MAPPLETHORPE
Look at the pictures | Un lungometraggio su Robert Mapplethorpe
di Massimiliano Sardina
The Perfect Medium, l’ultima grande retrospettiva sull’opera fotografica di Robert Mapplethorpe, ha chiuso i battenti il 31 luglio 2016 presso il Getty Museum di Los Angeles. Quest’anno al Sundance Festival di Berlino è stato presentato il docufilm Robert Mapplethorpe: Look at the pictures dei registi Fenton Bailey e Randy Barbato (proiettato nelle sale italiane tra ottobre e novembre, e pubblicato da Feltrinelli nella collana Real Cinema); girato tra Stati Uniti e Germania, prodotto da HBO, il lungometraggio ha il merito di mettere a fuoco senza edulcorazioni l’autenticità del lavoro di Robert Mapplethorpe, un lavoro ormai al riparo da quei giudizi spiccioli che invano negli anni hanno tentato di demolirne il valore artistico e di ridimensionarne l’importanza sul piano estetico-formale. I registi – avvalendosi di testimonianze, racconti di collaboratori, amici, parenti e di interviste inedite all’artista – hanno scelto di rendere protagoniste le fotografie, dai primi scatti occasionali dell’adolescenza alle icone patinate dell’età adulta. Complici il delicato commento musicale di David Benjamin Steinberg e il buon montaggio foto-cinematografico di Langdon Page, Look at the pictures ci restituisce il ritratto caravaggesco di un Robert Mapplethorpe al contempo angelico e maledetto, innocente e colpevole, tenero e violento, creativo e autodistruttivo, talmente esposto da apparire casto, sempre in bilico (ma perfettamente a suo agio) su quella sottile linea di confine tra i salotti esclusivi del bel mondo newyorkese e i locali fetish-underground del sesso estremo (primo fra tutti il celebre “The Mine Shaft”, al 835 di Washington Street).
In Mapplethorpe le pratiche di vita e arte sono strettamente intrecciate, compromesse, avvinghiate come in un amplesso amoroso. In perfetta aderenza al suo vissuto l’artista dipana un campionario iconografico dove la fisicità si fa rivelazione di una dimensione ignota, inconoscibile, sospesa tra piacere e dolore, tra l’estasi della liberazione e la celebrazione del trauma. In Mapplethorpe certa omosessualità trova degna illustrazione, in particolare quell’immaginario omosessuale che dalla classicità greca, passando attraverso Michelangelo, si spinge fino al Barone di Taormina e a Tom of Finland. Tutto quello che c’era da dire su Robert Mapplethorpe lo ha scritto magnificamente Germano Celant. Quella di Mapplethorpe, scrive Celant «…è una ricerca di momenti d’estasi e d’intensità a spese del volto, del corpo, del gesto, dell’oggetto, del sesso e dello sguardo del posseduto (…) Protetto dalla seduta fotografica, il soggetto proclama la natura del suo desiderio e attraversa le infinite variazioni della propria corporalità e sensualità.» Dalla Grecia classica Mapplethorpe desume bellezza e proporzione, turgore e plasticità, tensione e pathos, e poi i bianchi e i neri, la sobria aulicità, tutta quell’umana monumentalità. C’è manierismo compiaciuto, ma ben dissimulato, nella trasposizione che mai inciampa nelle lusinghe dell’edonismo. Citazionista recidivo e divertito Mapplethorpe preleva a piene mani dai repertori della storia dell’arte, specie dall’iconografia religiosa cristiana. Nel corpo dileggiato del Cristo crocifisso si agita – inchiodato, costretto, consegnato al martirio come in una pratica bondage – null’altro che l’uomo, quell’uomo che è ricettacolo di passioni, di predilezioni e di intimi incofessati bisogni. Nel campionario di Mapplethorpe borchie, lacci, cinghie e pelli rimandano dichiaratamente agli strumenti archetipi del martirologio: la sessualità illustrata da Mapplethorpe non è che ascesi, un percorso iniziatico che è passaggio obbligato per l’estasi e la conoscenza del sé. I giochetti del fetish non sono che una ridicola messinscena: stanno lì ad indicare, con una certa annoiata indolenza, che la via del vero piacere – quello assoluto e totalizzante – deve per forza di cose passare attraverso l’esercizio consapevole e interiorizzato del dolore. Nessuna perversione.
