HABIBI HARAM
Ultimo giro al Guapa | Un romanzo di Saleem Haddad
di Massimiliano Sardina
(Su Amedit n. 28 – Settembre 2016)
Cresciuto tra Kuwait, Cipro e Giordania Saleem Haddad è nato da padre libano-palestinese e madre iracheno-tedesca. In Ultimo giro al Guapa, suo romanzo d’esordio, si incrociano due rivoluzioni, una più corale e l’altra più intima, entrambe sbocciate prepotentemente nel pieno della cosiddetta Primavera araba; da un lato le nuove generazioni mediorientali, sempre più occidentalizzate, insofferenti verso le forze politiche conservatrici, e dall’altro le singole storie di chi, pur condividendo le stesse istanze di rinnovamento, è costretto a vivere nell’inadeguatezza e nella clandestinità. Haddad, attraverso una scrittura ispirata, diretta e partecipe, fotografa (senza mai specificarne il nome) una capitale mediorientale in pieno tumulto, precaria a ogni angolo, pericolosa, divisa tra i sobborghi occidentali in espansione, i vecchi edifici del centro e le baracche delle periferie.
«Ci fermiamo a un posto di blocco. Il soldato ci chiede i documenti. Mi sento invadere automaticamente dal senso di colpa, come se rischiassi di essere trascinato fuori dall’auto per un crimine che ho commesso senza neppure saperlo nel mezzo del labirinto di regole complesse e norme tacite in agguato a ogni angolo. Qui non è il governo che risponde ai bisogni e ai desideri del popolo, penso, mentre porgo i documenti. Qui è il popolo che deve rispondere al governo.» A parlare è Rasa, il protagonista, un giovane che per via della sua natura omosessuale è costretto a vivere nell’ombra, figlio di una società grondante religiosità misogina (quindi omofobica), una società che fin da bambino gli ha insegnato cosa è ‘eib e cosa non lo è. È ‘eib mettersi le dita nel naso, non presenziare a un matrimonio, accettare una seconda porzione di cibo alla prima offerta, chiedere l’età a una donna, ed è ‘eib per un maschio giocare con le bambole. Una traduzione fedele della parola è: “vergogna”, ma l’’eib comprende molto di più; il sottinteso del termine è il kalam il-nas, ossia: quello che dirà la gente.
Rasa vive con Teta, la sua nonna paterna. Il padre è morto da anni, e di sua madre sa solo che ha mollato tutto e se n’è andata via. Rasa conosce le lingue, ha studiato in America, e ora si guadagna da vivere come interprete e traduttore. Spesso lavora per Laura, una giornalista italiana sempre sul campo a caccia di scoop, l’imprudenza fatta mestiere, una di quelle che “ti pago il doppio” se accetti di accompagnarla in certe zone interdette. Rasa è il suo ponte, la sua affidabile guida orientale che parla sia l’arabo e sia l’inglese. Da anni ormai la situazione politica è fuori controllo. A cosa aveva portato il vento ribelle e rigeneratore della rivoluzione? Rasa ci aveva creduto alla rivoluzione. L’aveva combattuta, urlata, manifestata nei cortei. L’aveva desiderata, sognata, idealizzata. E poi? Poi cosa ne è stato di tutto quest’anelito di democrazia e libertà? In quale vena cieca si era andata a stagnare quella trasfusione d’americanismo? Prima i gas lacrimogeni, i pestaggi, gli arresti, le umiliazioni, e infine il caos, la dispersione. Il potere dittatoriale da una parte e il terrorismo jidahista dall’altra: la rivoluzione è rimasta come schiacciata, pressata, soffocata. Non è morta del tutto, respira ancora, ansima, e in certi luoghi come il Guapa la puoi persino toccare, abbracciare, baciare. Il Guapa è uno storico locale gay underground, con un piano seminterrato che è una sorta di mondo a sé, un’oasi, una piccola America, un vero e proprio rifugio per Rasa e i suoi amici. In questo spazio protetto (in un certo senso tollerato dalle autorità) gli omosessuali arabi possono chiamarsi habibi (amore, declinato al maschile) e non sentirsi oppressi dall’haram (il peccato). Rasa è insieme un eroe e una vittima di questa rivoluzione placata sul nascere, neutralizzata dall’autoritarismo.
