PARSIFAL IN IRAQ | Festival wagneriano di Bayreuth 2016

PARSIFAL IN IRAQ

Festival wagneriano di Bayreuth 2016

di Giancarlo Zaffaroni

(Su Amedit n. 28 – Settembre 2016) 

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Parsifal è la risposta finale di Wagner al problema del rapporto fra arte, religione, cultura, politica, ideologia… Così è quasi fatale che una messa in scena odierna rappresenti quella che qualcuno può chiamare la guerra di religione. La vicinanza di violenze e omicidi di diversa origine al luogo e al tempo dell’esecuzione carica questo destino di una luce sinistra. E dunque l’azione sacra dei cavalieri del Graal può essere in un Medio Oriente in guerra, con religiosi pietosi che si occupano delle vittime protetti da militari non seducibili da fanciulle-fiore velate, forse vergini in attesa dell’eroe islamico non si sa se nel numero regolamentare.

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Misure di sicurezza eccezionali, nessun tappeto rosso o ricevimento ufficiale, Frau Merkel saggiamente assente, divieto di portare cuscini per mitigare le scomode sedute wagneriane a prova di sonno. Nei giorni delle prove il protagonista in abiti di scena militari e senza documenti è stato addirittura fermato dalla sicurezza, come se un attentatore si presentasse vestito come tale. Cambio in corsa di registi e direttori per ragioni economiche o stilistiche, non insolito nella storia complicata del Festival: Jonathan Meese sostituito da Uwe Eric Laufenberg e Andris Nelsons da Hartmut Haenchen. Quest’ultimo ha portato una lunghissima esperienza wagneriana e le sue partiture, invitando i musicisti a disincrostare la loro visione a memoria. Laufenberg ha portato un approccio artigianale e provinciale, poco incisivo e per qualche aspetto ridicolo, innocuo nonostante le fanciulle-fiore islamiche.

Notevole la compagnia di canto, strepitosi orchestra e coro, tutti al servizio di una partitura non impervia come altro Wagner. Partitura che è di una complessità sconcertante e ambivalente, leggibile con strumenti tecnici musicali solo per gli strati più superficiali. La tecnica dei motivi conduttori (leitmotive) è spinta fino alla “variazione senza tema” (Stefan Kunze), caleidoscopio emozionale di temi e timbri che costruisce e spiega l’evoluzione psicologica dei personaggi, in una visione epica che risale fino al teatro greco.

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La rappresentazione dell’opera è un rito sociale e artistico, particolarmente Parsifal che si celebrò esclusivamente a Bayreuth fino al 1913 per volere di Wagner, anche per attrarre pubblico con l’esclusiva. Il soggetto vuole essere pan-religioso (il regista dice post-religioso), la redenzione come premio per la rinuncia alla tentazione. Parsifal, sapiente per compassione, ha la consapevolezza che manca a Sigfried, compassione che salva il regno ristabilendo un ordine naturale perduto. La misteriosa Kundry, spirito femminile eterno, seduttrice salvata dalla rinuncia di Parsifal, si fa anch’essa servitrice del mondo. La regia usa ampiamente simboli e immagini di diverse religioni, il cattivo Klingsor colleziona crocifissi. Questi simboli vengono seppelliti nella bara del vecchio re Titurel, esorcismo contro le religioni mortifere, invito a superare una dimensione religiosa superstiziosa, o a dimenticarle tout court? La confusione dei significati può essere complessità di visione, o vuota confusione opportunistica.

Accessibilità fisica limitata dalla sicurezza e accessibilità mediatica limitata dal copyright: nell’era della riproducibilità totale, in Italia si può ascoltare l’opera solo alla radio pubblica in diretta, come cento anni fa ma con lo smartphone. Quest’anno Radio3 ha proposto solo la prima metà della tetralogia, lungimiranza di chi compone i palinsesti col prevalere dell’ormai ovvia logica del “meglio qualcosa che nulla”. Passata una settimana dalla prima del Parsifal nessuna recensione musicologica in italiano facilmente reperibile in rete, solo cronache di colore. Ricordo estati di molti anni fa quando grandi musicologi scrivevano sui giornali da Bayreuth, e ogni articolo era un piccolo saggio da incorniciare.

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Chissà se il messaggio di superamento dell’odio fomentato da ideologie religiose strumentali e grettezza ignorante e disumana, che oggi con buon senso si può indicare come significato dell’opera, potrà in qualche modo arrivare a chi davvero può migliorare le cose? Ascolterà mai l’Incantesimo del Venerdì Santo chi, risucchiato in un vuoto culturale e umano, uccide altre persone essendo la sua già morta? Chi, nella classe dirigente, organizzi una sicurezza ragionevole e civile insieme a una cura sociale adeguata a prevenire tale vuoto, unica difesa dalla barbarie? Può il decrepito spettacolo del teatro dell’opera insegnare ancora qualcosa al mondo? Esisterà qualche puro folle che saprà guidarci altrove dalla violenza?

Giancarlo Zaffaroni


amedit_settembre_2016_preciousQuesto articolo è stato pubblicato sulla versione online di Amedit n. 28 – Settembre 2016.

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