La sessualità è un territorio su cui (con flemma o frenesia) transitano tutti, dichiarò il fotografo in più occasioni, specificando di non aver mai ravvisato nulla di dirty nell’oggetto scelto a indagine del suo lavoro. Il sesso per Mapplethorpe, e in modo particolare quello omosessuale, coincide con l’ignoto: la compenetrazione tra corpi si fa trapasso, oltraggio, conoscenza vera. Nell’iconografia mapplethorpiana nulla è lasciato al caso, tutto è filtrato in ossequio a un ordine rigoroso, un galateo compositivo che prelude allo scatto, mai sovrapponibile o discriminabile in una seconda istanza. L’atmosfera, a dispetto del calore umido sprigionato dai corpi, è fredda. Il teatro sessuale si rivela al contempo estemporaneo ed esausto, talmente spinto da apparire casto, talmente ardente da rivelarsi frigido, un sesso che è replicazione, automatismo, delirante finzione. C’è ironia in Mapplethorpe, e guai a chi non riesce a scorgerla. C’è inappuntabile rigore, c’è un congegno sofisticato che è chiamato a girare, ma c’è anche una sottile, divertita ironia. Scultore fotografico, «…investì l’omosessualità di mascolinità, grandezza e nobiltà» scrisse Patti Smith. Ebbe il coraggio di mostrare quel che non si doveva mostrare, quello che andava fatto al buio, lontano da occhi indiscreti. Seppe svestire definitivamente i corpi e illuminarli: corpi nudi, esposti, indifesi ma infinitamente potenti, immortalati nel teatro della reiterazione sessuale, corpi presi in prestito dal mito e trasposti nel tempo presente e transitorio dell’orgasmo (tutto l’Eros e il Thanatos di cui è fatta la sessualità umana). Elevò il porno ad arte, seppe riconoscerne la carica dirompente e rivelatrice, seppe decontestualizzarlo, nobilitarlo e affrancarlo definitivamente dalla zona d’ombra. Redento e reietto il corpo mapplethorpiano si fa simulacro d’amore e morte. Il corpo, nell’opera di Mapplethorpe, rivendica la sua presenza pregnante anche quando è assente; all’esclusione dallo spazio sacro-pagano dell’inquadratura corrisponde una sostituzione, un rimando, un’evocazione: ed ecco sfilare le pistole, i pugnali, le fruste, le frecce… e i fiori, calle carnose e tulipani turgidi, un porno camaleontico sotteso alla natura. Abile promotore del suo lavoro, desideroso di raggiungere i livelli di Warhol, Mapplethorpe lavorava anche su commissione. Un capitolo a parte riguarda i ritratti di celebrità (Truman Capote, David Hockney, Andy Warhol, Yoko Ono, Donald Sutherland, Susan Sarandon, Norman Mailer…), che per quanto pregevoli rappresentano forse la sezione meno interessante della sua produzione.
Robert nasce a New York (Floral Park, Queens) nel 1946, terzo di sei fratelli in una famiglia cattolica di origini irlandesi. Adolescente inquieto ed introverso si allontana dal nido familiare a soli sedici anni. Prende coscienza fin da subito del proprio orientamento omosessuale ma, preda di legittimi timori – si considerino le tare dell’epoca e il tipo di educazione ricevuto – tenta di correggersi iscrivendosi, sull’orma del padre, a diverse associazioni paramilitari. Tra ’63 e ’69 studia pittura, scultura e grafica pubblicitaria al Pratt Institute di Brooklyn. Nel ’69 si trasferisce con l’amica Patti Smith (conosciuta due anni prima) nel celebre Chelsea Hotel di Manhattan, punto di riferimento per molti artisti e intellettuali di quegli anni. è in questo frangente che Mapplethorpe comincia ad avvicinarsi alla fotografia, prima timidamente con indolente reticenza e malcelato snobismo, poi sempre più prepotentemente; le prime sperimentazioni fotografiche (soprattutto polaroid) coincidono con l’avvicinamento, altrettanto prepotente, alle droghe e all’alcol. Attratto dall’iconografia pornografica – reminiscenza di quell’illuminazione che l’aveva investito all’età di sedici anni quando aveva rubato la prima rivista porno gay – Mapplethorpe comincia a realizzare degli artwork attraverso collage e ritagli di riviste. Nel ’70 è protagonista del film Robert Having His Nipple Pierced di Sandy Daley (presentato nel ’71 al MOMA di New York). La ricerca di un proprio linguaggio espressivo lo orienta sempre più esclusivamente verso la fotografia.
