LA NAZIFICAZIONE DELLA STORIA | Il nazismo e l’Antichità | Un saggio di Johann Chapoutot

LA NAZIFICAZIONE DELLA STORIA

Il nazismo e l’Antichità | Un saggio di Johann Chapoutot (Einaudi, 2017)

di Massimiliano Sardina

su Amedit n. 32 – Settembre 2017.

 

La cattedrale nera del nazismo ha infilzato le sue guglie acuminate nei cieli del Nord Europa, affondando al contempo le fondamenta nel suolo profondo alla spasmodica ricerca di una terra d’origine, la patria d’elezione del popolo germanico. Bisognava accaparrarsi un passato quanto più possibile glorioso per giustificare un presente così gravido di conseguenze per il futuro. Più si scavava e più montava la frustrazione. Gli archeologi sguinzagliati dal regime non rinvenivano che cocci di brutte brocche, ordinari utensili e frammenti di rozze suppellettili, nulla che potesse testimoniare la grandezza di una civiltà evolutasi in seno alle arti e alla buona politica. Una genealogia barbarica mal si conciliava con il progetto hitleriano della Nuova Germania, intesa fin dall’inizio alla stregua di una renovatio imperii. Senza l’exempla di un perduto splendore iscritto nel sangue non poteva darsi alcuna resurrezione a lunga gittata; ai figli fragili, disorientati, orfani di modelli virtuosi, bisognava assegnare una filiazione corroborante, e qual miglior partito della Grecia e di Roma, le culle auree dell’umanità. Bisognava cercarli lì i padri, prima nella Grecia classica e poi nell’Impero romano, lì e in nessun altro luogo, a debita distanza da un Oriente inteso quale fetida cloaca di razze inferiori, subdole contaminatrici del sangue puro germanico.

Già dal XIX secolo una nutrita frangia della comunità scientifica abbracciava di buon grado l’ipotesi dell’origine nordica di ogni civiltà, forti della testimonianza lasciata da Tacito nel De origine et situ Germanorum (98 d.C.). Da dove provengono le popolazioni germaniche? Non disponendo di informazioni Tacito impronta una sorta di genealogia sbrigativa: «Quanto ai Germani, crederei che siano autoctoni e in minima parte mescolati con altri popoli per immigrazioni e ospitalità.» Il concetto di Germanos indigenas (indigenas sta per “colui che viene da là”) schiude così il mito dell’autoctonia germanica, ossia di un popolo germogliato dalla sua stessa terra. Un popolo puro, venuto alla luce per partenogenesi, fiore spontaneo sbocciato sulla terra vergine. Dal Rinascimento al XVIII secolo le considerazioni di Tacito incontrano largo consenso, prestando così il fianco a speculazioni sulla purezza della razza tedesca. Nel periodo illuminista si fa strada la tesi dell’origine indiana delle popolazioni dell’Europa occidentale, in contrapposizione al mito adamitico di ascendenza ebraica. L’ipotesi indiana, avvallata da tutta una serie di studi geografici e linguistici, incontra largo favore nell’acceso dibattito sulle origini dell’umanità occidentale: popolazioni di pelle bianca, di intelligenza superiore, animate da fertile inventiva e raffinata creatività, che dalle cime dell’Himalaya (d’altra parte l’umanità che sopravvisse al diluvio poté rifugiarsi solo sulle alte vette indiane) scese alla conquista di altri territori. Si afferma così l’Indologia intesa come scienza degli antenati. È Friedrick Schlegel, il primo indologo, a introdurre in lingua tedesca il vocabolo Arier (per indicare appunto quelle prime tribù indiane che emigrarono per conquistare nuovi spazi trascinando con sé tutto un bagaglio linguistico, artistico e culturale). Arier deriva dal sanscrito arya, ossia “nobile”. Il concetto di ariano s’accompagna a quello di indogermanisch (indogermano), designante sia i mitici progenitori sia gli attuali discendenti puri. Alla fine del XIX secolo le frange tedesche più nazionaliste e razziste traslano quest’India-madre troppo lontana e indistinta in un ovest più concreto, stabilendo quale culla primordiale della suprema razza nordica i territori dell’attuale Germania e Scandinavia.