In un caso come nell’altro – dittatura presidenziale o governo islamico – cosa ci avrebbe guadagnato? Per entrambi gli schieramenti lui sarebbe rimasto null’altro che un deviato, un khawal. Tutt’intorno una città ostile, caotica, stretta nella morsa del traffico e dei gas di scarico, una città qua fatiscente e là tutta un cantiere, un organismo vivente in costante espansione, con migliaia di tetti puntellati da parabole satellitari e serbatoi in alluminio, una metropoli indifferente ma costellata di sguardi sospettosi e indici giudicanti. «Ai lati della strada sono affissi poster del presidente. (…) Manifesti che lo ritraggono nella dishdasha tradizionale indossata dalle tribù del deserto; foto in giacca e cravatta. In alcuni porta la barba mentre in altri è perfettamente rasato. Come una Barbie, il presidente è disponibile in diverse versioni: Presidente Tribale, Presidente Imprenditore, Presidente Ikhwan, Presidente Laico. Collezionali tutti!» Meglio rifugiarsi al Guapa o, meglio ancora, chiudersi a chiave nella propria stanza. In Rasa, già da un paio d’anni, cova un’altra rivoluzione, questa volta vinta davvero. Una rivoluzione che si chiama Taymour. I due si amano perdutamente, ma di un amore segreto, blindato, un amore protetto dalle quattro mura della stanza di Rasa. «Forse proprio a causa di questa segretezza il nome di Taymour esercita su di me un potere inesplicabile. È un nome gravato da segreti e implicazioni, che si è trasformato in qualcosa di molto più grande delle sette lettere che lo compongono. Aspetto sempre con ansia di ascoltare la gente pronunciarlo con i toni e le inflessioni tipiche di ciascuno. Lo analizzo, lo divido in sillabe. Qualche volta, quando sono certo che nessuno può sentirmi, arrivo addirittura a sussurrarlo a bassa voce. Mi appaga per un po’, ma non è mai abbastanza. No, ho bisogno che anche altri pronuncino quel nome. Che lo rendano reale. Che ci rendano reali.»
Fuori dalla stanza la città marcisce giorno dopo giorno, dilaniata da una parte dagli attentati e dall’altra dalla repressione. Rasa e Taymour sognano una vita altrove, una primavera occidentale, una stagione di perenne democrazia, ma fintanto che la loro esistenza li tiene legati lì non possono far altro che recitare, e sono ruoli che fin da bambini hanno imparato a ricoprire con diligenza. L’arte del nascondimento – orpello estremo del travestimento – sta agli omosessuali come la leggerezza sta alla piuma. È un’arte che s’affina implicitando tutta un’esistenza, moderando toni, gesti ed espressioni, divenendo lo schermo dove la società proietta l’immagine che è disposta a rimirare. Tutta una pantomima. Come il matrimonio di Taymour con Leila. Rasa è costretto ad accettarlo, sa che le maschere e le coperture non sono mai abbastanza, ne soffre, quasi ne muore, ma non può farci nulla. È questo il prezzo che il loro amore deve pagare per sopravvivere. Pochi giorni prima del matrimonio Teta, spiando dalla serratura, scopre la natura del rapporto tra il nipote e l’inseparabile amico. Tragedia. La vecchia batte i pugni contro la porta e intima a Rasa di mettere fine a quell’amicizia insana. Ora i due non potranno più incontrarsi lì, e pensare che avevano sempre adottato ogni cautela per non farsi scoprire, ma quella notte Rasa aveva dimenticato di appendere la giacca sulla maniglia della porta. Dopo due anni quello non poteva più essere il loro rifugio, il loro nido d’amore. Vedersi a casa di Taymour era impossibile; appartarsi in macchina o andare in albergo era troppo rischioso; restava il Guapa, sì, per fortuna c’era il Guapa, ma una vita non puoi viverla in un seminterrato, la vita ha bisogno di sole, di aria, di spazio, di trasparenza. Vallo a spiegare ai fondamentalisti o agli scagnozzi del regime, vallo a spiegare agli zalameh (gli uomini virili), che di virile hanno solo l’istinto alla violenza. «Dobbiamo andarcene da qui. (…) Qui io e Taymour non saremo mai nient’altro che uno sporco segreto in attesa di essere scoperto.»
