AVARIZIA | Il vizio della modernità

AVARIZIA | Il vizio della modernità

di Giuseppe Maggiore

su Amedit n. 30 – Marzo 2017

 

Nil satis est (Niente è mai abbastanza). Potrebbe essere questo il motto che più si addice all’epoca presente. Per esteso, troviamo la frase Nil satis est, quia tanti quantum habeas sis (Niente è mai abbastanza, perché sei ciò che possiedi) in una delle celebri satire con cui il poeta latino Quinto Orazio Flacco riflette sui vizi umani, riferendosi nello specifico a una persona avida e avara. Parole antiche per descrivere un vizio quanto mai moderno. Perché l’uomo, proprio come il lupo, perde il pelo ma non il vizio, e l’epoca presente è forse quella che più d’ogni altra celebra l’ingordigia. Due passioni che sfumano l’una nell’altra formando un tutt’uno inscindibile – e a cui in questa sede ci riferiamo quasi indistintamente – avidità e avarizia sono gli elementi che connotano la persona agìta da un’ossessiva smania di possesso e tra tutti i mali sono forse i più subdoli e diffusi. Non è un caso se tradizionalmente vengono considerati come emanazione di un unico vizio, ovvero quello d’Avarizia, che Seneca chiamava la madre di tutti i vizi e Paolo di Tarso indicava come la radice di tutto il male.

Già nel IV secolo era stato il filosofo Aristotele a occuparsi per primo dei vizi, da lui definiti “l’abito del male”, e nei secoli successivi essi non hanno mai smesso di essere oggetto dell’indagine filosofica prima, e di tanta letteratura cristiana dopo. Nel Medioevo saranno i Padri della Chiesa, e in particolare Tommaso D’Aquino, a codificarli in ordine alla loro gravità, giungendo all’individuazione dei sette vizi capitali, così definiti perché ritenuti all’origine di tutti i peccati, ed enunciati nelle lettere che compongono l’acrostico SALIGIA (Superbia, Accidia, Lussuria, Ira, Gola, Invidia, Avarizia). Riabilitati dagli illuministi, in quanto ritenuti, al par delle virtù, utili allo sviluppo del benessere sociale, e passando per Kant, che li descrive come espressione dei diversi caratteri umani, ritroviamo i  vizi ancora protagonisti nei trattati ottocenteschi di psichiatria, come malattie dello spirito o psicopatologie dell’individuo. L’avarizia, in particolare, fin dall’antichità occupa un posto di primo piano in letteratura, partendo da Euclione, protagonista dell’Aulularia di Plauto, per proseguire, soprattutto nell’Ottocento, con quelle che ne sono divenute le più celebri icone, quali Arpagone de L’avaro di Molière, Scrooge del Canto di Natale di Dickens, papà Grandet dell’Eugénie Grandet di Honoré de Balzac e Don Mazzarò de La roba di Giovanni Verga. Impossibile poi non citare Octave Mirbeau, che nei suoi Racconti crudeli si sofferma diffusamente sulla crudeltà dell’avarizia (si leggano Il signor Quarto, Le bocche inutili e Appunti per un avvocato). Salvo rari casi (come il don Valentino del Racconto di Natale di Dino Buzzati), nella letteratura che va dal Novecento ai giorni nostri, la figura dell’avido/avaro sembra perdere di interesse, come fosse un tipo umano ormai espugnato o una sorta di demone esorcizzato e scacciato per sempre da questa società che ci vuole tutti devoti e gaudenti nella celebrazione del consumo e dello spreco.

Ma è davvero così? Siamo tutti diventati prodighi e scialacquatori, o, nel migliore dei casi, più generosi? Per molti i cosiddetti vizi capitali sono solo un vecchio retaggio religioso che richiama a qualche remota nozione catechistica. Così confinati entro un ambito esclusivamente religioso, dove assumono tutt’al più la valenza di peccato e di una condotta che allontana l’uomo dall’ideale cristiano, questi mali vengono messi al riparo da una lucida interpretazione, sfuggendo così a una più attenta disamina sul loro effettivo impatto sociale, economico e culturale. Ma, in una chiave di lettura laica, questi vizi sussistono in quanto espressione della nostra natura, e vanno intesi come passioni che regolano e condizionano l’agire umano in ogni suo aspetto. La citazione latina da cui siamo partiti descrive bene l’universo mentale della persona avida, che conseguentemente sarà pure una persona avara. Quell’uomo non potrà che ispirare ogni suo sforzo a quel principio, ed è facile intuire in quali termini egli instaurerà il proprio rapporto con le cose e con le persone. Va da sé che avidità e avarizia saranno le uniche passioni capaci di infiammare il suo animo e di orientare ogni sua azione. Si direbbe però che oggi costui sia in ottima compagnia, e che anzi, mai come ora possa sentirsi a proprio agio, poiché avidità e avarizia, ben lungi dall’essere prerogativa di taluni individui, sembrano essere diventati i veri principi su cui si fonda questa società figlia dell’ingordo capitalismo, agìta dal consumismo compulsivo e soggiogata da subdoli magheggi economici.