Il mito ariano si insedia così in un presente tangibile generando una nuova partenogenesi. Il mito dell’origine nordica di ogni civiltà, ampiamente propagandato da questi movimenti nazionalisti, non mancò di affascinare il giovane Hitler. Il nazismo di lì a poco avrebbe elevato la nordicità a dogma, l’ariano a idealtipo assoluto. Gradualmente l’ipotesi di un’origine ex oriente lux viene liquidata a favore di un ex septentrione lux. Ogni legame con l’Est, e più in generale con il mondo orientale, verrà definitivamente spezzato. Sangue puro sgorgato da terra pura: la sola razza creatrice è quella nordica indogermanica, madre di tutte le grandi culture fiorite successivamente, ovvero quella greca e quella romana. Prima che poggiare sull’Antichità il mito ariano si assicura così anche una Preistoria, un ingresso nel mondo dalla porta principale, senza intermediazioni, senza mescolanze. La leggenda si tramuta in ipotesi, e l’ipotesi in fatto scientifico, acclarato, indubitabile, al punto tale da profilarsi definitivamente quale dogma. Efficienti razziologi come Hans Günther, Eugen Fischer, Erwin Baur e Fritz Lenz improntano il dogma del Nord Europa matrice dei popoli, la vagina nationum generatrice delle grandi civiltà della Grecia e di Roma. Hitler non è solo nel suo disegno folle. Può contare su schiere di prolifici burocrati (storici, medici, scienziati, antropologi), uomini senza scrupoli, pronti a ribaltare ogni verità in contraddizione con i dettami del regime. Il primo sterminio sistematico dei nazisti ha riguardato la storia, ossia la verità storica.

L’appropriazione indebita del passato – un passato capovolto e strumentalizzato – è di fatto un crimine contro l’umanità. Il nazismo ha fatto di sé un ponte tra questo passato fittizio e un futuro altrettanto disumanizzato e nefasto. È soltanto in questa prospettiva d’annessione eroico-mortifera che il nazismo ha attraversato il suo presente. È qui la chiave per comprendere le ragioni di un odio che mai ha avuto eguali nel corso della storia. L’ottica scelta dallo storico francese Johann Chapoutot è quanto mai illuminante e sviscera aspetti della genesi nazista prima mai esplorati. Ne Le nazisme et l’Antiquité (Il nazismo e l’Antichità, Einaudi, 2017) vengono a galla gli aspetti più oscuri e complessi che hanno generato l’ideologia nazista, le fragilità identitarie che per riflesso hanno introiettato un fantomatico avversario da demonizzare, da eleggere a proprio antitetico contraltare. Chapoutot smembra il corpo apparentemente bello, energico e vincente dell’ariano nazista per mostrarne suture e finzioni, e lo fa partendo dal sangue, da quella sostanza che si voleva fosse a tutti i costi immacolata e primigenia. L’autopsia è impietosa. Il corpo nazista, statuario sì ma cadaverico, si rivela per quello che è, e cioè null’altro che un’aberrazione, una creazione alla Frankenstein, qualcosa che dell’umanità non trattiene che un’inquietante caricatura.

Fin dall’inizio il nazismo ha operato nel sangue, prima in quello del popolo tedesco (sangue eletto, primigenio, che per secoli ha irrorato le vene dei grandi strateghi, imperatori, filosofi, architetti, scultori, storici, testimoni illuminati del mondo greco-romano) e poi in quello delle vittime di volta in volta designate (gli impuri dell’Est, gli ebrei, gli asiatici, i bolscevichi, ovverosia tutti gli altri, compresi gli oppositori politici tedeschi). Con la presa al potere di Hitler si innesca subito il processo di persuasione del popolo tedesco, un popolo che si vuole obbediente e asservito, ma soprattutto fiero. Nazificando la storia, piegandola grossolanamente a proprio uso e consumo, di fatto riscrivendola di sana pianta chiamando a raccolta zelanti falsari d’ogni area disciplinare, i nuovi signori della Germania s’assicurano quel passato prestigioso tanto agognato, quel diretto precedente ritenuto indispensabile per la buona riuscita del grande progetto totalitario. All’umiliazione per la disfatta del 1918 e per il Diktat di Versailles subentra così una potente iniezione di fiducia. La macchina del Reich si mobilita con mille iniziative per istruire debitamente la popolazione, per instillarle un sentimento sacro delle origini, un orgoglio d’esclusività tutta ematica. Libri di storia, trattati di razziologia, saggi sull’architettura e la statuaria, opuscoli divulgativi, studi antropologici e testi scientifici: un apparato multidisciplinare costellato di interpretazioni deliranti atte a dimostrare un’unità di sangue millenaria tra le âge d’or di Sparta-Atene-Roma e i nordici-germani delle origini. Se tutte le grandi civiltà del passato sono rami del tronco nordico allora l’attuale razza tedesca indogermanica può considerarsi ovunque a casa propria, «dovunque legittimata – scrive Chapoutot – a riprendere possesso di ciò che ha creato e di ciò che dunque le appartiene di diritto.», così ogni conquista futura avrà il sapore eroico di una riappropriazione. L’annessione dell’Antichità ha fornito lo scheletro al Moloch nazista. Senza l’affabulazione di un passato mitico sarebbe venuto a mancare il trampolino per il fatale slancio e l’energia stessa per poterlo compiere.

