HIKIKOMORI
Giovani eremiti in fuga dalla società
di Giuseppe Maggiore
Di Hikikomori si parla sempre più spesso e, secondo le previsioni, questo termine di origine nipponica, il cui significato letterale è “stare in disparte, isolarsi”, sarà destinato in tempi brevi a diventare di uso comune anche nel nostro linguaggio. Si tratta di un fenomeno sociale che a partire dagli anni Ottanta ha interessato il Giappone e che oggi si sta diffondendo in tutti i paesi dell’Occidente industrializzato, dall’Europa agli Stati Uniti. Coniato dallo psichiatra giapponese Tamaki Saitō, il termine si riferisce sia al fenomeno in sé sia ai soggetti coinvolti. Secondo le stime, nel solo Giappone circa un milione di persone sono hikikomori, mentre in Italia sembra siano almeno 30.000 i casi accertati. Si tratta di adolescenti e giovani adulti, il più delle volte appartenenti al ceto sociale medio-alto, che decidono deliberatamente di isolarsi del tutto dalla vita sociale, rinchiudendosi nella propria camera, per mesi o addirittura anni, senza intrattenere più alcun contatto col mondo esterno. Sembrerebbe un fenomeno tipicamente maschile, ma questa può essere solo un’apparenza che muove dai classici stereotipi di genere, poiché in Giappone, come nel resto del mondo, le aspettative e le pressioni di realizzazione sociale sono ancora molto più forti sugli uomini che sulle donne, il che fa sì che in queste ultime venga spesso ignorato.
Le prime avvisaglie si manifestano in genere con l’abbandono della scuola per poi evolversi in un progressivo isolamento anche dai rapporti sociali. Il distacco che l’hikikomori opera si fa man mano sempre più radicale, respingendo ogni forma di relazione, sia con la propria famiglia sia con amici e conoscenti. La sua stanza si trasforma in un luogo di reclusione volontaria al quale nessun altro può accedere, una sorta di eremo o di guscio che lo fa sentire protetto e al sicuro. Al suo interno si crea un mondo tutto suo; un mondo che si esaurisce in pochi metri quadri, le cui fragili pareti diventano invéro inespugnabili come una fortezza. In questo mondo angusto, senza cielo e senza astri, senza paesaggi da ammirare né strade da percorrere, manca tutto ciò da cui l’hikikomori fugge: niente sguardi da incrociare né discorsi da intavolare; nessun progetto da realizzare o scadenze da rispettare, e niente voti né pretese, obblighi da assolvere o scelte da dover compiere. In breve ciò che manca veramente sono soprattutto loro, gli altri: coloro che decretano simpatie o antipatie, consenso o disapprovazione, quanti pretendono da te dei risultati avanzando continue attese e aspirazioni più o meno legittime… Nessuno, finalmente!
L’hikikomori chiude la porta al mondo, gli volta le spalle, lo esclude dalla sua vita, e così facendo non si limita solo a metterne in discussione principi e valori, ma esprime anche un rifiuto verso tutte quelle formazioni sociali attraverso le quali ciascun individuo stabilisce il proprio ruolo nella società. La famiglia, la scuola, il lavoro, le associazioni, la politica, ovvero tutto ciò che struttura lo Stato costituisce un apparato a cui lui si sottrae ritirandosi in un totale isolamento. Con la sua fuga dal mondo l’hikikomori si presta a essere un eremita dei giorni nostri, ma anche l’espressione di un ego che si autoproclama dignità autonoma, scissa, in tutto o in parte, da tutto ciò che rappresenta un dato sistema sociale. L’aspetto che più connota questo moderno eremitaggio è quello attinente alla sfera comunicativa: nel suo processo di alienazione dal mondo il giovane hikikomori, infatti, non rinuncia completamente al bisogno di comunicazione, anzi, in molti casi intensifica le sue interazioni, sebbene su un piano esclusivamente virtuale, tramite internet e la chat. All’identità reale sostituisce un avatar o dei profili fittizi, alle relazioni personali vere preferisce quelle virtuali che gli consentono di mantenere un certo distacco e anonimato; il suo è un mondo desolato, ma al tempo stesso popolato da personaggi di fantasia, tratti dai manga, dai film o dai libri. Nel perdurante isolamento l’hikikomori può quindi sviluppare tutta una serie di comportamenti tipicamente solipsistici; l’uso compulsivo di strumenti tecnologici, come appunto internet o la televisione, giochi online o la lettura di libri restano le sue uniche attività quotidiane; la stanza finisce col diventare una sorta di prigione dalla quale non riesce più ad uscire. Se vive in casa con la famiglia si fa lasciare i pasti davanti alla porta e per assolvere ai bisogni fisiologici esce dal proprio rifugio solo quando è sicuro di non essere visto. Se invece vive da solo esce per sbrigare certe incombenze, come il fare la spesa, in orari insoliti e percorrendo strade in cui è meno probabile incontrare altra gente. Questi comportamenti lo portano a seguire un proprio ciclo circadiano, in cui le attività del giorno e della notte vengono invertite.
