ACCIDIA | Il vizio dell’indifferenza
di Giuseppe Maggiore
Non nella virtù ma nel vizio si rivela l’uomo. Per valutare il sistema valoriale della società contemporanea possiamo indagarne vizi e virtù, facendo di questi i nostri più plausibili riferimenti. Nello scorso numero di Amedit ci siamo occupati dell’avarizia, definendolo “il vizio della modernità”. Abbiamo visto come certi vizi sfumino l’un nell’altro e come spesse volte riescano a celarsi sotto le mentite spoglie della virtù. Riuscire a discernerli non è sempre impresa facile, soprattutto quando alcuni di essi pare abbiano perso quella connotazione negativa che gli si dava in passato. Con l’evoluzione dei tempi e della società civile infatti, anche i vizi si evolvono e si trasformano. Oltre che nella tecnica e nell’intelletto, l’uomo si è affinato anche nella gestione dei propri vizi, i quali rimangono perlopiù invariati ancora oggi, sebbene meglio dissimulati in nuove e più convincenti maschere. Alcuni vizi in particolare sembrano per loro natura più confacenti all’uomo moderno che non a quello delle epoche passate, godendo oltretutto di una piena legittimazione che li ha finalmente riscattati dall’antica onta di riprovazione. L’accidia è proprio uno di questi e la presente epoca quella che più ne celebra l’apoteosi. Un vizio che sa essere al tempo stesso triste e gaudente, e perciò stesso immagine e riflesso di questa tanto svagata quanto complessata società moderna.
Si è sempre parlato troppo poco di accidia, e tuttora appare tra tutti i vizi quello più oscuro e misterioso. Nell’antica Grecia il termine ἀκηδία indicava lo stato d’indolenza e di indifferenza tipico di un temperamento triste e malinconico; volgarizzato nel latino acedia, durante il Medioevo tale termine venne ripreso in seno alla teologia morale per indicare l’inerzia che spesso caratterizzava la vita contemplativa. Da allora l’accidia di strada ne ha fatta, riuscendo più volte a riformularsi, e passando, dal temperamento saturnino dei letterati rinascimentali al saggio malinconico dell’età barocca, dall’atteggiamento snob e dall’effimera eleganza del dandy ottocentesco all’esasperante narcisismo dell’età contemporanea. Già da questi passaggi riusciamo a scorgere in quante e così diverse manifestazioni può esprimersi l’accidia, un vizio che ne nasconde molti altri, in apparenza diversi tra loro, ma l’un con l’altro compenetrati più di quanto si possa immaginare. Filippo De Pisis, riprendendo l’espressione di Dante che aveva confinato gli accidiosi nell’Antinferno, scrive: «Menano i lor giorni, senza infamia e senza lodo, alcuni signori». L’accidia è un morbo che lentamente intorpidisce l’animo, rendendolo sempre più tiepido e fiacco; porta con sé il vizio della noia, dell’apatia, dell’indifferenza, dell’indolenza. Può condurci all’inerzia, instillando in noi l’ozio, la svogliatezza, la demotivazione, oppure suscitare un iperattivismo man mano sempre più privo di misura e di senso. Nell’uno come nell’altro caso l’accidia muove da un implacabile senso di insoddisfazione. Ed è perciò il vizio che s‘accompagna alla monotonia del vivere, ai riempitivi del vuoto incolmabile, al desiderio inappagabile, alla stanca ripetizione di gesti di per sé ormai privi di senso. Nessun altro vizio sa ben suscitare e riunire in sé gli estremi opposti di un mal di vivere che si estrinseca in modi tanto diversi. Sicché abbiamo da una parte l’accidioso malinconico e solitario, e dall’altra quello euforico e socievole; non diremmo mai che in fondo sono i due lati della stessa medaglia. Entrambi infelici, anche se uno dei due s’illude di non esserlo.
Nel suo bel libro I vizi capitali e i nuovi vizi (Feltrinelli, 2003), Umberto Galimberti, dopo aver passato in rassegna i primi sette vizi storici, ce ne illustra altrettanti che chiama “nuovi” perché figli della presente epoca, ovvero: Consumismo, Conformismo, Spudoratezza, Sessomania, Sociopatia, Diniego e Vuoto. A un’attenta disamina questi sette “nuovi vizi” muovono tutti da una comune radice d’insoddisfazione e indifferenza, recano in sé il marchio d’un desiderio perennemente frustrato derivante dall’incapacità o dall’inadeguatezza del saper vivere in uno stato armonico con se stessi, oltre che con gli altri. Per cui possiamo ben considerarli quali emanazioni del vecchio vizio d’accidia. Galimberti nota che a differenza dei vecchi, questi nuovi vizi non sono personali, ma tendenze collettive a cui l’individuo non può opporre più alcuna efficace resistenza, pena l’esclusione sociale. Questo perché, a differenza del passato, quando il vizio in quanto tale era ritenuto cosa spregevole, oggi, grazie alle sue varianti moderne, gode dello status di legittimità e approvazione sociale. Come abbiamo visto nel caso dell’avidità che s’accompagna all’avarizia, molti tra questi vizi sono infatti considerati come i valori della modernità. È il caso del consumismo, grazie al quale ogni individuo può disporre di un’infinità di beni atti a soddisfare qualunque desiderio. È il desiderio che a sua volta, proprio come le merci sul mercato, non si esaurisce mai. Guai se non fosse così. Quel desiderio è frutto della noia e del vizio che da essa deriva. L’accidia è propriamente il vizio del sovrappiù, della bocca che riversa altri cibi in un ventre sazio e nauseato. L’accidia affoga nell’inquietudine di un desiderio inappagabile; compra, consuma, butta via per tornare a comprare e a consumare, in un circolo vizioso che farà sentire l’individuo sempre insoddisfatto di sé e di ciò che ha. È la vita ridotta a noia, il vuoto che s’alimenta di cose altrettanto vuote e inconsistenti. E il capitalismo, dal canto suo, sfama con le sue merci questa noia da cui trae profitto. Se tutto può essere ottenuto presto e subito, bypassando la fase di sedimentazione del desiderio, tutto risulta alla fine inconsistente, fatuo, indifferente, privo di un reale valore accrescitivo per il nostro benessere.
