GET OUT | Il film d’esordio di Jordan Peele

GET OUT | Il film d’esordio di Jordan Peele

di Maria Dente Attanasio

su Amedit n° 31 – Giugno 2017

Ci sono film che riescono a sorprenderci al di là d’ogni aspettativa. Get Out è uno di questi. Opera prima dell’attore e sceneggiatore statunitense Jordan Peele, il film ha fatto ovunque la gioia dei botteghini, riuscendo a conquistarsi anche i lusinghieri giudizi da parte della critica. Un successo ben meritato per una pellicola sui generis, che mescola sapientemente thriller, horror e umorismo nero, offrendo allo spettatore molteplici registri di lettura. In Italia il film è stato distribuito con il titolo bilingue, Scappa – Get Out.

Il tema trattato è quello del razzismo di nuovo conio che imperversa negli Stati Uniti, argomento piuttosto ricorrente nella recente cinematografia, ma che qui viene affrontato in modo singolare, con elementi simbolici che qua e là affiorano, e che solo in un secondo momento riusciamo a cogliere come parte di un affresco allegorico della società contemporanea. Se preme chiarire fin da subito che il concetto di “razza”, laddove venga riferito alla specie umana, rappresenti oggi solo un residuo fossile dell’ignoranza, non possiamo non constatare quanto purtroppo esso persista tenacemente nella mente di molti. E così Get Out viene definito un film sul razzismo e, quel che è peggio, circoscritto al razzismo americano.

In modo molto più appropriato possiamo invece allargare il concetto che qui prende le mosse dalla differenza etnica a un più generale discorso sull’alterità e sulle complesse implicazioni a carattere sociale che quest’ultima spesso comporta. In modo astuto, il regista, mentre sembra volerci illudere di stare rappresentando una situazione tipicamente americana, prende sarcasticamente di mira ciascuno di noi, passando al setaccio molte delle nostre idee, da quelle più manifeste o di cui ci piace far pubblico sfoggio a quelle più recondite e, talvolta, inconfessabili. Tutto in questo film può essere in definitiva ribaltato, mutando il bianco in nero, e provando a indossare ora gli uni ora gli altri panni dei protagonisti di questa farsa borghese. In Get Out Peele si prende gioco di tanti atteggiamenti “politicamente corretti” ribaltandone il senso, mette a nudo l’ipocrisia che può celarsi dietro le più tenere attenzioni e le più affabili parole, e come un ragno che tesse con cura la propria tela, elabora inaspettatamente un ordito in cui, tra un’agrodolce risata e l’altra, ci ritroviamo infine intrappolati.

Run Rabbit Run (scappa coniglio scappa!), fa la canzone che da un’autoradio irrompe nel silenzio di una buia e desolata periferia; un uomo nero vaga per le strade con aria smarrita, senza un’apparente meta: ce n’è abbastanza per dare conferma alle nostre paure, lo stereotipo è ben servito. Una misteriosa figura con in testa un elmo medievale scende dall’auto e lo cattura, chiudendolo nel portabagagli. Run Rabbit Run prosegue la canzone, mentre l’auto scompare nel buio. Un cervo si schianta violentemente nel parabrezza dell’auto in cui viaggiano i due protagonisti: Chris e Rose, lui nero lei bianca. La coppia appare molto affiatata e ora Rose si è decisa a presentare il fidanzato ai propri genitori, Dean e Missy Armitage, lui neurochirurgo lei ipnoterapista, ma oltre loro ci sarà anche un imprecisato numero di altri parenti per l’annuale réunion famigliare. L’accoglienza che la famiglia Armitage, benestante e di orientamento liberaldemocratico, riserva all’afroamericano Chris è alquanto calorosa e infarcita di convenevoli, nulla sembra tradire in loro la sorpresa di trovarsi di fronte a un uomo di colore. Eppure… permane in Chris un’inspiegabile sensazione di disagio, quasi un fastidio. Si direbbe che sia proprio lui, nero, a essere ingiustamente prevenuto nei confronti degli altri, bianchi. Tra i presenti alla festa di famiglia c’è anche Logan, un giovane dalla pelle nera come la sua: Chris gli si fionda, quasi si trattasse di un’àncora di salvezza in mezzo a quell’inquietante mare di umanità aliena. Ma Logan non sembra contraccambiare tanto entusiasmo; Chris avverte una strana sensazione, come di qualcosa che gli sfugge, la stessa sensazione che gli hanno suscitato Walter e Giorgina, i due neri alle dipendenze della famiglia Armitage.

È forse lui che attraverso questi suoi “simili” vorrebbe autoghettizzarsi isolandosi dal resto dei presenti? Questa domanda fa più volte capolino tra i pensieri dello spettatore. Quando la fine della storia sembra ormai prevedibile ecco arrivare i colpi di scena, e tutto ciò che abbiamo visto e sentito finora, il tintinnio di un cucchiaino su una tazza da tè e un vecchio televisore acceso assumono altri significati che hanno dell’inquietante. Tutto alla fine prelude a qualcosa, a uno stadio, a una condizione che si pongono ai confini della realtà. O forse al di qua di una dimensione cerebralmente probabile, seppure su un piano prettamente simbolico. Leitmotiv del film è lo sguardo del protagonista, ora attonito, ora stupefatto, sospeso tra l’incredulità e il terrore (mirabile la prova attoriale di Daniel Kaluuya).

Maria Dente Attanasio


Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 31 – Giugno 2017.

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