LA RIMOZIONE DELL’EVIDENZA | La verità negata | Un film di Mick Jackson

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di Andrea Pardo

Sulla Shoah sembra sia stato detto tutto quanto c’era da dire. Tanto la letteratura quanto il cinema ce l’hanno raccontata in tutti i modi possibili, eppure, a distanza di oltre settant’anni, non sembra si possa ancora porre la parola fine su quella drammatica pagina di storia. Il genocidio degli ebrei (e non soltanto di loro) a opera dei nazisti potrebbe essere finalmente archiviato come un triste e lontano ricordo, qualcosa di cui far memoria affinché non accada mai più. Ma se ancora oggi c’è chi, in buona o malafede, è portato a dubitare della sua evidenza storica, vuol dire che non tutto ancora è compiuto, che quella storia non si è sedimentata abbastanza nelle nostre coscienze e non ha smesso di interpellarci, di chiamarci in causa, di riconoscere quanto essa ci appartenga oggi come allora. Tutti dovremmo, almeno una volta nella vita, recarci ad Auschwitz. Per un dovere civile, perché quel luogo più d’ogni altro ci riguarda da vicino, perché rappresenta ciò che possiamo in quanto uomini arrivare ad essere, come vittime o carnefici. La storia, e Auschwitz in particolare, ci insegnano che possiamo essere l’uno o l’altro, o tutte e due le cose contemporaneamente. Sono solo le circostanze a fare la differenza. Ma Auschwitz di per sé non prova nulla, non conserva le armi tangibili del peggiore delitto contro l’umanità che si sia mai consumato in epoca moderna. Ci aggiriamo da turisti o pellegrini tra i suoi fili spinati e le sue fredde fabbriche di mattoni come fossimo all’interno di una grande opera di archeologia industriale. Non fosse per ciò che sappiamo, per quanto ci hanno riferito decine di libri, documentari e film nulla in quegli sterminati spazi oggi asettici ci offre una sola prova concreta dell’orrore giunto al suo apogeo proprio lì. I forni ricostruiti ad hoc, le ciocche di capelli, le scarpe, le suppellettili ammucchiate dietro le vetrate sembrano più installazioni museali a uso e consumo dei visitatori, per fargli dire: “Ecco, vedete, è tutto vero!”. Potrebbe anche essere soltanto un grande set a cielo aperto, la location prescelta per fare da scenario a un mito, uno dei tanti, e a tutte le successive rivisitazioni cinematografiche che se ne vogliano fare. Difatti Auschwitz come luogo fisico non rivela nulla dei suoi orrori, perché ormai esso trae senso e valore solo dal cinema e dalla letteratura, ed è lì che vive, è solo attraverso ciò che queste opere ci restituiscono che possiamo accettarne l’evidenza storica. Questo fa di Auschwitz sì il luogo simbolo della Shoah, ma anche il luogo simbolo di chi la nega, quello che meglio si offre alla sua confutazione storica.

In La verità negata del regista Mick Jackson Auschwitz è infatti semplicemente il luogo del crimine dove occorre rintracciare le prove di un delitto, ed è la Storia a finire sul banco degli imputati e a dover per di più sostenere l’onere della prova. Non l’ennesimo film sull’Olocausto, ma un legal drama che ricostruisce un caso giudiziario che si svolse in Inghilterra dal 1996 al 2000, quando il negazionista inglese David Irving (Timothy Spall) intentò una causa nei confronti della casa editrice Penguin Books e di Deborah Lipstadt (Rachel Weisz), docente di Studi ebraici moderni e dell’Olocausto presso l’Università di Atlanta. Irving accusò la Lipstadt di diffamazione per quanto riportato nel libro Denying the Holocaust, in cui l’autrice lo definisce un apologeta del nazismo e un mistificatore che attraverso la falsificazione dei fatti negava che l’Olocausto fosse realmente accaduto. Il regista sceglie di raccontare questa storia attraverso la cronaca che ne fa la stessa Lipstadt nel libro Denial: Holocaust History on Trial. Di fronte alla Corte Irving ostenta con veemenza e spavalda sicumera i suoi assunti tesi a smentire l’esistenza delle camere a gas e ogni coinvolgimento diretto da parte del Führer nella soluzione finale che portò al sistematico sterminio di milioni di ebrei, non si sforza minimamente di smentire le accuse di antisemitismo che gli vengono mosse né le sue posizioni di estrema destra assimilabili a quelle che ispirarono il Nazional-socialismo tedesco, non mostra di provare alcun disagio nel riaffermare al cospetto del giudice quelle stesse idee già ampiamente propagandate in vari suoi saggi pseudostorici, conferenze e trasmissioni televisive. Ciò che fa argomentare Irving con tanta sicurezza è la sua innegabile conoscenza della documentazione a nostra disposizione, una documentazione che gli stessi storici, pur con qualche riluttanza, hanno dovuto riconoscere molto lacunosa e incerta; non esiste ad esempio alcun documento scritto che dimostri il reale coinvolgimento di Hitler nell’eliminazione fisica di quanti finirono nei campi di sterminio. Non sono quindi le sue idee a dover essere messe in discussione, quanto la Storia così come ci viene riportata e fatta credere. Ecco perché il caso Irving-Lipstadt assume un significato importante per quanto concerne l’approccio storico alla Shoah. Irving fa infine appello alla libertà di parola come legittimazione di ciò in cui crede e intende divulgare. Ma, controbatte la Lipstadt, se la libertà di parola è sacrosanta e va tutelata, non deve venir meno la responsabilità nello smascherare le menzogne.

Andrea Pardo


cover_amedit_dicembre_2016_webQuesto articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 29 – Dicembre 2016.

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