di Massimiliano Sardina
Attraverso Dingo lo scrittore francese Octave Mirbeau delinea l’ideale d’uomo che avrebbe voluto incarnare, un concentrato d’indipendenza, di libertà e di totale affrancamento dai legacci della società borghese. Pubblicato a puntate su Le Journal tra il 20 febbraio e l’8 aprile del 1913, il romanzo esce in volume per l’editore Fasquelle il 2 maggio dello stesso anno. Dopo le scorribande automobilistiche e gli allontanamenti de La 628-E8 (1907), Mirbeau sceglie di ambientare questa sua ultima fatica nei confini dell’angusta provincia, e più precisamente nel microcosmo di Ponteilles-en-Barcis, una piccola cittadina nella regione dell’Île-de-France; per molti aspetti l’ambientazione richiama il villaggio di Cormeilles-en-Vexin, dove Mirbeau trascorse quattro anni della sua vita, dal 1904 al 1908. Dingo ha struttura narrativa composita, divisa tra il romanzo e l’autobiografia; rientra a buon diritto in quella che Serge Doubrovsky nel 1977 ha definito autofiction, ossia un’ibridazione tra realtà e finzione, tra cronaca lineare di avvenimenti vissuti e palese distorsione romanzesca. Mirbeau ne inizia la stesura nel 1909, sviluppando un’idea che già macinava nei suoi progetti dal 1884 (come si ricava da informazioni desunte dalla sua corrispondenza). Nel 1912, colpito da un ictus invalidante, non riesce a portare a termine l’opera in completa autonomia, e per gli ultimi capitoli ricorre all’aiuto dell’amico Léon Werth. Un libro sofferto fino all’ultimo, dunque, elargito alla stregua di un testamento letterario che, nei suoi contenuti profondi, riassume e riconferma tutta la weltanshauung mirbeauiana. È singolare che il grande scrittore francese abbia scelto di affidare agli occhi di un cane il suo ultimo sguardo sul mondo, uno sguardo spietato, lucido e disincantato, ma già proiettato altrove, stanco delle cose umane; sul piano simbolico Dingo si rivela un filtro perfetto, un medium, un ponte gettato lì per rimarcare una distanza ormai incolmabile, un distacco necessario, un congedo preliminare. Nell’impianto dell’opera cronologia e luoghi sono volutamente confusi. Nella realtà Dingo ha vissuto dieci anni insieme al suo padrone, ma non ha mai messo piede a Cormeilles-en-Vexin, essendo morto nell’ottobre del 1901 a Veneux-Nadon, vicino Fontainebleau. L’animale che Mirbeau traspone nella dimensione letteraria è, come lo ha definito Pierre Michel, un chien mythique, una creatura archetipa, capace di rivelare attraverso la cangianza del suo riflesso il lato oscuro della natura umana.
