di Massimiliano Sardina
su Amedit n. 32 – Settembre 2017.
Lo scrittore tedesco Ernst Wiechert (1887-1950), acceso e fiero antinazista, scrisse La selva dei morti (Der Totenwald. Eine Mauer um uns baue) nel 1939 per testimoniare quanto i suoi occhi furono costretti a vedere nel campo di concentramento di Buchenwald. Fu arrestato l’8 maggio 1938 e liberato verso la fine di agosto. Prima la “detenzione protettiva” nel carcere della Gestapo a Monaco di Baviera e poi l’internamento punitivo nel lager. Un triangolo di tessuto rosso cucito sulla giacca, con su scritto il numero 7180, lo contrassegnava quale prigioniero politico, un detestabile oppositore del Terzo Reich. Una prigionia breve, se brevi possono considerarsi quattro mesi sottratti definitivamente al tempo della vita, ma scontata in un frangente dilatato, scandito da notti dolorose e da giorni interminabili, rimarcato, al di là degli alti reticolati elettrificati, dalla muta impassibilità dei faggi. Buchenwald significa letteralmente “selva di faggi”.
La colpa di Wiechert? Non essersi allineato, alla stregua di tanti intellettuali suoi connazionali, non essersi genuflesso agli altari del Führer, non aver taciuto il dissenso tanto nelle occasioni pubbliche quanto nella corrispondenza privata. Quando gli agenti della Gestapo perquisirono il suo studio prelevarono esattamente quello che si aspettavano di trovare: prove nero su bianco della sua scomoda infedeltà. All’origine dell’arresto un’imprudenza di troppo, forse l’occasione che la Gestapo aspettava per zittire definitivamente la sua intollerabile disubbidienza. Wiechert aveva osato schierarsi in difesa di Martin Niemöller, un pastore luterano, reo d’aver criticato apertamente il processo di nazificazione delle chiese protestanti e di essersi pronunciato contro l’odioso “paragrafo ariano” (che estrometteva gli ebrei dall’adesione a circoli e corporazioni). Il pastore subì un processo e nonostante l’assoluzione venne internato prima a Sachsenhausen e poi a Dachau. Sprezzanti della giustizia e di ogni forma di dialogo democratico i nazisti avevano affinato una modalità infallibile per assicurarsi il consenso: la brutalità, null’altro all’infuori d’una zelante e compiaciuta violenza.
Una natura sensibile quella di Wiechert, profondamente cristiana ma al contempo attiva e combattiva (come dimostrano i suoi romanzi, molto apprezzati dal pubblico tedesco dei primi anni Trenta). Autore tanto celebre quanto indesiderato (schedato nella lista nera degli intellettuali oppositori) Wiechert era noto anche in Italia soprattutto per i romanzi La serva di Jürgen Doskocil e La signora (pubblicati rispettivamente nel ’34 e nel ’36). Prima di consacrarsi definitivamente alla letteratura Wiechert si era dedicato per diversi anni all’insegnamento, non perdendo occasione nel corso delle sue lezioni di esprimere legittime perplessità sull’operato del nuovo Stato totalitario.
La selva dei morti vide la luce nel nostro paese nel 1947, per Mondadori, con la traduzione di Lavinia Mazzucchetti; l’attuale edizione Skira (con postfazione di Eileen Romano) ripropone, opportunamente ammodernata, questa prima traduzione italiana. Wiechert vergò la sua testimonianza pochi mesi dopo la scarcerazione, ma per prudenza ne occultò il manoscritto fino all’anno della pubblicazione avvenuta solo nel 1946. Pur se scarcerato rimase fino all’ultimo un sorvegliato speciale, con l’obbligo di non manifestare più la minima opposizione. Già dal ’33 Wieckert, in occasioni pubbliche e per iscritto, aveva criticato aspramente la macchina hitleriana, esortando a una presa di coscienza collettiva. Esporsi era rischioso. Nessun cittadino tedesco, operaio o intellettuale che fosse, poteva dirsi al sicuro. Già dalla metà degli anni Trenta o si era con la Nuova Germania o si era contro la Nuova Germania, solo qualche labile e sporadica sfumatura poteva essere tollerata su un uomo di lettere, ma nulla di più. Il nazismo pretese e ottenne l’ossequio unanime, pena l’internamento nei campi che nella maggioranza dei casi significava la morte certa. Wiechert fu certo fortunato poiché, come si è detto, la sua prigionia fu tutto sommato breve. Venne rilasciato con ammonimento. Un altro passo falso, un’altra provocazione e sarebbe ritornato a popolare la selva dei morti.
Ecco spiegato il seppellimento del suo memoir in una buca scavata nel giardino di Gagerthofs; se il manoscritto fosse capitato nelle mani dei nazisti per lui sarebbe stata la fine. Era già stato graziato, ora doveva rigare dritto e uniformarsi ai dettami del Reich. È attraverso il medium del romanzo che Wiechert sceglie di consegnare al mondo la sua testimonianza. Il resoconto diaristico s’appella al filtro della narrativa per suggellare d’eternità il linguaggio. Una distanza necessaria che risponde a un’esigenza tutta interiore di riappropriazione e congedo. Al protagonista Wiechert consegna così il nome simbolico di Johannes, ribattezzato dalla burocrazia nazista con la svilente impersonalità di una cifra numerica. L’ingresso al campo – tappa finale dopo l’anticamera del carcere e la deportazione in vagoni da bestiame – coincide con un graduale iter di spersonalizzazione. Smessi i panni dello scrittore, del cittadino e più in generale dell’individuo, Johannes veste quelli dell’uccello da letamaio e di troia selvatica, così venivano apostrofati gli 8.000 prigionieri del campo. Ridotto a un numero, delegittimato come essere umano, Johannes si ritrova a sopravvivere in una terra di nessuno, luogo dimenticato da Dio e dalla civiltà dove vige solo la legge del più forte sul più debole, la legge della più cruda violenza esercitata sull’inerme innocenza. In Turingia il campo di concentramento di Buchenwald era chiamato Totenwald, ossia la “selva dei morti”.
