di Giuseppe Maggiore
Com’è cambiato il nostro rapporto con il lavoro? La risposta a questa domanda non può non tener conto di come è mutata la nozione stessa di lavoro e di impresa nel tempo, soprattutto negli ultimi decenni, grazie agli straordinari traguardi raggiunti dalle moderne tecnologie. La digitalizzazione, in particolare, ha rappresentato uno degli esiti più rivoluzionari delle avanguardie tecnologiche, la cui diffusione si è andata espandendo in modo sempre più pervasivo in ogni ambito della vita sociale, che va dalla gestione delle informazioni alla comunicazione, dalle arti al commercio. La sua applicazione in ambito industriale, oltre a rendere possibile la standardizzazione dei processi produttivi e la creazione dei mercati globali, ha comportato importanti ripercussioni sul mondo del lavoro. L’uomo moderno vive oggi un dualismo esistenziale che lo pone in rapporto con due diverse dimensioni o mondi paralleli, quello reale e quello virtuale, rispetto ai quali egli è di volta in volta chiamato ad essere homo analogicus o homo digitalis. L’interazione tra questi due mondi, che spesso percepiamo contigui grazie a quell’apparente abbattimento delle barriere spazio-temporali generato dal ciberspazio, ridefinisce costantemente il nostro universo immaginifico e comportamentale; modifica, non solo il modo in cui percepiamo noi stessi e le cose, ma anche le modalità del nostro agire.
Già nel 1990 John Perry Barlow, a proposito del ciberspazio scriveva: «In questo mondo silenzioso, tutta la comunicazione è digitata. Per entrare in esso, ci si deve liberare sia del corpo che dell’ambiente circostante e si diviene solo una cosa fatta di parole. […] Gli incontri in questa città virtuale sono continui e le discussioni variano dagli ambiti sessuali ai programmi di deprezzamento. Se sia un singolo trillo telefonico o milioni, essi sono tutti connessi fra di loro. Collettivamente, formano ciò che gli abitanti della città virtuale chiamano la Rete.» Per comprendere la portata rivoluzionaria di queste avanguardie tecnologiche e dell’influsso che hanno prodotto sui nostri stili di vita, basti pensare che, sempre agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso, si cominciò a parlare di antropologia del cyberspazio, ovvero di una branca di studi che si occupa nello specifico della relazione tra gli esseri umani e le moderne tecnologie. La digitalizzazione ha di fatto innescato un processo di inarrestabile smaterializzazione che informa di sé ogni aspetto della nostra vita. Lavoro e impresa risultano essere tra gli ambiti più coinvolti in questo processo di trasformazione, non solo dal punto di vista dell’operatività ma anche e soprattutto sul piano concettuale. Lo stesso lavoratore è parte integrante di questi processi, cui volente o nolente deve adeguarsi, tanto più se il suo ambito professionale richiede una forte componente cognitiva. La pervasività delle moderne tecnologie è però tale da coinvolgere ormai tutti, dall’operaio chiamato a svolgere lavori meramente manuali al semplice lavoratore domestico.
Simbolo per eccellenza di questa ineludibile tendenza è il telefono cellulare, in tutte le sue più evolute versioni, ormai divenuto una sorta di protesi fin dalla più tenera età. Questi apparecchi ci consentono di essere sempre interconnessi, quindi raggiungibili in qualunque luogo o momento. L’essere costantemente online ci mantiene in uno stato di perenne reperibilità, non solo nei confronti di familiari e amici, ma anche nei confronti di colleghi e datori di lavoro. WatsApp rappresenta da questo punto di vista uno strumento efficace per restare sempre in contatto, le cui notifiche non riguardano solo la condivisione di video, immagini o messaggi aventi un carattere amicale e di mero intrattenimento, ma anche di comunicazioni inerenti l’ambito lavorativo che possono giungere in qualunque istante del giorno e della notte. L’incapacità di spegnere lo smartphone e di creare una linea di demarcazione tra i momenti di esposizione pubblica e lo spazio da dedicare alla vita privata si traduce quindi anche in incapacità a riuscire a staccare la spina dal proprio lavoro. Al rischio, più volte rilevato, di una prevaricazione delle relazioni virtuali su quelle reali, si aggiunge oggi quello, non meno importante, di un iperattivismo senza soluzione di continuità.
Nel recente saggio dal titolo L’anima al lavoro (Operaviva, 2016), Franco Berardi Bifo illustra al meglio questo rischio e parla di come, costantemente al lavoro con il corpo e con la mente, l’uomo rischia di essere fagocitato nel vortice di un agire compulsivo e alienante. Computer, terminali, smartphone sono diventati strumenti essenziali per molti ambiti professionali, al punto da costituire essi stessi la dimensione “fisica” aziendale per molti lavoratori. L’azienda diventa un non-luogo con cui il lavoratore interagisce in maniera quasi esclusivamente virtuale. Ciò determina una smaterializzazione dell’azienda e del lavoratore stesso, il quale a sua volta è indotto a identificarsi sempre più con l’impresa. Quest’ultima diventa il nucleo intorno al quale si addensano desideri e aspirazioni, l’oggettivazione di un investimento non più solo economico ma psichico. A partire dagli anni Ottanta il tempo di lavoro medio è aumentato in modo esponenziale, contraddicendo quelle che erano le previsioni delle tecnologie informatiche, le quali promettevano una sua progressiva riduzione a favore di più tempo libero da dedicare alla sfera privata e al godimento dei frutti del proprio lavoro. Se è vero infatti che è diminuito il tempo necessario alla produzione di un bene o servizio, è anche vero che il tempo apparentemente liberato viene trasformato in cibertempo, ovvero in tempo di lavoro mentale assorbito dal processo di produzione illimitata del ciberspazio.
