STUPRAMI | Elle | Il nuovo film di Paul Verhoeven

STUPRAMI

Elle | Il nuovo film di Paul Verhoeven

Maria Dente Attanasio

su Amedit n. 30 – Marzo 2017

 

S’intitola semplicemente Elle il nuovo film di Paul Verhoeven, che, dopo la presentazione al Festival di Cannes del 2016, giunge in Italia a quasi un anno dalla sua distribuzione in Francia. Diciamo subito che alla semplicità del titolo fa da contraltare la complessità dell’idea da cui prende corpo il film, e non tanto per la trama in sé, tutto sommato abbastanza ordinaria, quanto per ciò che attraverso questa intende suggerirci. Trasposizione cinematografica del romanzo “Oh…” di Philippe Djian, Elle ha scosso ed entusiasmato la critica mondiale, perlopiù unanime nell’esprimere un giudizio positivo; qualcuno azzarda a definirlo un capolavoro come non se ne vedevano da anni. Forse non è il caso di osare tanto, e quando i consensi sono così largamente lusinghieri e convergenti, viene talvolta il sospetto che molti tra quanti applaudono non abbiano veramente capito cosa stiano applaudendo. In tempi di nuove ondate moraliste, di rimonte religiose e di retorica contro il femminicidio, un film come Elle avrebbe dovuto indignare, provocare sconcerto, e magari far urlare qualche perbenista o fanatico religioso di turno allo scandalo. E invece non è accaduto nulla di tutto ciò, il che va a rafforzare il sospetto che forse qualcosa non abbia funzionato come doveva nella piena ricezione del messaggio. Per trama, struttura e scelta delle soluzioni narrative Elle si presenta certamente come un film che aspira a ben più alte pretese che un semplice thriller psicologico.

La “lei” cui fa riferimento il titolo è Michèle Leblanc, una donna elegante, algida, d’una bellezza solo vagamente sfiorita dagli anni, a capo di una società che produce videogames particolarmente estremi e iperrealistici. Michèle sprizza seduzione da tutti i pori, e si direbbe che nessuno sia capace di resisterle, uomini o donne che siano. L’attrice  Isabelle Huppert, perfettamente calata nel ruolo, ce la restituisce in tutto il suo fascino conturbante, con gli occhi gelidi e inespressivi che bucano letteralmente lo schermo, occhi incapaci di riflettere tanto la tristezza quanto la gioia. Forse la sola attrice che avrebbe potuto competere con lei in questo ruolo è Cate Blanchett. Ma torniamo al film, o meglio, al prologo che ne è alla base. All’età di dieci anni Michèle si è trovata coinvolta nell’orribile crimine del padre; questi, in un inspiegabile raptus di follia, armato di fucile trucidò decine di persone del vicinato. Dai giornalisti dell’epoca venne immortalata come la “bambina di cenere”, e di fatto, nonostante siano ormai trascorsi molti anni, questa vicenda continua ancora a perseguitarla, nei segni che porta dentro di sé, nella memoria ancora viva di chi la circonda, nella figura della bizzarra madre che continua ad assillarla chiedendole di riconciliarsi con il padre assassino condannato all’ergastolo. Oggi Michèle ha un matrimonio alle spalle e un figlio poco più che ventenne tutto il suo opposto, ingenuo e dall’intelligenza poco brillante. Al lavoro come nella vita privata appare dura, anafettiva, dispatica, capace di gestire le più disparate situazioni con lo stesso compiaciuto cinismo. La bambina di cenere si è trasformata in una donna di ghiaccio.