Ventiquattrenne bellissimo e carismatico, con quell’aria irresistibile da cupido sciupato, Robert non tarda a costruirsi una fitta rete di relazioni. Sono gli anni della Body Art, del Concettuale, del Minimalismo, dell’Arte povera, della Land Art, della Factory di Warhol, dei moti di Stonewall… anni giovani di rivendicazioni, sperimentazioni e creatività diffusa. Nel 1970 stringe con David Crowland la prima relazione omosessuale seria; attraverso Crowland entra in contatto con John McKendry, curatore della sezione fotografica del MOMA. Lo studio dei grandi fotografi del passato gli schiude un mondo. Ad attrarlo sono soprattutto le nudità arcadiche omoerotiche di Wilhelm von Gloeden, Guglielmo Plüschow e Rudolf Koppitz, ma anche certe soluzioni di Edward Steichen, Margaret Cameron e Alfred Stieglitz. Nel 1972 Robert si lega sentimentalmente a Sam Wagstaff, raffinato uomo di cultura e ricco collezionista, che tanto si prodigherà negli anni per promuovere la sua ascesa nell’alveo dell’arte contemporanea; Wagstaff gli fa da angelo custode alla stregua di un mecenate rinascimentale, gli procura tutte le attrezzature fotografiche e gli compra un loft-studio al 24 di Bond Street (rimarranno insieme fino alla morte di Sam per Aids). Nel 1973 Robert espone la prima personale “Polaroids” presso la Light Gallery di New York. «La fotografia è un modo sbrigativo per fare una scultura.» Forte di questo convincimento Mapplethorpe è passato dagli assemblage alle polaroid, dalle stampe al platino alle fotoincisioni, dai cibachrome fino alle stampe a colori dyes, sempre alla ricerca di un dialogo perfetto tra luci e volumi, tra pieni e vuoti, tra soggetti e contesti. «Nel fotografare un fiore mi pongo più o meno nello stesso modo di quando fotografo un cazzo. In sostanza si tratta della stessa cosa. È un problema di luce e di composizione. Non c’è molta differenza. La visione è la stessa.» Tra i lavori dei primi anni Settanta: Green Bag, Red Bag, Jay kiss, The Slave, echeggiano assemblage di memoria dada, con inserti polimaterici, viraggi e collage fotografici. In The Slave (1974), Mapplethorpe rielabora l’icona dello schiavo morente di Michelangelo, associandola al profilo di un coltello: chiara allusione penetrativa che fa dello schiavo una sorta di San Sebastiano trafitto dal piacere. «Rivolgere l’attenzione allo Schiavo morente, – scrive Celant – che non è solo il trionfo della magnitudine fisica ma anche l’esternazione di un corpo vinto da una forza divina, per Mapplethorpe (come si è detto di educazione cattolica) significa considerare la bellezza interiore, di uno spirito vittima di un corpo che lo incatena e lo imprigiona. Ma la liberazione da una condizione oppressiva, guardando alla bellezza maschile che esce e si libera dalla materia, può essere interpretata come tensione verso la liberazione del piacere: un irradiamento prometeico della condizione sessuale dormiente.»
Decisivo sarà, nel 1975, il passaggio all’apparecchio fotografico Hasselblad, lo strumento con il quale realizzerà la gran parte dei suoi capolavori. Con la Hasselblad Robert si impadronisce gradualmente di tutti i segreti della tecnica fotografica e impara a piegarli in ossequio alle sue esigenze espressive. Comincia proprio in questo periodo, in un turbinoso crescendo, l’incursione nella sottocultura omosessuale newyorkese. Agito da appetiti che non tarderanno a degenerare in ossessioni, Robert si scopre pericolosamente attratto dal mondo del leather sadomasochistico (il trito rituale della ricerca del piacere attraverso l’umiliazione e il dolore), al punto di diventare un habitué del “The Mine Shaft” e locali affini. Tutto confluisce nella raccolta Sex & Magic. Nel febbraio ’77 è la volta delle personali parallele “Portraits” (Holly Solomon Gallery) e “Erotic Pictures” (The Kitchen), un’operazione studiata a tavolino per rimarcare l’impatto destabilizzante della sua produzione incentrata sul corpo; sempre nel ’77 partecipa alla VI Documenta di Kassel. L’anno successivo comincia a collaborare con il gallerista e mercante d’arte Robert Miller, grazie al quale pubblica The X & Y Portfolio (raccolte di fotografie sui temi del sadomaso e dei