UN FABBRICANTE DI SCINTILLE | È arrivato l’arrotino | L’ultimo romanzo (incompiuto) di Anna Marchesini

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di Pietro Valgoi

Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 29 – Dicembre 2016.

 

Anna Marchesini si è sempre divisa tra l’amore per il teatro e quello per la letteratura. Lo testimonia la trilogia di romanzi edita tra il 2011 e il 2013 (Il terrazzino dei gerani timidi, Di mercoledì e Moscerine). Quest’ultima prova narrativa È arrivato l’arrotino, purtroppo incompiuta, vede la luce grazie alla sensibilità di Rizzoli, l’editore che fin dall’inizio ha sostenuto la svolta letteraria che ha caratterizzato l’ultima stagione creativa dell’artista orvietana. Anna Marchesini, colpita da una malattia degenerativa, ci ha lasciati il 30 luglio 2016. La sua memoria, incancellabile dall’immaginario collettivo del nostro Paese, è mantenuta viva anche da quest’ultima piccola eredità che ha voluto consegnarci attraverso la letteratura. Un viaggio, quello intrapreso a bordo della scrittura, che si è interrotto troppo presto, sul più bello verrebbe quasi da dire, ma di un’intensità che ha lasciato il segno. Venuti meno il vigore del corpo e il pieno controllo dell’espressività fisiognomica, la Marchesini ha riversato tutta la sua ispirazione e tutte le sue energie residue nel veicolo taumaturgico della parola, certa così di poter trasmettere al meglio tutto quel condensato emotivo che altrimenti sarebbe rimasto dolorosamente inespresso. Con la parola, attraverso la parola, ha fatto sì che la vita – imprigionata, impigliata, trattenuta – potesse tornare a librarsi e a calcare i palcoscenici.

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È arrivato l’arrotino dà voce a due distinte figure di donne. Nella prima storia, di taglio dichiaratamente autobiografico, la protagonista rivive il suo stato fetale – la gestazione nello spazio liquido e asfittico del ventre materno – e il taglio (netto, metallico) del cordone ombelicale, rituale iniziatico che prelude la venuta al mondo. La memoria, anche quella prenatale, si rivela un abisso da sondare, un serbatoio dal quale attingere a piene mani; in uno stato di vigile regressione la protagonista ritorna ad abitare la madre, a ripopolarne i luoghi acquitrinosi, nell’incosciente attesa dell’espulsione, avvenuta alle cinque e mezza di un pomeriggio novembrino. «Io ero la terzogenita, venuta per caso a ridosso di un’altra gravidanza. Un errore inconcepibile eppure concepito. Ero abusiva, lì dentro, il locale era vecchio e usato, già stato abitato due volte […] Più che partorita sarei stata sfrattata.» Fuori luogo, da sempre. E di quell’istante – il primo istante, l’ingresso nel mondo in un bagno di umori e sangue – giura di ricordare l’acutissimo dolore. «Una cesoiata gelida che sfaceva il mio cordone» Tagliata fuori, letteralmente. Alle voci indistinte e attutite che aveva percepito nel chiuso del ventre materno ecco che subentravano quelle nitide e altisonanti del mondo di fuori; il battesimo (sonoro) della protagonista, per uno strano gioco del destino, avviene nuovamente per il mezzo di una lama: è una eco lontana, ma amplificata da un altoparlante, a imprimerle addosso la sensazione di una carezza tagliente. Era la voce di un uomo, virile e affilata, al contempo minacciosa e invitante: «Donne! È arrivato l’arrotino!…» Quella voce si sarebbe ripresentata più volte negli anni d’infanzia della protagonista, senza mai però mostrare il suo volto; di qui il fiorire d’una immaginazione portentosa, capace di trasformare l’arrotino in «un elfo dei vicoli, un minotauro di provincia, un fabbricante di scintille.» Figura giana, invisibile ma persistente, l’arrotino finirà poi per combaciare con il famigerato uomo nero dei moniti materni. In una casa dove i coltelli tagliavano male, perché la madre per oscure ragioni si era sempre astenuta dal farli affilare, l’arrotino assurge ad archetipo di un non ben identificato pericolo. Anni dopo ci penseranno i punti della Mira Lanza a premiare la famiglia con un bel ceppo di coltelli affilati e lucenti.

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La protagonista della seconda storia è Maddalena, detta Lena. Anche questo personaggio è introdotto da un parto, una sorta di emorragia sul pavimento gelido della cella di un carcere. «Nel momento stesso in cui la mamma era morta (gli sfinteri l’avevano lasciata andare) era nata Maddalena.» L’arrotino si affaccerà anche nella vita di questa sfortunata orfana, questa volta non come una voce lontana ma come un uomo in carne e ossa, un uomo dai profondi occhi azzurri. L’incompiutezza non penalizza la storia, ma ne accresce il delicato fascino. A impreziosire ulteriormente il testo compare in apertura un toccante contributo di Virginia, la figlia di Anna Marchesini, un contributo che, molto significativamente, si intitola Lettera ad un poeta, mia madre. In appendice il testo è corredato di alcune poesie inedite (tratte dalla raccolta Fiori di Fitolacca) scritte dalla Marchesini tra la fine degli anni Sessanta e la fine degli anni Ottanta. Versi potenti e delicati, capaci di evocare immagini di grande respiro: «…Che la fine di un giorno è l’unica possibilità di vita dell’altro; Che il buio e la luce non sono che due diverse condizioni del sole …Che la notte conserva sotto la coltre tutto lo splendore dei bianchi e dei gialli…» O ancora «Sono: l’addio di un giorno di festa cui lo sposo ha tradito la parola. Il porto inutile delle barche salpate – ormai tutte – l’alba irriconoscibile di un giorno di pioggia, il letto fiacco di un torrente mortificato, nell’asma di un’estate troppo inclemente.»

Pietro Valgoi


cover_amedit_dicembre_2016_webQuesto articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 29 – Dicembre 2016.

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