Sezionata, mutilata, adulterata, distorta la storia si innesta su un presente dove ribollono aspettative di riscatto e desiderio di prestigio. Hitler e compagni se ne servono per imbastire una weltanschauung utopica destinata a forgiare l’uomo nuovo, l’eroe soldato pronto a immolarsi per la causa della Nuova Germania. A quest’uomo nuovo (sia esso scolaretto o cittadino attempato) il nazismo consegna uno specchio dove rimirare una fisionomia ereditata dagli illustri antenati, gli antichi custodi del sangue puro germanico. La persuasione, meticolosa, metodica e martellante, non tarda a dare i suoi frutti. Sorretto dalle ossa dissepolte dei padri originari l’uomo nuovo ha ora bisogno di carne e di muscoli, di una educazione fisica che faccia di lui un perfetto strumento, un ingranaggio solidale, un’arma efficace contro il nemico contaminatore. La riforma scolastica assegna allo studio della nuova storia e all’esercizio ginnico un ruolo preponderante. La storia, in particolare, si riduce a una lista di exempla tra personaggi positivi da emulare (eroi greci valorosi, imperatori romani intransigenti) e negativi da esecrare (in linea generale tutti coloro che prestarono il fianco alle mescolanze razziali). Emblematico al riguardo è il testo storico-didattico redatto da Dietrich Klagges nel 1937 dal titolo più che esplicativo L’insegnamento della storia come educazione nazionale-politica. Tutte le voci dissonanti di storici allibiti da una siffatta riformulazione della storia vennero sistematicamente azzittite. Nella Germania degli anni Trenta vigeva ormai una sola direzione del pensiero, un solo coro unanime. La falsificazione istituzionalizzata, ribadita nero su bianco da un’infinità di pubblicazioni, propinata sui banchi di scuola e proclamata dalle cattedre universitarie, si radicò in tempi brevissimi nell’immaginario collettivo.

Imbevuto di studi storici fin dalla sua prima giovinezza Hitler seppe veicolare il passato a suo vantaggio, farne materia viva per infondere nel popolo una nuova consapevolezza, una ragione profonda; la guerra assume così il significato di una riconquista, di una riappropriazione e di una purificazione. L’ingrediente storico è il sale della sbobba nazista, il malsano nutrimento terrestre che ha alimentato il progressivo delinearsi dell’identità ariano-germanica. Radici ben piantate, tronco possente e ramificazioni estese all’intero Occidente: questo è l’albero mostruoso issato dal nazionalsocialismo sulla terra dissestata del centro Europa. La rilettura nazista della storia si riduce a una lotta tra razze, nello specifico la lotta tra una razza eletta e una infetta, condannata a perire in quanto inferiore. La netta demarcazione non può che appellarsi alla mitica dicotomia tra Apollo e Dioniso, laddove Apollo (dio nordico) è chiamato a incarnare la luce razionale dell’azione contro il buio passionale e passivo proprio dell’orientale dionisiaco. Lo sforzo principale della macchina nazista si concentra dunque in quest’iniezione identitaria somministrata per anni su un popolo bisognoso di riscatto, un popolo nei grandi numeri malleabile e sensibile alla Faszination del Führer. Nell’ottobre del ’33 all’inaugurazione del cantiere della Casa dell’arte tedesca (progettata da Paul Ludwig Troost) Hitler ha già in mente il plastico della sua nuova grande Germania. Contro quell’arte individualista e introspettiva che apostrofa come “degenerata” il Führer, coadiuvato dal fido architetto del Reich Albert Speer, progetta una rifondazione monumentale della grande arte classica greco-romana. Tra opere realizzate e altre rimaste su carta prende forma la grande messa in scena dell’epopea nazista. Monaco, Norimberga, ma soprattutto Berlino diventano le quinte teatrali della renovatio imperii, in attesa della fondazione di Germania, la nuova capitale vagheggiata da Hitler e mai edificata.