Quella che, almeno in uno stadio iniziale, poteva passare come una legittima pausa di riflessione, un periodo di isolamento più o meno prolungato per ritrovare se stesso, o tutt’al più solo il comportamento tipico di una persona timida e introversa, man mano che si va avanti assume i contorni di una situazione ben più complessa e drammatica. Quando i segnali si fanno più evidenti e preoccupanti siamo ormai di fronte alle estreme conseguenze di un processo che magari abbiamo sottovalutato o a cui non si è prestata adeguata attenzione. L’autoreclusione protratta per molto tempo fa scivolare l’hikikomori in uno stato d’inerzia sempre più totalizzante, che si tradurrà, non solo in una perdita d’interesse verso qualunque cosa o attività, ma anche nel progressivo annientamento di tutte quelle facoltà sociali e comunicative necessarie a interagire con il mondo reale. Ed è questo il momento in cui egli si ritrova in un punto di non ritorno, un vicolo cieco che, se da un lato non lascia agli altri alcuna via d’accesso, non lascia a lui alcuna via d’uscita. Sono proprio questi ultimi aspetti a fare assumere all’Hikikomori tutta la parvenza di una malattia. Trattandosi di un fenomeno relativamente nuovo per molti paesi, anche tra i medici regna ancora una certa confusione, finendo talvolta con l’essere scambiato per altre patologie psichiatriche, come la depressione, o fatto rientrare nella casistica delle fobie e dei disturbi d’ansia, come l’agorafobia. In realtà, il Ministero della Salute del Giappone ha stabilito già nel 2013 che l’Hikikomori non è una malattia ma una scelta volontaria che il soggetto fa, come atto di ribellione a un dato sistema culturale e sociale. Risulta però evidente che l’isolamento prolungato porta man mano all’insorgenza di sintomi patologici, come disturbi dell’umore, stati d’ansia, depressione, comportamenti ossessivo-compulsivi, manie di persecuzione, e può tra l’altro sfociare in forme di aggressività, specie nei confronti dei propri genitori. L’Hikikomori non è dunque una malattia ma può diventarlo.
Il più delle volte si tratta di una persona estremamente intelligente e dotata di una forte componente narcisistica la cui autostima ha subito un forte trauma derivante dal confronto con gli altri. La sua particolare sensibilità lo porta a sviluppare una riflessione critica sul mondo che lo circonda, da cui trae un giudizio negativo che lo induce a opporvi il suo netto rifiuto. La fuga scaturisce sì da ragioni riconducibili a un malessere interiore, a un più profondo quanto inesplicabile disagio e senso di inadeguatezza nei confronti della società, ma ciò non fa di lui necessariamente un malato. Piuttosto potremmo considerare l’hikikomori come il figlio nato dal grembo di una società malata. L’antropologa Carla Ricci (Università di Tokyo), in un’intervista rilasciata a “Hikikomori Italia” (sito creato da Marco Crepaldi), dice: «Hikikomori è un fenomeno che riguarda i giovani che, da sempre, in qualsiasi Paese del mondo, non essendo ancora completamente assuefatti al sistema, sentono la vita più intuitivamente di quanto facciano gli adulti (…) rappresenta uno dei tanti esiti imprevisti delle società contemporanee più “ricche”. La società è sempre più complessa, più competitiva, più arrogante ed anche più tecnologica, ma senza la preparazione psicologica dei suoi soggetti ad esserlo. (…) quei giovani hanno colto senza saperlo l’oscurità che regna “fuori” e fuori non ci vogliono stare, anche se non ne sanno i motivi.»
L’Hikikomori può quindi essere interpretato come un legittimo senso di repulsione che il giovane sviluppa nei confronti di un mondo sempre più incapace di saper cogliere le sue reali necessità o aspirazioni. Un meccanismo di difesa che egli attua in risposta alle sempre più pressanti richieste di autoaffermazione, che dalla scuola al mondo del lavoro agiscono su di lui imponendogli standard di successo personale sempre più alti e competitivi. Di conseguenza, possiamo vedere nell’hikikomori non la malattia ma un suo effetto, le cui cause vanno ricercate e affrontate nel sistema di valori che una società fa proprio, nelle dinamiche relazionali sia dentro che fuori la famiglia, con un particolare riguardo anche ai modelli di vita, spesso prestabiliti e omologanti, che vengono imposti. Un aspetto affatto trascurabile è indubbiamente la capacità che dimostriamo nel saper comprendere, accogliere e rispettare il dono della diversità che si esprime in ciascun individuo, colto nella sua unicità. È importante prestare attenzione al tipo di approccio che famigliari, amici o compagni di scuola hanno usato nei confronti del ragazzo prima che questi diventasse un hikikomori. Dietro può nascondersi infatti solo una persona di indole più fragile e timida che ha finito col ripiegarsi su se stessa attraverso un’eccessiva accondiscendenza verso personalità più forti ed esuberanti; un comportamento che a lungo andare ha generato in lui un senso di prostrazione psicologica e l’amara constatazione di essersi ridotto, suo malgrado, all’aver delegato il potere sulla propria vita e sulle proprie scelte ad altri. Genitori anafettivi o eccessivamente protettivi, padri assenti o madri troppo presenti, casi di omofobia o episodi di bullismo adolescenziale possono essere altrettanti fattori determinanti nella formazione di un hikikomori. Per approfondire l’argomento consigliamo la lettura del recente Hikikomori – nuova forma di isolamento sociale, di Iveta Vrioni (Youcanprint, 2017).
Giuseppe Maggiore
Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 31 – Giugno 2017.
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