Un dono inaspettato piomba nella vita di Mirbeau, in una mite mattina di primavera. È Dingo. Non è un cane come tanti, anzi non è affatto un cane, ma una specie intermedia tra il cane e il lupo, molto diffusa in Australia: così lo informa il non ben identificato Sir Edward Herpett nella lettera allegata al pacco (una scatola nera con due fori sul coperchio). Alla vista del buffo animaletto, gracile e indifeso, appena svezzato, poco più che un cucciolo, lo scrittore si intenerisce e su due piedi decide di adottarlo. Dal fondo della cassa, sporco, esausto, affamato, il cagnetto emette gemiti di protesta, la fronte corrugata in un’espressione indignata e diffidente. Mirbeau avverte un’immediata identificazione. «Confesso che il constatare che quell’embrione protestava già, e tanto spontaneamente, e senza letteratura, contro la stupidità, la malignità, la sporcizia degli uomini, o contro le loro carezze, mi entusiasmò. Sì, confesso che quel pessimismo, per così dire previtale, mi rallegrò nel mio pessimismo inveterato e m’indusse a interessarmi maggiormente della sorte di quell’essere larvale, che ancora immerso nei limbi stava per entrare nel mondo, senza averlo mai veduto, con una concezione dell’umanità tanto perfettamente conforme alla mia.» Dingo, lo avrebbe chiamato Dingo, in ossequio alla sua razza. Nel grande giardino di Mirbeau Dingo cresce agile e vigoroso. Tra cane e padrone si stabilisce una straordinaria empatia, un legame affettivo caratterizzato anche da una sorta di tacita accondiscendenza, nel rispetto delle reciproche nature. L’animale – di temperamento curioso, caparbio, insofferente alle regole – sviluppa una personalità tutt’altro che servile e assoggettata, ma sinceramente fedele. «Certo Dingo mi amava molto (…) Mi amava, uomo, come avrei desiderato che mi amassero, cani, molti miei amici.» Verso il mondo esterno, come Mirbeau ha più volte modo di appurare, Dingo è solito ostentare un’espressione di feroce riserbo. Ha in simpatia i poveri, i cenciosi, i vagabondi e non manca di un occhio di riguardo verso le belle signore. Adora Miscia, la gatta di casa, e non le torcerebbe una vibrissa neanche per gioco. Altrettanto specifiche, di contro, le sue antipatie. «…Dingo fiutava quel che c’è di cattivo, di putrido, nell’anima degli uomini, come fiutava l’odore delle carogne di piccoli animali sepolti profondamente nel suolo.»
In Dingo, Mirbeau se ne avvede, c’è del potenziale inespresso, un ché di impronunciato che attende di manifestarsi. È la natura selvaggia che preme per emergere, innescata da una forza atavica, primordiale. Una creatura che per millenni si è guadagnata la sopravvivenza nella boscaglia australiana non può rassegnarsi alle aiuole fiorite di un giardino borghese. Mirbeau ne è consapevole e, con malcelato compiacimento e un’inconfessata eccitazione, sceglie di stare a guardare, di farsi spettatore, appena un passo dietro al suo protetto. Da bocciolo Dingo fiorisce. La sua vitalità esuberante fa il paio con una bellezza fiera, armonica, di rara eleganza. «Forte, muscoloso come un atleta antico, elegante, agile e svelto come un magnifico efebo, portava alto l’orgoglio della bella testa triangolare. Tutto il vigore della sua razza respirava agevolmente in un largo petto corazzato d’oro. E la coda gli formava come un pennacchio da giovane guerriero. Le sue nari, nerissime, stranamente mobili, sembravano aspirare tutti gli odori, fiutare tutte le esistenze sparse nell’aria, nei campi e nei boschi. Ed era gioviale, carezzevole, affettuosissimo, entusiasta, perfino lirico (…) I suoi occhi erano a un tempo seri e ridenti, terribili e dolcissimi, mobili come astri e fissi come abissi.» Alla bellezza di Dingo Mirbeau contrappone la laida bruttezza degli abitanti del villaggio, tra contadini, piccolo borghesi e signori più agiati, un campionario di miserabile umanità costellato di mentecatti, di bigotti, di zotici, di ubriaconi, di profittatori, di usurai, sempre incline alla malignità e al proprio tornaconto. Il villaggio di Ponteilles, degna cornice di questo presepio, è il ritratto della desolazione, sporco e cadente, anonimo, disertato dai suoi stessi abitanti, riscattato solo dalla folta vegetazione delle campagne limitrofe. L’oste, il sindaco, il parroco, il maestro, la vedova… sono figure che galleggiano nella melma di una comunità meschina e superstiziosa, dedita al vizio, al pettegolezzo, alla calunnia e al malaffare. È su questo fondale spento e opaco che Mirbeau dipinge la sagoma luminosa e vitale di Dingo: un contrasto cromatico impressionistico, una guizzante pennellata d’oro-fulvo su una superficie grigio-fango. Gli abitanti di Ponteilles, refrattari per natura a ogni novità, accolgono l’arrivo di Dingo con sospetto, allarmati dal suo aspetto poco tradizionale (con la stessa diffidenza, d’altra parte, avevano salutato tempo prima l’arrivo dello stesso Mirbeau).