Il film ce la presenta mentre viene brutalmente stuprata sul pavimento della sua ricca casa borghese, scena a cui inizialmente non ci viene concesso di assistere se non attraverso gli occhi indefessi del gatto domestico. Saranno i suoi successivi flashback a soddisfare il nostro inconfessabile voyeurismo, rendendoci finalmente partecipi dell’atto, visto/vissuto in ogni sua angolazione. Lei, Michèle, reagisce allo stupro appena subito con la disinvoltura di chi ha ben compreso l’accadibilità delle cose, di chi, senza farsi troppi drammi e senza scivolare in inutili vittimismi, elabora razionalmente quanto accaduto. Un bel bagno caldo, le sue mani raccolgono dolcemente un po’ di soffice e candida schiuma su cui fa capolino ancora del sangue vaginale. Torna più volte con la mente su quello stupro, per gustarlo, per assaporarne ogni retrogusto, anche il più amaro. Man mano che metabolizza le sue sensazioni diventano sempre più oscillanti e indecifrabili. Il terrore che possa ancora accadere e, al contempo, l’inconfessato desiderio che si verifichi ancora. Di fronte a Michèle abita una giovane coppia, Rebecca e Patrick; lei una dolce donnina cattolica bigotta, lui un affabile uomo che fa il broker. È Natale e i due stanno allestendo nel giardino della loro casa un presepio con statue a grandezza naturale. Michèle si ferma ad osservarli dalla finestra e, impugnato un binocolo, mette a fuoco l’aitante figura di Patrick; l’eccitazione sale, Michèle si infila la mano sotto il vestito e comincia a masturbarsi. È questa, indubbiamente, una delle scene più accattivanti e meglio riuscite del film; la prima vera manifestazione epifanica di Michèle, quel che lei è veramente: una donna priva di falsi pudori, immune dal senso del peccato, libera da ogni condizionamento moralistico o religioso. Tra lei e Patrick nascerà un gioco di seduzione dagli esiti imprevedibili (o forse troppo prevedibili). Alla sua socia e amica Anne, a cui ha appena rivelato di essere l’amante di suo marito, dice: «La vergogna non è sufficiente ad impedirci di fare certe cose».

Michèle incarna la volontà di potenza; ciò che desidera ottiene. Ogni suo atto è un esercizio di potere sugli altri (e per riflesso su se stessa), e il sesso altro non è che un modo come un altro per esprimerlo. Tutto l’orrore a cui ha assistito da bambina ritorna prepotentemente nella vita adulta manifestandosi attraverso una sessualità perversa fatta di violenza e prevaricazione. Lei proprio non ci sta a recitare il ruolo della vittima, le basta averlo incarnato da bambina. Più a suo agio nelle vesti di carnefice, Michèle risolve di rivolgere la violenza su se stessa, contro se stessa, per puro piacere, per eccitazione somma. Di anni ne sono passati, ma dimenticare con ogni evidenza non le è stato possibile. Quanto ha commesso il padre deve portarselo addosso fino alla fine, di questo ne è consapevole, ma un certo sollievo ha ben imparato dove andarselo a cercare. Nell’esercizio della violenza (inflitta dallo sconosciuto aggressore o autoinflitta) Michèle non reitera null’altro che la celebrazione del trauma subito. Inutile girarci intorno: lo stupro le è piaciuto. Finalmente qualcosa di forte, di vero, di totalizzante ha invaso la sua vita scandita da troppi anni di vuoto emozionale, finalmente una scossa, un brivido di oscura potenza. Guidata da una libido cieca e amorale, una volta scoperta l’identità del suo stupratore tenterà di commutare il tutto nei termini di una relazione sessuale continuativa. Della trama in questa sede preferiamo non svelare altro. Elle è un capolavoro mancato, ma nel bene e nel male ha portato una ventata d’aria nuova soffiando sui soliti stereotipi femminili che animano il grande schermo. Di certo, Verhoeven avrebbe potuto osare di più, spingersi oltre, indagare con maggiore profondità (la materia certo no mancava); con ogni evidenza il regista ha preferito muoversi con prudenza, evitando con cura di insistere su certe morbosità. Il film si è aggiudicato due Golden Globe e due Premi César, oltre a numerosi altri riconoscimenti.

Maria Dente Attanasio


Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 30 – Marzo 2017.

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