberi e la pioggia cadde, fine, obliqua, sferzante e fredda. (…) Mosse una gamba, poi l’altra, scosse la testa, poggiò le palme in terra e si sollevò sulle ginocchia; guardò a destra, a sinistra, davanti, dietro… Sembrava sbalordito di non vedere alcuno e di trovarsi in quello stato, giacente in mezzo a una strada.»

Rabalan subisce silenziosamente il male ma, incapace di elaborarlo, non ne comprende la ragione. Più della sofferenza agisce in lui l’incredulità. Il colpo di grazia glielo infligge il sindaco di Trélotte, Padron Bottereau. In qualità di guaritore Rabalan viene convocato di forza per levare il malocchio a otto trebbiatrici mal funzionanti. A nulla valgono le preghiere del povero diavolo: «Io non sono uno stregone.», vanificate dall’autorità del sindaco in persona: «Io ti dico che sei stregone!» Rabalan per cavarsi d’impiccio inscena allora un rituale magico recitando formule improvvisate lì per lì: «…Babà! …Rurù! …Lu lulu!…» Ma ovviamente non accadde nulla. Il sindaco, furioso, si avventa sul povero Rabelan: «…Canaglia! Ladro! Demonio! Ti rendo il male!» E giù botte e bastonate, finché il bastone non diventa tutto rosso di sangue. «Rabalan, tutto sanguinante, non si muoveva più. Lo sollevarono. Era morto.» Ucciso dal sindaco in persona. Una morte istituzionale. Una morte avvallata dall’intera comunità. Il racconto mirbelliano si chiude sulla figura straziata di questo povero diavolo. Il tascapane riverso ai piedi delle trebbiatrici. È un’immagine di cruda desolazione.
Con Rabalan – figura indifesa, catalizzatrice d’ogni gratuita angheria umana –Octave Mirbeau firma uno dei suoi racconti più crudeli. Nei Contes cruels – apparsi in vari quotidiani dell’epoca e successivamente pubblicati in volume con i titoli Lettere dalla mia capanna (1885) e Racconti dalla capanna (1894) – Mirbeau sguinzaglia un nutrito campionario di bestialità umane, rivelando a chiare lettere quel che dell’uomo (della sua proverbiale propensione al male) tanta letteratura ha preferito tacere. Volontà esplicita dell’autore non è intrattenere o allietare, ma al contrario turbare, scuotere, sconcertare, affinché quanto letto porti alla maturazione di una consapevolezza. Una missione letteraria, quella di Mirbeau, sempre militante e a debita distanza dal consolatorio. Se nelle sue cronache giornalistiche, taglienti e dirette come non mai, ha inteso denunciare la bieca corruzione in seno alle istituzioni, nei racconti ha scoperchiato il marciume di una società sempre suscettibile di disumanizzazione e abbruttimento. Una visione in parte pessimistica, certo, ma sempre illuminata dalla fede nella ragione umana, da un ideale alto (umano prima che letterario). Il racconto Rabalan è contenuto nella raccolta La pipe de cidre (Ed. Flammarion, 1919); al momento la sola traduzione italiana è quella di Decio Cinti: Rabalan, in La botte di sidro (Sonzogno, 1920).
Massimiliano Sardina
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