di Massimo Pignataro
su Amedit n. 32 – Settembre 2017.
È la storia di un amore mancato – sospeso, inespresso, taciuto – quello che la scrittrice inglese Rose Tremain ha affidato alle pagine di Gustav sonata (edito in Italia da 66thand2nd, 2017, nella traduzione di Fiorenza Conte). Un amore silenziosamente custodito dentro un malcelato riserbo, nato in tenerissima età e protratto nel tempo. È l’amore di Gustav Perle per Anton Zwiebel. I loro sguardi si incrociano per la prima volta sui banchi dell’asilo nella primavera del 1948.
Siamo nella piccola cittadina di Matzlingen, nella regione svizzera del Mitteland compresa tra il Giura e le Alpi. Il cuore dell’Europa ha ripreso faticosamente a battere, ma le ferite inferte dal nazionalsocialismo non si erano ancora rimarginate. Anche la neutrale Svizzera, a modo suo, aveva fatto la guerra. Anton è figlio di un banchiere ebreo trasferito d’ufficio da Berna a Matzlingen. Abita in un appartamento lussuoso e studia per diventare un grande pianista. Gode dell’affetto e della protezione dei suoi genitori, che per lui sognano le luci dei grandi palcoscenici. È un bambino introverso ma determinato. Piange per gli amichetti lasciati a Berna ma in Gustav trova subito un appiglio, un sostegno, un calore inatteso. Figlio della vedova Frau Emilie Perle, Gustav è invece un bambino povero che si adopera come può per non pesare sul bilancio familiare. La sua Mutti, così la chiama affettuosamente, guadagna una misera paga lavorando in un caseificio specializzato nella produzione di emmenthal. È una donna arida, fredda, con alle spalle un passato difficile. Aveva assaporato la felicità sposando Erich Perle, vice capo della polizia di Matzlingen, ma un infarto glielo aveva portato via poco prima che Gustav venisse al mondo. Risollevatasi a fatica ora trascinava la sua vita, schiacciata da un passato che le gravava addosso inesorabile. Amava suo figlio, si faceva in quattro per dargli da mangiare e per pagargli le ripetizioni, ma lo amava di un amore trattenuto, mai avvolgente. Gustav era sempre lì ad elemosinare il suo calore, la sua protezione. Solo, in un mondo incomprensibile.
«Non piangeva mai. Spesso sentiva un pianto che cercava di uscirgli dal cuore, ma lo ricacciava sempre giù. Perché questo era il modo in cui Emilie gli aveva detto di comportarsi nel mondo. Doveva essere padrone di sé. Il mondo era pieno di ingiustizie, gli aveva detto, ma Gustav doveva emulare suo padre, che quando aveva subito un torto aveva dimostrato grande contegno.» Solo così avrebbe potuto fronteggiare il futuro. «Perché perfino in Svizzera, che non era stata toccata dalla guerra, nessuno sapeva che piega avrebbe preso il domani.» Nella famiglia del nuovo amico Gustav trova rifugio e benessere. La bella signora Zwiebel lo porta a pattinare, gli prepara gustose merende e lo riempie di attenzioni. Tra i due piccoli il legame cresce anno dopo anno, nutrito da un sentimento misterioso. Si giurano lealtà e si confidano i loro segreti più riposti: Gustav trova la forza di parlare di Ludwig, un vicino di casa che aveva tentato in un’occasione di molestarlo, mentre Anton gli parla di Romola, la sua sorellina morta. La reciprocità, sancita da un patto di sangue, seguirà però due vie divergenti destinate a ricongiungersi decenni più tardi.
In una vacanza a Davos i due bambini, passeggiando tra i boschi, si imbattono in un vecchio edificio abbandonato, il sanatorio per tubercolotici di Sankt Alban. Qui decidono di inscenare uno strano gioco, improvvisandosi dottori di malati immaginari. Muovendosi tra vecchi letti arrugginiti decidono chi guarire e chi lasciar morire. Agisce in loro, nell’innocente inconsapevolezza, una memoria storica segnata dall’orrore (una memoria che, da grandi, avrebbero compreso e elaborato). Protetti dalle dinamiche del gioco, vestendo l’uno i panni del salvatore e l’altro del salvato, Gustav e Anton si baciano. Purezza e perfezione si cristallizzano in quest’istante misterioso, tagliato fuori dal tempo. Un istante che agirà prepotentemente sulla vita di entrambi, condizionandone i destini. Il gioco, l’ultimo giorno di vacanza, si conclude con il fuoco. Adiacente alla struttura i due rinvengono un vecchio forno diroccato (il crematorio dei morti per tubercolosi) e ci gettano dentro simbolicamente Ludwig. Rientrati a Matzlinger Gustav e Anton seguiranno i flussi delle reciproche vite, stretti da un sottinteso amore ma al contempo separati, proiettati altrove. Anton inseguirà senza successo il sogno di diventare un acclamato pianista, e Gustav si ritroverà a gestire un piccolo albergo. Codardia? Asincronismo? Paura?