Perché oggi, sempre più lavoratori non avvertono il peso di questa dilatazione del tempo di lavoro, o addirittura tendono a prolungarlo di propria iniziativa? «Per comprendere a fondo il cambiamento psicosociale verso il lavoro, – scrive Berardi – occorre tenere conto di un mutamento culturale decisivo, che è collegato con lo spostamento del baricentro sociale dalla sfera del lavoro operaio alla sfera del lavoro cognitivo. Negli ultimi decenni la comunità sociale e urbana ha perso progressivamente interesse, e si è ridotta a un involucro morto di relazioni senza umanità e senza piacere. La sessualità e la convivialità sono state progressivamente trasformate in meccanismi standardizzati omologati e mercificati, e al piacere singolare del corpo è stato progressivamente sostituito il bisogno ansiogeno di identità. La qualità dell’esistenza si è deteriorata dal punto di vista affettivo e psichico in conseguenza della rarefazione del legame comunitario e della sua sterilizzazione securitaria.» Sicuramente un ruolo decisivo l’hanno svolto anche le politiche del lavoro messe in atto dai governi, a colpi di deregulation e di smantellamento dei diritti e delle tutele dei lavoratori. Il lavoro oggi non è più un diritto ma una conquista che necessita di continue conferme e consolidazioni. Il lavoratore deve essere flessibile, deve costantemente riformularsi e reinventarsi, pena l’esclusione. Parallelamente, ad essere indeterminato non è più il contratto di lavoro ma il tempo del lavoro, che automaticamente diventa meno tempo da dedicare a se stessi, a coltivare le relazioni o a godere di ciò che si ha. Questa condotta si rivelerà a un certo punto fonte di crescenti frustrazioni.
Iperattività, reperibilità e sovraesposizione diventano il lasciapassare di un controllo costante che viene esercitato sulla propria vita dall’esterno, a cui riuscirà sempre più difficile sottrarsi; lo status online costringe a essere ricettivi e operativi, sempre e comunque, determinando a lungo andare una progressiva perdita di controllo su noi stessi e sulla nostra vita. Rischio, questo, che secondo Berardi investe maggiormente i soggetti dediti a lavori ad alto contenuto cognitivo, là dove più si richiede l’impiego di capacità intellettuali e un dispendio di energie comunicative, innovative, creative. Berardi distingue questo tipo di lavoratori high tech dal classico modello di lavoratore industriale, il quale metteva nella prestazione salariata solo le sue energie fisiche e meccaniche, secondo un modello ripetitivo e spersonalizzato. Se prima esisteva una netta cesura tra il luogo fisico in cui si prestava il proprio lavoro e lo spazio domestico o delle relazioni sociali, se prima vigeva quel senso di estraneità tra l’operaio e la macchina, oggi questa linea di demarcazione tende a svanire, poiché le moderne tecnologie hanno ricontestualizzato l’impresa dilatandone la dimensione fisica e temporale, favorendo al tempo stesso un più alto grado di immedesimazione e coinvolgimento emotivo da parte del lavoratore. È grazie a questo pieno coinvolgimento delle facoltà mentali che il potere capitalista sull’uomo diventa totalizzante, dal momento che non si esercita più, o soltanto, nel corpo ma più propriamente nell’anima. Da qui, appunto, l’anima al lavoro. «L’ideologia economicista – scrive ancora Berardi – è ossessivamente centrata sulla convinzione che l’affezione al lavoro si traduce in denaro, e che il denaro fa la felicità.»
Il capitalismo, la produttività a tutti i costi, il consumismo, ci inducono costantemente a perseguire il nostro desiderio di felicità attraverso l’accumulo compulsivo di beni materiali e spesso superflui, per i quali siamo disposti a sacrificare la maggior parte del nostro tempo in attività lavorative più o meno alienanti. È ciò che Berardi definisce come: «l’affermazione di un modello di vita interamente centrato sul valore della ricchezza, e la riduzione del concetto di ricchezza al suo significato economico e acquisitivo.» Così facendo l’uomo si condanna a inseguire il sogno di un benessere economico che per sua stessa natura non sarà mai completamente raggiunto. Non si rende conto di essere preda di un inganno, che quel suo legittimo desiderio di benessere non può risiedere soltanto nella smania di successo professionale, nell’accumulo di denaro e di beni di varia natura. Contro un errato concetto di ricchezza forgiato su logiche meramente economiciste, fondato sulla disponibilità di denaro, di credito, di potere, e in definitiva di mezzi che ci permettono di consumare, contro quest’imperante ideologia che schiavizza l’uomo al lavoro dietro la falsa speranza di un benessere effimero e che produce in verità soltanto malessere, ansia e miseria per tutti, occorre recuperare il proprio tempo perduto, la capacità di godimento, di fare esperienze esaltanti nell’incontro con gli altri, nella lettura di un libro o nel compiere un viaggio che ci conduca in qualche luogo di questo nostro meraviglioso mondo.
Giuseppe Maggiore
Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 29 – Dicembre 2016.
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