L’Occidente ha costruito il proprio benessere attraverso lo sfruttamento e la sopraffazione dei paesi più poveri e sottosviluppati, ed è in debito con loro tanto quanto lo è con la natura profondamente violata e offesa, ma la sua ingordigia oggi gli si ritorce contro fagocitandolo. La minaccia che oggi fa traballare il nostro benessere non viene dall’esterno ma è la necrosi di un sistema malato e corrotto, il frutto di quell’avidità che a lungo abbiamo perseguito e ovunque praticato: nella finanza, nei mercati, nella politica, nelle professioni (si pensi alle forsennate speculazioni di banche e Borse finanziarie, alla ignobile corruzione di manager, politici, amministratori delegati). Non meno pericolosa è l’avarizia che prospera intorno a noi: le nazioni erigono nuovi muri tra loro, cingono i loro confini per proteggersi dallo straniero e per preservare la propria ricchezza dall’indigente che bussa alla loro porta. Proprio come fa l’avaro che non vuol spartire con nessuno i propri averi, e che teme sempre il ladro alla sua porta, sviluppano sentimenti di ostilità, diffondono il sospetto e la diffidenza, attuano politiche di respingimento.

Non più vizi né peccati, avidità e avarizia sono dunque oggi principi istituzionalizzati, ben dissimulati nelle leggi sancite dagli Stati e nelle tattiche economiche e politiche. E questi vizi oggi dilagano indisturbati, godono di legittimazione e di convincenti giustificazioni, nelle politiche economiche, nella strategia del terrore, nelle nuove correnti tribali di territorialismo e secessionismo, e con la complicità dei media ammorbano l’intero tessuto sociale. Questa società materialista che tanto celebra ed esalta l’individualismo più esasperato e la mercificazione d’ogni cosa, diventa il regno dell’egoismo e della multiforme strumentalizzazione dell’altro da sé. È la logica del capitalismo che impera e si replica a ogni latitudine. Salvo sempre più rare eccezioni, tutto sottende a un principio di convenienza personale, e non c’è vera forma d’interesse o di condivisione verso l’altro, non c’è alcuno slancio o tensione, non c’è dono o gesto mosso da genuina gratuità. L’altro è visto solo in funzione del beneficio che può arrecarci, e in vista di ciò moduliamo il nostro agire, dando luogo a relazioni false e malate in partenza, in cui tutto si traduce solo in una forma d’investimento che preveda, non tanto il giusto contraccambio, quanto la restituzione con gli interessi di ciò che abbiamo faticosamente accordato. Quel che sembra essere semplicemente il profilo di un opportunista, rivela man mano quei tratti che sono prerogativa dell’avido/avaro. Nel linguaggio comune vengono usati molti termini per definire un simile soggetto, additandolo come tirchio, taccagno, spilorcio; ed è vero anche che esistono tanti insospettabili “portatori sani” d’avarizia tra noi, poiché, tra tutti i vizi, questo è quello che meglio riesce a camuffarsi, al punto da farsi ritenere in taluni addirittura una virtù. Ma la parsimonia o la saggezza del buon risparmiatore sono ben altra cosa che questa forma deleteria di miserabile possessività.

Tra i più universali vizi, l’avarizia può albergare nei ricchi come nei poveri, e non si indirizza soltanto verso il denaro o altri beni materiali, ma più estesamente essa investe ogni altro aspetto della sfera personale e sociale. Nella sua forma materiale, questo morbo racchiude in sé una sorta di necrofilia dell’accumulo: una compulsività che genera soltanto cose morte e inanimate, giacché tutto quanto finisce nelle sue maglie sarà cosa sterile, improduttiva, priva di quelle qualità capaci di arrecare felicità, godimento e benessere per sé e per gli altri. Persona triste, frustrata e sostanzialmente vuota, tanto quanto la mole di ricchezze che intende accumulare – quelle ricchezze che nelle sue mani diventano capitale sterile – l’avaro  trascinerà per l’intera esistenza il suo pesante fardello di cose morte con l’unico rimpianto di non potersele portare fin dentro la tomba. Quest’avido non gode davvero dei suoi beni, non ama mai fino in fondo, e fondamentalmente non arriva nemmeno ad amare compiutamente se stesso fin tanto che non avrà abbastanza, cioè mai; ecco perché egli è per definizione anche avaro. Nella sua accezione più ampia, l’avarizia è soprattutto un male spirituale, che inquina i rapporti, crea impedimenti nelle relazioni, generando risentimenti, divisioni e chiusure.

Trista passione che abbruttisce l’animo, l’avarizia rende chi ne è affetto persona arida e gretta, in taluni casi può sfociare nella misantropia e nell’alienazione totale dai rapporti. Persona spiccatamente narcisista ed egocentrica, fondamentalmente incapace di provare empatia per qualcun altro, l’avaro vive in stato di isolamento volontario, le cui sortite sono sempre mosse dal calcolo e dall’opportunismo. L’individuo stretto nei legacci dell’avarizia è perciò un soggetto incapace di stabilire una relazione sana e sincera, improntata sulla reciprocità e sulla spontaneità, perché troppo sospettoso e calcolatore. Sospetta di essere defraudato, teme di stare dando più di ciò che riceve, e passa la sua vita commisurando scrupolosamente ogni sua benché minima elargizione. Il suo cuore funziona come una cassa: deve chiudere sempre in positivo. Immagine d’un’epoca e dei suoi insani valori, di fronte a un così triste individuo il poeta Orazio avrebbe esclamato: «Che gli vuoi fare a un uomo così. Lascialo alla sua miserabile vita.».

Giuseppe Maggiore

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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 30 – Marzo 2017.

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