INERZIA DA STALKING | di Marco Cavalli

INERZIA DA STALKING

di Marco Cavalli

su Amedit n. 32 – Settembre 2017.

 

Qualche parola a margine del libro Senza Voce. Io vittima di stalking (Alter Ego, 2017) dell’avvocato Agron Xhanaj.

La sua proposta di modifica della legge sullo stalking è ineccepibile sotto il profilo giuridico. In linea di principio non si può negare a una persona perseguitata e incapace di difendersi il diritto di poter contare sull’aiuto dei congiunti.

Tuttavia c’è qualcosa di sbagliato nell’abitudine che sta prendendo piede in Italia di voler risolvere i problemi sociali a forza di  leggi. È sempre un cattivo segno quando una società civile delega i legislatori a decidere in vece sua. E quella italiana, stretta com’è tra paura, insicurezza e rassegnazione, ha preso il vizio di richiedere a gran voce provvedimenti miracolistici, ovvero legislativi, relativi a questioni che hanno origine nello stesso tessuto sociale.

Ci sono misure di legge le quali, cadendo su un terreno impreparato ad accoglierle, rischiano di complicare la situazione anziché aggiustarla. Lo si è visto con la legge sulla privacy. Prima che ce ne dessimo una, la violazione della privacy era un’eventualità; dopo, è diventata una certezza. È come se i cittadini avessero firmato un patto di sfiducia reciproca.

La modifica al disegno di legge sullo stalking rischia di produrre conseguenze simili. Pensata per tutelare le vittime di un reato particolarmente odioso, di fatto esprime l’impotenza della società civile a modificare i propri costumi o per lo meno a capire che cosa in essi contraddice la loro funzione.

A livello di opinione pubblica non è stata fatta alcuna seria riflessione critica sulle cause sociali dell’insorgenza dello stalking. Sollecitare ora l’intervento del legislatore significa obbligarlo a lavorare su questo vuoto di riflessione, per giunta fingendo di non vederlo. Forse quel che vuole la gente, che bussa alla porta del legislatore come a quella di un guaritore o di un cartomante, è questo: non vedere la propria parte di responsabilità, ignorare il ruolo attivo che le spetta nell’opera di contenimento e di repressione dello stalking.

Non si fa mai caso, per esempio, che il reato di stalking riguarda e presuppone i rapporti di coppia. In Italia, e non da oggi, la coppia coniugale o paraconiugale è un istituto intrinsecamente persecutorio. Il regime di mutua dipendenza su cui si sostiene, instaurato consensualmente, predispone la dipendenza forzosa che si crea tra stalker e vittima, la stessa dipendenza che rende arduo, se non impossibile, ogni soccorso portato alla vittima.

Non esiste un dispositivo di legge in grado di intervenire contro questo regime, tanto più che nessuno, dentro e fuori il Parlamento, si sogna di considerarlo criminogeno.

Del resto, come confidare sulla lungimiranza di una legge contro lo stalking quando ad approvarla è l’odierna classe politica italiana, il cui familismo è indistinguibile da quello del suo elettorato? Familistica è la mentalità dei nostri legislatori, la loro visione dei ruoli maschile e femminile e persino ciò che in questo quadro non si vede ma si sa che c’è: la concezione appropriativa della coppia, il suo stile di sopravvivenza protezionistico, il quale implica la gelosia sessuale, che a sua volta implica la coppia.

“Se è geloso/a, mi ama”: questo il sillogismo, reversibile, che fa da postulato alla relazione di coppia. Il circolo chiuso è rafforzato dall’inconcepibilità per principio di qualunque relazione che non sia di coppia. Le alternative sono giudicate effimere o patologiche perché non prospettano un legame di tipo esclusivo. Siccome in esse la gelosia non trova posto, non accumulano spessore sociale né affettivo. Non c’è modo di spezzare il circolo vizioso. Percorrendolo, la possessività legittima se stessa.

È una possessività disponibile a fare concessioni e a riconoscersi, se occorre, pericolosa, ma solo in casi estremi, definiti aberranti per evidenziare l’intima bontà del caso ordinario. In sé la coppia è considerata sacra, intoccabile. Internamente, si ritiene incorrotta. La sua caratteristica è la tendenza ad assolversi, qualunque azione compia. Se per la conservazione della propria autarchia deve pagare un prezzo altissimo, lo ostenta, ne fa un vanto.

Da vent’anni a questa parte l’ideologia della coppia riscuote un’approvazione unanime. Trovare il partner con cui mettere su famiglia, a costo di farne e disfarne più d’una, è diventata l’aspirazione massima dei giovani fin da giovanissimi. Il perché è chiaro. Essendo l’alibi per eccellenza, la famiglia assicura ai suoi componenti l’irresponsabilità. La società è responsabile, sempre; la famiglia, mai.

Di solito il protezionismo conduce alla paranoia, ad avere molti dubbi e poche certezze. Ma le certezze, nella coppia, sono più disastrose dei dubbi.