A Monaco, il 15 ottobre 1933, in occasione della Giornata dell’arte tedesca, venne portata in processione una grande statua raffigurante Pallade Atena. Tra templi, colonne d’Ercole, anfiteatri, piazze, stadi e apparati effimeri la nuova architettura monumentale del regime mira a stupire la collettività e a stabilire un legame indissolubile tra un passato aureo e un futuro di trionfi. Hitler segue con cura meticolosa la maggior parte dei progetti, dispensando consigli e fomentando il più possibile l’impatto dell’aulicità monumentale. Doveva essere chiaro che non si trattava di una mera imitazione della grande Antichità, ma di un’aderenza diretta, di un’affinità scritta nel sangue. Dal punto di vista psicologico l’architettura nazista agì prepotentemente sul popolo tedesco, abbagliato da tanta grandezza e orgoglioso di averla ereditata da antenati tanto illustri. Anche la nuova statuaria nazista rispose all’appello producendo i medesimi esiti, andando a esumare i canoni della perfezione policletea, la vitalità esuberante del corpo maschile turgido e atletico, intrinsecamente bello, espressione dell’arianesimo puro. Riaggiornati in allegorie funzionali ai dettami del regime i nudi scultorei neogreci di Arno Breker e Josep Thorack promuovono l’etnotipo dell’uomo nuovo, perfetto sotto ogni aspetto, giovane e forte, archetipo dell’ariano eletto. Una malcelata omofilia – diretta emanazione del noto cameratismo promosso durante il nazismo affinché gli uomini-soldati stringessero tra loro legami d’amicizia virile (e di riflesso omoerotica) – traspare da questa carne di pietra, una carne eroicizzata fino all’inespressività.

Sarà nei Giochi olimpici del 1936 che il corpo greco-germanico sfilerà in tutto il suo turgore. Qui l’agon sportivo coincide con quello guerriero. Il nuovo uomo tedesco non è che la reincarnazione del valoroso eroe ellenico, e lotterà con la medesima forza di spirito per arginare la minaccia del nemico giurato. Alla venustà nordica dell’ariano (slanciato, tonico, biondo con gli occhi azzurri) si contrappone la flaccida figura dell’ebreo, stigmatizzata da tanta vignettistica razziale come l’emblema della mortificazione corporea; il naso camuso, l’incarnato malaticcio, i capelli bruni, lo sguardo torvo e avido, il semita è l’anti-ariano per antonomasia, la prova inconfutabile che la mescolanza non ha prodotto buoni frutti. L’esaltazione del nobile ariano si forgia su questo suo rovescio, visualizzazione del nemico brutto e nocivo. La “soluzione finale della questione ebraica”, al di là delle mire sull’assetto economico-sociale, contemplava il progetto di una disinfestazione razziale affinché alla proliferazione della razza pura non si frapponesse alcun inconveniente. Indottrinamento storico e allenamento fisico, il tutto condito dalla campagna d’odio contro il nemico semita, e non ultima la fascinazione identitaria suscitata dal revival architettonico: ecco forgiato il perfetto suddito del Reich. Incamerando il motto di Giovenale mens sana in corpore sano il nazismo fa di sé una madre asettica generatrice seriale di corpi perfetti; ritemprati dallo sport e istruiti sugli exempla dei valorosi antenati questi corpi freddi e determinati avranno il solo scopo di difendere la razza, preservandola da ogni mescolanza semitica. È questo l’esercito allevato dal Terzo Reich, un popolo agonale in perenne tensione muscolare che sappia servire gli interessi della comunità. Contro ogni individualismo e intellettualismo l’uomo nuovo tedesco trova la sua identità e ragion d’essere nel gruppo, e più nello specifico nella razza, la sola che abbia diritto di esistere e di estendere i suoi domini sul mondo.