Dopo una fase di calma apparente Dingo parte all’azione. Ecco risvegliarsi l’atavismo australiano, il bisogno di cacciare, di sbranare, di dilaniare, di sporcarsi il muso del sangue caldo delle prede. È sufficiente la vista di una pecora ad incendiargli gli occhi e a fargli rizzare il pelo. Dingo non è un cane da giardino ma una belva libera, brada, aizzata dal puro istinto, e di questo tutto il villaggio dovrà prenderne atto, in primis lo stesso Mirbeau. Tutto si compie per gradi: prima due gatti, poi la pecora dei Legrel, a seguire il pollaio di Thuvin e i porcellini d’India della vedova Pouillard, e giù poi con i tacchini, i pavoni, i conigli di Siberia, le anitre, le oche siamesi, i cigni, le lepri, le pernici e pennuti vari (compresa la gazza ammaestrata della cuoca del curato). Una strage. Nell’arco di un mese Dingo semina morte in ogni angolo del contado. Il passaggio dalla selvaggia boscaglia australiana alla mite Francia radicale-socialista non poteva essere indolore. «Quasi si può dire che, in un mese, di tutte le bestie viventi di Ponteilles restarono vivi soltanto gli abitanti.» Il popolo insorge impugnando croci e forconi: Dingo va punito, la bestia diabolica deve essere abbattuta per buona pace di tutti. Al grido di “A morte!… A morte!” si instaura un clima seicentesco di caccia alle streghe. «Anche la malattia della vite, quella delle patate, e la grandine, e il vento d’uragano che atterra le mèssi e sradica gli alberi, e perfino l’epidemia di scarlattina che infieriva alle Quatto Festuche, venivano attribuiti alla perversità, all’influenza diabolica di Dingo.» Mirbeau, dal canto suo, si ritrova nella posizione scomoda del padrone di un cane un po’ troppo irrequieto. Se da un lato mostra di non approvare quelle azioni criminose, dall’altro non le condanna fino in fondo. Lo scrittore nutre un profondo rispetto verso la natura del suo protetto: Dingo non è colpevole, ha agito solo in ossequio alla sua natura. «Avrei voluto mandarlo al diavolo, pronunciare un discorso da padrone irritato… Ma finivo con il posar la mano sul suo bel pelo dorato, che aveva odore di erba, di terra grassa e di sangue…»
Nell’opposizione tra lo chien mythique e la gente del villaggio Mirbeau ha tratteggiato la superiorità della natura sulla civilizzazione, la supremazia dell’istinto animale sulla cultura umana. Opera scura ma vitale, vergata con sangue e inchiostro, Dingo si offre come una grande lezione di umanità. Nel cuore del romanzo l’autore trova posto anche per un piccolo pamphlet animalista, di una sensibilità molto in anticipo sui tempi: «…Tormentandoli, massacrandoli come facciamo per la nostra alimentazione, per il nostro abbigliamento, per il nostro piacere o per la nostra scienza tanto incerta, invece di associarli ai nostri sforzi, noi non sappiamo quanto distruggiamo, in loro, di vita complementare alla nostra, per molti lati superiore alla nostra, e, in ogni caso, non meno rispettabile della nostra.» Dingo non si esaurisce nella satira sociale, né tanto meno nella rievocazione autobiografica: opera complessa, sfaccettata, scomoda e coraggiosa, si offre come un testamento letterario di violenta bellezza, e ci lascia eredi dell’ultimo capolavoro di Octave Mirbeau.
Massimiliano Sardina
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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 30 – Marzo 2017.
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