Privato dei suoi affetti più cari, della sua casa, dei suoi amati libri, Johannes si ritrova catapultato in un mondo fatto solo di fango, di feci e di putride baracche. Nello spiazzo del campo, area dell’appello mattutino, issata su un alto basamento svettava una forca. Oltre le recinzioni, puntellate dalle torrette di controllo, spuntavano le cime dei faggi, ideale linea di demarcazione tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Tra lavori forzati, inedia, sporcizia, ingiurie e percosse si barcamena un esercito di ombre immote, poco più che scheletri, sempre sul punto di cedere, laddove cedere equivaleva a una scarica di bastonate o a un viaggio di sola andata su per il camino. “Passare per il camino” era il solo modo di uscire da Buchenwald. Su tutto svettava il fumo, una coltre acre e densa esalata da quel Moloch di pietra che, minaccioso e imperturbabile, dominava la desolata miseria del campo. Il racconto di Wiechert nel suo complesso non differisce dalle testimonianze (storiche, diaristiche, epistolari) tramandataci da tanta altra letteratura (coeva o di poco successiva) sul tema. Ritroviamo lo stesso copione, lo stesso campionario (aggiornato alla luce dell’esperienza personale), con le dovute varianti che riconfermano quel tristo quadro d’insieme fin troppo noto. Armato d’una scrittura lucida ed efficace, tanto scarna quanto pregnante, sempre suffragata da una fede corroborante, Wiechert ci trascina nel ventre fangoso del lager costringendoci a vedere, affinché il lettore possa a sua volta divenire testimone. Wiechert scrive «per la memoria dei morti, per la vergogna dei vivi e per ammonimento ai posteri» urlando a gran voce la verità di una realtà umanamente inaccettabile, quella verità che i volenterosi carnefici si adoperavano con ogni mezzo di falsare o di nascondere.
A Buchenwald si celebrava quotidianamente la profanazione dell’umanità, costretta tra il fango e il fumo, denigrata, annientata. «Erano state infrante giustizia e legge, umanità e gratitudine, decenza e moralità (…) lì non si voleva né punire, né correggere, né far scontare. Lì si voleva soltanto uccidere, così come l’assassino uccide i suoi testimoni.» In quale altro luogo i medici prendono a sassate i loro pazienti? In quale altro luogo i vecchi, fiaccati dalla fatica, muoiono freddati da un colpo di fucile? A Buchenwald, né più né meno che in tutti gli altri campi nazisti, la morte poteva sopraggiungere per una banale inezia, per una parola di troppo, per un istante di riposo strappato all’estenuante fatica, per il furto di una buccia di patata, ma per lo più si moriva senza ragione, a capriccio dell’efficiente aguzzino di turno. Wiechert, spettatore e protagonista dello scempio, cristo tra i cristi, cerca di memorizzare quanto più possibile. Piegato dal dolore e provato dalla fame, percosso sul corpo cagionevole e sull’anima sensibile, si sforza di trattenere ogni brandello di quella realtà lacerata. Forte che «una speranza incatenata è pur sempre una speranza» e che «oltre le stelle Egli deve abitare» avverte fin dall’inizio l’urgenza di dover un giorno raccontare, al fine di lenire almeno un po’ l’enormità di tutto quel male. Incapace di «passare come una pietra» Wiechert si fa spugna per accogliere il flusso continuo di dolore, un dolore collettivo, condiviso, trasudato da corpi svuotati, tronchi rinsecchiti di una foresta abortita dalla natura. «(…) tutto appariva come una visione di dannati, un sortilegio affiorato dai regni infernali, che nessun pennello di pittore, nessuna punta di incisore avrebbero mai potuto rappresentare, poiché non esistono fantasia umana e neppure sogno geniale che si adeguino a una realtà che non ha pari da secoli, e che forse non ne ha mai avuti.»
Quel che è per sua natura irrappresentabile – una visione di tale orrore fatica a fissarsi in una restituzione segnica o verbale, se non per vaga approssimazione – si configura però nell’indimenticabile. A prevalere è la frustrazione assoluta dello scrittore al cospetto dell’inenarrabile. E Wichert sa bene che può di più il silenzio e più ancora il pudore, può di più quello spazio bianco tra le righe che mille trascrizioni. Una geometria perfetta quella tra vittime e carnefici, nessuna intermediazione, niente che potesse gettare un ponte tra questi due mondi inconciliabili. Nei volti vacui e inespressivi dei capetti nazisti Wiechert non può che rimirare la maschera della più gratuita crudeltà, una smorfia compiaciuta di frigida impassibilità, la negazione della più flebile empatia. Con La selva dei morti Wiechert ci consegna «la verità, la pura verità e nient’altro che la verità», a dispetto d’ogni ciclico negazionismo, nella convinzione che dall’indimenticabile può germinare «qualcosa di più che l’amaro frutto dell’odio». Una testimonianza nuda, redatta in pieno nazismo, quindi non filtrata dall’incubazione del tempo. Un testo fondamentale per tentare di comprendere le ragioni del male, sempre in agguato nel cuore oscuro degli uomini.
Massimiliano Sardina
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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 32 – Settembre 2017.
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