Il matrimonio di Taymour con Leila getta Rasa nella disperazione. Sa bene che quella non può essere la soluzione al problema; anche lui dovrà sposarsi un domani per tener chete le acque? Il disordine regna dentro e fuori. Il presente non lascia intravedere un futuro. L’immagine che ha di sé è quella di «un esploratore con una bussola guasta» circondato da gente che gli indica direzioni opposte. La società lo rifiuta, lo respinge, ma al contempo lo inghiotte, lo incanala nel gorgo, una società fatta di «donne truccate e uomini che si danno il cinque.» Rasa deve quotidianamente fare i conti con la propria arabità e la propria condizione di shaadh (checca, depravato, spregevole). «Guardo il mio corpo, come una prigione. (…) Non sono né qui né là. Né in America né qui. Ciascuno di questi elementi costituisce una parte di me, e quando si sommano tutti insieme l’unico risultato è shaadh.» Se Taymour ama con vergogna, Rasa al contrario ama con orgoglio. La sua è una natura fiera, forgiata sui valori civili. Rasa ha fatto sue le parole di Theodor W. Adorno: «La più alta forma di moralità è sentirsi degli estranei in casa propria.» Nei momenti di sconforto la sua mente innamorata torna ad accarezzare tutte quelle ore segrete vissute con l’amato. La perfezione è lì, tra quelle quattro mura. «E poi calammo l’uno sull’altro. (…) Come due anime derelitte, ci prendemmo tra le braccia nel tentativo di ridiventare una cosa sola. Ci sentivamo indistruttibili.»
Rasa sa che non potrà più nascondersi. La rivoluzione che ha agito dentro di lui ha stabilito che d’ora in avanti amerà con franchezza. «Che senso ha l’amore» si domanda «se non riusciamo a preservarne l’autenticità?» La rivoluzione comincia dal rapporto con chi hai di fronte, ed è da lì che poi si allargherà per le strade della città fino a comprendere il mondo intero. «Per un attimo abbiamo avuto tra le mani l’intero paese. Ma poi ci siamo tirati indietro. E adesso il potere della strada è stato abbattuto, e gli è stato spezzato il cuore.» Rasa avrebbe rinunciato a tutte le rivoluzioni del mondo pur di svegliarsi accanto al suo amato. «Mi sarei stretto al suo corpo caldo e l’avrei baciato sulle labbra per assaporare il suo fiato mattutino. È strano che una simile minuzia possa significare così tanto, il fatto di svegliarsi rannicchiati accanto alla persona che si ama.» Ultimo giro al Guapa (tradotto dall’inglese da Silvia Castoldi e pubblicato dalle edizioni e/o) ci offre una visuale assolutamente privilegiata sulle sofferte trasformazioni attualmente in atto in molte metropoli mediorientali. Haddad sorvola Siria, Egitto, Libano, Giordania e ambienta il romanzo in una sorta di ibrido urbanistico tra Beirut, San’a, Amman e Il Cairo. Poco importa il luogo specifico, l’attentato o la retata repressiva di turno, perché la rivoluzione preme ovunque, ora vigorosa, ora fiaccata, ma sempre passionale, coraggiosamente umana. Dal Guapa, allargandosi per cerchi concentrici, la bella scrittura di Haddad si spinge a descrivere gli aspetti meno noti (e troppo spesso taciuti) in seno alla Primavera araba, una stagione complessa e tutt’altro che in fiore.
Massimiliano Sardina
Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 28 – Settembre 2016.
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