A un preludio così precoce fece seguito una sonata incompiuta, destinata a realizzarsi solo alla soglia dei sessant’anni, all’epilogo di due vite rimaste inspiegabilmente sospese. In muta attesa quella di Gustav – addestrato ad amare senza essere riamato, ad occuparsi degli altri incondizionatamente – più fuggevole e tormentata quella di Anton, incapace di suonare in pubblico (e di amare alla luce del sole). In amore però, ci suggerisce l’autrice, non è mai tardi. «C’è una strada, Gustav. Tu lo sai che c’è. (…) Dobbiamo diventare le persone che avremmo dovuto essere.» Parallela a quella di Gustav e Anton scorre un’altra storia, che dalla piccola Matzlingen si allarga all’intera Europa. L’eroe di questa storia è il padre di Gustav, il vice capo della polizia di Matzlingen Erich Perle. Rose Treiman cuce parzialmente su questo personaggio di fantasia la figura di Paul Grueninger, capo della polizia del Cantone di San Gallo nel 1938 (desumendone la storia da Switzerland Unwrapped: Exposing the Myths (1997), di Mytia New. La Svizzera in quegli anni era meta ambita di molti ebrei in fuga dagli stati confinanti, che qui trovavano riparo in attesa di tempi migliori. La Israelitische Flüchtlingshilfe, un’organizzazione ebraica per l’assistenza ai rifugiati, collaborava attivamente con i dipartimenti di polizia svizzera. Quello che si stava abbattendo sugli ebrei era chiaro a molti, ma alle politiche d’accoglienza si univa anche il timore della Überjudung (un sovraffollamento di ebrei), che avrebbe potuto compromettere i rapporti con il Terzo Reich e trascinare il paese in guerra.
Il 18 agosto 1938 giunge una direttiva dal Ministero di giustizia di Berna: tutti gli ebrei (tedeschi, austriaci e francesi) che dopo questa data tenteranno di varcare il confine elvetico dovranno essere rispediti a casa. Erich Perle, mosso da umana compassione, trasgredisce agli ordini superiori e comincia a falsificare le date d’ingresso in Svizzera di molti rifugiati. Così facendo salva molte vite sacrificando la sua. Scoperto l’imbroglio viene spogliato dell’uniforme, cacciato dal bell’appartamento assegnatogli dall’arma e ridotto in miseria. Emilie, sua moglie, cade in miseria con lui. I rapporti si guastano dolorosamente e tutto precipita. Erich, disorientato, imbastisce una relazione extraconiugale con Lottie (la moglie del suo capo), mentre Emilie, con tutti i suoi sogni infranti di una vita perfetta, torna a vivere dalla sua odiata madre. Mentre Erich risorge e si danna in questa nuova passione amorosa, Emilie fa bersaglio gli ebrei di tutte le sue sventure. Tornerà indietro e tenterà di ricucire la storia con suo marito attraverso una gravidanza. Erich cede, ma senza convinzione. Poi l’infarto sui gradini di casa della sua amante. È in quest’atmosfera che viene al mondo Gustav. Dovrà crescere al fianco di una madre cui il destino aveva negato la felicità. Ma crescerà comunque, a sue spese, acquisendo dolorosamente la padronanza di sé e il coraggio di agire. Solo da adulto, attraverso Lottie, ricomporrà il nobile affresco del padre acquisendo così una nuova consapevolezza. A dispetto del tempo tutto si riformula. Anton ricompare nella vita di Gustav per non uscirne mai più. Sarà Davos a riaccoglierli, non più in un sanatorio ma in una splendida villa immersa nel verde. Il preludio finalmente si fa sonata. Rose Tremain ci consegna una grande storia di esistenze condannate e incompiute che trovano la forza di rigenerarsi.
Massimo Pignataro
Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 32 – Settembre 2017.
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