fiori). Nel 1978 Mapplethorpe realizza una delle sue opere più controverse: il Self-Portrait con il manico della frusta inserito nell’orifizio anale, sorta di coda luciferina che mette in collegamento artista e osservatore. Gli autoritratti scattati dall’artista nel corso degli anni – fino all’ultimo del 1988 – offrono un territorio d’indagine privilegiato e possono considerarsi una summa della sua poetica degli estremi; va sottolineato inoltre che Mapplethorpe è stato tra i primi artisti a utilizzare la propria immagine come specchio di una condizione più ampia e generalizzata, a impiegare il suo corpo, e non solo quello dei suoi modelli, per dare forma al suo immaginario. Negli anni Ottanta i diversi Self-Portrait palesano parallelamente il trionfo e il declino di Mapplethorpe, il vigore demonico (all’occorrenza imbellettato per rimarcare l’alter ego femminino) e il graduale deperimento dovuto alla malattia. Nel 1981 è la volta del Portfolio Z, della mostra “Black Males” (allestita nella galleria di Robert Miller) e di una personale al Frankfurter Kunstverein di Francoforte. Il corpo nero afroamericano – possente, statuario, primitivo – assurge prepotentemente a modello prediletto, Mapplethorpe ne era ossessionato. Il Black, agli occhi del fotografo, si fa incarnazione della perfezione, quintessenza del bello carnale e sessuale. «Robert cercava Dio in un uomo nero» sono parole della biografa di Mapplethorpe Patricia Morrisroe. E questo Dio tanto agognato Mapplethorpe l’aveva trovato nel modello e amante Milton Moore. Tra le opere-Blacks più celebri: Man in Polyester Suit del 1980 (con l’enorme pene nero che sguscia dalla patta) e Ajitto del 1981 (una rivisitazione del Caino di Wilhelm von Gloeden). Nel 1983, ormai famoso a livello internazionale, pubblica Lady, con protagonista la culturista Lisa Lyon, ed espone alcune immagini del libro nella galleria newyorkese di Leo Castelli. Lo stesso anno Mapplethorpe è presente a Venezia con una personale a palazzo Fortuny (rigorosamente vietata ai minori). Seguiranno personali a Parigi (’83) e a Tokyo (’84).

Nel 1986 Robert Mapplethorpe scopre di essere sieropositivo. Le nature morte, i teschi, le statue e i busti marmorei – memento mori e prefigurazione della fine imminente – caratterizzano l’ultima produzione dell’artista; sono segnali, scrive Celant «di una condizione fisica e corporale che va diventando impartecipe e cristallizzata.» Alla classicità vitale eroico-erotica viene a sostituirsi drammaticamente il repertorio iconografico del barocco funebre. Al trionfo della morte – si veda il già citato Self-Portrait del 1988 – fa da contraltare il volto sciupato dell’artista che va sbiadendo sullo sfondo, inghiottito dalla tenebra. È la fine di un percorso, interrotto troppo presto. La prima grande retrospettiva in America viene allestita nel 1988 presso il Whitney Museum of American Art, pochi mesi prima della sua morte. Morirà a Boston il 9 marzo 1989, all’età di quarantadue anni. Il grande archivio delle sue opere (tra cui 120.000 negativi e 3000 polaroids) è gestito dalla Fondazione Robert Mapplethorpe (fondata dall’artista poco prima di morire). Nel 1990 la prima mostra postuma “The Perfect Moment”, allestita presso il Contemporary Arts Center di Cincinnati, costò al direttore della struttura un processo per oscenità; la vicenda, che si chiuse con un proscioglimento, scatenò nei media un ridicolo dibattito su cosa potesse o non potesse considerarsi arte. Nel 2009 l’Italia ha celebrato Mapplethorpe nella mostra “La perfezione della forma” (presso le Gallerie dell’Accademia di Firenze) avvicinandolo nientemeno che a Michelangelo, un accostamento coraggioso ma tutt’altro che stridente. Per ogni approfondimento sulla figura di Mapplethorpe rimandiamo alla biografia redatta da Patricia Morrisroe Robert Mapplethorpe: a Biography (1995) e agli studi di Germano Celant, in particolare al recente Mapplethorpe. La ninfa fotografia (Skira, 2014).
Massimiliano Sardina
Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 29 – Dicembre 2016.
Copyright 2016 © Amedit – Tutti i diritti riservati
Per richiedere una COPIA della rivista CARTACEA: SEGUI ISTRUZIONI A QUESTA PAGINA