«La storia universale – scrive Hitler nel Mein Kampf – nel suo insieme non è altro che la manifestazione dell’istinto di conservazione delle razze.» Su questo concetto inquietante Hitler torna più diffusamente in un altro agghiacciante passaggio del suo libretto delirante «…Noi siamo tutti creazioni di una natura che, a quanto sappiamo, conosce una sola legge, una dura legge: una legge che assegna al più forte il diritto di vivere, e lo toglie al più debole. Noi uomini non possiamo emanciparci da questa legge. I pianeti ruotano secondo una legge eterna attorno a soli, lune e altri pianeti, e nell’infinitamente grande come nell’infinitamente piccolo regna un solo principio: il più grande determina il corso del più piccolo. E anche sulla nostra terra, noi vediamo che gli esseri viventi da sempre si combattono tra loro. Un animale vive solo nella misura in cui ne uccide un altro. Possiamo dire che si tratta di un mondo molto crudele, terribile, poiché l’esistenza dell’uno è legata alla distruzione dell’altro. Possiamo astrarci da questo mondo con lo spirito, ma, in realtà, noi viviamo completamente immersi in esso.» Più di ogni altro questo passo è illuminante per comprendere la disumanità idiota di un personaggio come Adolf Hitler, incapace (sono sue parole) di astrarsi con lo spirito, quindi privo della più labile forma di empatia. Il carnevale greco-romano inscenato dai nazisti, come dimostra Chapoutot, più che un travestimento è stato un denudamento, una svestizione rituale. Crollati i mausolei neodorici di Troost e quelli neoromani di Speer, espressioni pedanti di un kitsch mortifero senza eguali, non è restata in piedi altro che una sparuta schiatta di volgari criminali.

A distanza di tempo ci è dato di osservare tutto sotto la giusta luce. Orfani cronici i nazisti si sono attribuiti il meglio per poter brillare di luce riflessa. Privi di un’etica e di un’estetica proprie hanno fagocitato l’eredità universale lasciataci dai greci e dai romani restituendola, non senza ingenuità, sotto forma caricaturale. Il gioco è durato quel che doveva durare. Il sogno egemonico universale hitleriano era destinato a collassare fin dall’inizio. In Hitler sono albergate al contempo la megalomania d’annessione a oltranza e la consapevolezza di una fine imminente; glielo aveva d’altra parte insegnato la storia, con la caduta tragica della Grecia e dell’Impero romano (e il cerchio si sarebbe chiuso con la caduta del Terzo Reich). Ma è sul finale che Hitler intende dare il meglio di sé. La messa in scena della fine doveva essere il suo capolavoro, un congedo in pompa magna che avrebbe consegnato l’impresa eroica nazista agli allori del mito. «Il nazionalsocialismo – sintetizza bene Chapoutot – non sembra tanto preoccupato di vivere, di far schiudere una realtà in un tempo di cui si consentirebbe lo svolgimento, quanto piuttosto di morire, per eternarsi creando un mito memoriale. Questo desiderio di generare mito, desiderio mitogenetico, aderisce in un’efficace sinergia alla dimensione mitopoietica del nazionalsocialismo, visibile nell’affabulazione che investe l’Antichità, riscritta, riedita per i bisogni dell’ideologia.»

Nei sogni deliranti di Hitler le rovine monumentali dell’architettura nazista (al pari di quelle sopravvissute nei secoli del Colosseo e del Partenone) avrebbero testimoniato nel tempo la grandezza dell’irriducibile sostanza nordica, pronta a rifiorire in tempi meno avversi. Quelle rovine avrebbero parlato ai posteri, ai nostalgici, agli uomini nuovi del domani. Una visione decadente, di stucchevole nichilismo, propria della cosiddetta banalità del male. Già in fase di progettazione e costruzione Hitler aveva contemplato al fianco dei suoi architetti la ruina intrinseca in ogni edificio, lo spirito immortale esalato dalle macerie. Quei marmi ieratici e trionfanti, concepiti per incantare le folle e intimidire il nemico, occultavano già sotto patine lustre l’opaco grigiore delle tombe. Ciò che Hitler, vigliaccamente, non ha lasciato come ruina è il suo stesso corpo, per paura che venisse profanato. Ebbe cura di disfarsene, pianificò tutto, diede ordine di farsi distruggere e polverizzare. Vitalità e morte, emblematicamente avvinte l’una all’altra, hanno scandito ogni fase dell’apoteosi nazista. La certezza della fine, sorta di ultimo atto wagneriano, aveva sempre covato nel cuore oscuro di quell’ambizione megalomane, sprezzante d’ogni legge umana. Il 19 marzo 1945 Hitler ordina la distruzione di tutte le più importanti infrastrutture tedesche. È l’inizio della Finis Germaniae.

Massimiliano Sardina


Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 32 – Settembre 2017.

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