Già Kierkegaard aveva definito l’accidia sorella del Vuoto, un vuoto d’identità, ma anche un vuoto di affettività e di relazioni concrete. Questo vuoto si alimenta dell’inconsapevolezza di sé e dell’indifferenza verso l’altro. Figlio di questo vuoto è il silenzio d’imbarazzo che aleggia nelle relazioni quotidiane, sia dentro che fuori le mura domestiche. Un silenzio che viene sistematicamente sommerso dai rumori, da suoni che prevaricano su ogni eventuale tentativo di comunicazione. Quel vuoto antico che ci si porta dentro fin da bambini, colmo di giocattoli, di televisione, di videogiochi e di varie attività ludiche settimanali, è ancora lì e fa paura, mette in disagio. Affoghiamo questo disagio nello svago, nell’intrattenimento fine a se stesso, nel lavoro e in tante altre attività quotidiane che ci sottraggono agli altri e a noi stessi. L’opulenza, la sovrabbondanza, l’iperattivismo, la produttività agiscono da addormentatori sociali, distraggono e rivendicano tutte per sé le nostre coscienze, annientando sul nascere ogni eventuale accenno di ricerca di senso.
Cosa resta in definitiva dopo una serata trascorsa nello stordimento di un pub o di una discoteca? Dello stare insieme solo per farsi compagnia? Cosa resta di dialoghi che ruotano attorno alla stanca routine del quotidiano? E che ne è di un figlio concepito nel vuoto? Usati per tenere insieme i pezzi di una relazione già morta in partenza, questi figli, orfani sul nascere, invocano invano attenzioni affettive, ricevendo in risposta soltanto cose, oggetti, pomeriggi dentro uno sfavillante centro commerciale. «Finché alla fine tutto esplode – scrive Galimberti – (…) la noia, che come un macigno comprime la vita emotiva, impedendole di entrare in sintonia col mondo (…) sotterra l’Io di questi giovani a cui è stato insegnato tutto, ma non come mettere in contatto il cuore con la mente, e la mente con il comportamento (…) Queste connessioni che fanno di un uomo un uomo non si sono costituite, e perciò (…) nascono biografie incapaci di gesti tra loro a tal punto slegati da non essere percepiti neppure come propri.» Individui affettivamente immaturi, scollegati da sé e dalla responsabilità delle proprie azioni, corredati da identità intercambiabili, evanescenti come il mondo che li circonda. Figli del vuoto, della noia, delle basse aspettative dei loro genitori, questi figli vengono abortiti alla vita per essere ingurgitati dal marasma sociale. Alcuni sopravvivono, riescono ad adattarsi, assumendo il ruolo (il più delle volte preconfezionato) che la società gli accorda; altri soccombono fino alla resa finale. Il nichilismo che li accompagna crea intorno a loro uno spazio sociale caduto in disuso, desolato, privo di riferimenti, di luoghi d’ancoraggio, di valori certi e insostituibili. L’indifferenza si traduce in apatia, nell’incapacità a saper esprimere sentimenti di empatia, gratitudine, rispetto e curiosità verso l’altro; si riflette in una sessualità estinta, impersonale, onanistica.
William Osler ci dice: «Di gran lunga il nemico più pericoloso da combattere è l’apatia – l’indifferenza a qualsiasi causa, non per mancanza di conoscenza, ma per noncuranza, causata dall’essere assorbiti in altre finalità, da un disprezzo allevato dall’autocompiacimento.» L’apatia morale degrada nello sprezzo per la vita che può condurre a gesti criminali attuati con fredda indifferenza. L’atto omicida come estrema affermazione di sé, del proprio esserci, e al contempo come estraneazione. Nei piccoli gesti d’apparente innocua indifferenza, come nelle grandi azioni criminali, l’accidioso si mantiene impassibile e imperturbabile, capace di contemplare con freddezza il suo misfatto senza battere un ciglio, senza alcuna emozione, senza elaborazione. Suprema è l’indifferenza dell’accidioso, e non c’è nulla che possa irrorare il suo cuore malato. Di accidiosi è piena la storia, è pieno il nostro presente, e altrettanto ne sarà zeppo il futuro. È il più subdolo di tutti i vizi, la più insana delle passioni, un’emozione nera, fatale. Unico antidoto a questo letargo dell’anima resta la curiosità, lo slancio verso l’altro. Dall’accidia si guarisce solo attraverso il confronto e la condivisione (un cammino lungo, ma possibile). È tra i mali più diffusi di questa contemporaneità raffreddata, spalmata su un esercito di schermi, autoreferenziale in ogni sua emanazione. È possibile riconoscerla, è possibile uscirne, è possibile tenerla alla larga, neutralizzarla, ma appunto occorre una gran dose di consapevolezza, la volontà di reagire al grande gelo, il coraggio di amare davvero.
Giuseppe Maggiore
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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 31 – Giugno 2017.
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