Una di queste è che ogni rapporto umano di natura extrasessuale coltivato al di fuori della coppia, quand’è protratto o approfondito oltre una data soglia, indeterminata, induce o incoraggia una relazione di natura sessuale. Ne consegue che tutti i rapporti sociali intrattenuti fuori dalla coppia vanno portati al suo interno in un modo o nell’altro. La paura di incrinare il sodalizio sessuale fa scattare l’obbligo di condivisione, obbligo subito rivenduto all’esterno quale unica scelta che valorizza la libertà di condivisione in seno alla coppia. Il risultato è un ménage claustrofobico all’insegna del ricatto e dell’intimidazione.

Ingente è il collaborazionismo prestato dalle donne a questo clima culturale favorevole allo stalking. Un collaborazionismo tanto più incomprensibile in quanto la donna, che proietti se stessa nella relazione di coppia o ne abbia una in corso, è al presente un soggetto iper-vittimizzato. Vittima per tradizione storica, lo è in qualità di soggetto economico costretto a marciare al passo coi tempi dentro il mercato del lavoro e a segnare il passo in famiglia.

Il mondo degli affari e della politica è affollato di donne che rinnegano nella vita privata i miglioramenti che hanno ottenuto nella vita economica e sociale. Protagoniste in campo lavorativo, nel rapporto a due ridiventano sottomesse, arrendevoli; oppure usano l’arrendevolezza in modo aggressivo, tornano a fare le femmine. L’arrendevolezza appartiene al corredo della femminilità. E le donne disposte a rinunciare alla vita, a molte vite, pur di conservare la femminilità, sono tuttora la maggioranza.

Malgrado l’Italia sia un’aggregazione di nuclei famigliari che non riescono a coagularsi in una società; malgrado intorno alla famiglia, a fare da tessuto connettivo, non esista una società civile degna di questo nome, ancora oggi non c’è parlamentare donna che non attribuisca alla famiglia un’importanza meno che centrale. L’orizzonte di riferimento delle professioniste della politica, ristretto alla relazione sentimentale con un uomo e alla maternità, è il medesimo della sventurata protagonista di Senza voce. Ma a lei nessuno ha detto che a renderla così facilmente raggiungibile dal suo persecutore è proprio la ristrettezza di quell’orizzonte.

Quando uno stalker può farsi spiegare dalla sua vittima le ragioni per cui la perseguita, la vittima, da indifesa che era, diventa predestinata. Messa con le spalle al muro da una possessività che lei stessa identifica con l’amore, sente vacillare le proprie ragioni di sopravvivenza.

Se la vittima per prima non crede che la sua reazione abbia senso, allora ciò che le fa lo stalker diventa l’unica cosa sensata da provare. Il comportamento dello stalker la libera rispetto a ciò che potrebbe fare, le toglie l’incertezza di agire in un senso che, per sperare di andare a effetto, dovrebbe essere stabilito da lei. Perdute la dignità, la speranza, la fiducia, rimane il dolore: almeno quello è sicuro. La vittima si scopre vincolata a chi glielo infligge, talvolta fino al dolore massimo, il dolore che finisce dove finisce la vita.

Disarmata dallo stalker non è soltanto la vittima ma l’intera opinione pubblica che indica nell’amore romantico, ancorché morboso, il movente degli atti di persecuzione. Invece l’aspetto davvero impressionante dei casi di stalking è il loro retroscena di idiozia.

Al fondo del comportamento dello stalker non si trova mai una motivazione di ordine personale, una passionalità distruttiva, qualcosa di irriducibile alle statistiche criminali e che illumini sul carattere dell’individuo. Più che perseguitare ossessionato da un sentimento, lo stalker sembra chiedere alla persecuzione di procurargli dei sentimenti. Un po’ come quel vigile del fuoco di Pavia (nota bene: volontario) che appiccava roghi e poi correva a spegnerli “per provare il brivido di arrivare sul posto a sirene spiegate”.

Anche quando uccide, lo stalker sembra farlo per cieca ubbidienza allo schema persecutorio. La sua è la stupidità di chi si butta nella gola spalancata della violenza credendo che l’epilogo sanguinoso di una storia basti a farla esistere, a darle una solennità tragica, a emozionare. Dalle cronache di femminicidio conseguente a stalking emerge una mancanza di odio che è allarmante, e non solo perché i giornalisti la chiamano col nome del sentimento opposto all’odio. Allarma perché la mancanza di odio non costituisce un freno ma un incentivo a uccidere.

La violenza dello stalker somiglia a quella di un virus, di un microbo. È impersonale, inumana più che disumana. Drammatizzarla serve solo a diffondere l’atmosfera di paura e di paranoia in cui virus del genere prosperano.

A essere temibile è la commedia sociale anteriore alla persecuzione, l’incubo rosa confetto della famiglia alla Mulino Bianco, là dove lo stalker e la sua vittima si tengono teneramente per mano affondando insieme nell’insignificanza di un programma di vita che non corrisponde mai alla pubblicità che ne viene fatta.

Marco Cavalli

LEGGI ANCHE: 

SENZA VOCE – IO VITTIMA DI STALKING | Un libro di Agron Xhanaj | Intervista all’autore


Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 32 – Settembre 2017.

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