DOVE COMINCIA TRUMAN | Dove comincia il mondo | I primi racconti di Truman Capote

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DOVE COMINCIA TRUMAN

Dove comincia il mondo | I primi racconti di Truman Capote (Garzanti, 2016)

di Andrea Pardo

(Su Amedit n. 28 – Settembre 2016) 

 

Dove comincia il mondoTruman Capote, compiaciuto e sofferto enfant prodige, ha cominciato a scrivere all’età di otto anni. L’esercizio quotidiano della scrittura diventa presto una regola per il piccolo Truman, anzi qualcosa di molto simile a un’ossessione; all’età di undici anni, alla stregua di un musicista che si accanisce sul suo strumento, si impone di scrivere per circa tre ore ogni pomeriggio, dopo aver assolto i compiti scolastici. Questi primi esperimenti narrativi, ingenui ma al contempo arditi e non privi di soluzioni originali, palesano un’urgenza irrinunciabile, quell’impossibilità di fare altro che contraddistingue lo scrittore di genio, deciso a vivere nella scrittura e per la scrittura. Il primo a rintracciarli (negli archivi Truman Capote della Public Library di New York) e a riscontrarne l’indubbio carattere di eccezionalità è l’editore svizzero Peter Haag. La pubblicazione postuma di scritti inediti è sempre un’operazione controversa, e lo è ancor più nel caso delle produzioni sperimentali giovanili. È più che mai necessario agire con ogni cautela e delicatezza, coadiuvare il testo con un solido apparato critico che lo contestualizzi e lo giustifichi punto per punto, ma soprattutto è necessario evidenziare una demarcazione netta tra l’opera matura propriamente detta e quello che, per buona parte, deve considerarsi solo un laboratorio d’apprendistato.

The Early Stories of Truman Capote – un progetto editoriale curato dalla Truman Capote Literary Trust (la fondazione istituita dallo scrittore, depositaria di tutte le sue opere) e dalla casa editrice Random House – raccoglie solo un’esigua parte della produzione giovanile capotiana, nello specifico quattordici racconti brevi; si tratta di composizioni redatte grosso modo tra il 1935 e il 1943 (non si conoscono le date esatte, ed è inoltre probabile che Capote vi abbia operato degli interventi di revisione in una fase successiva). I racconti: Ognuno per la sua strada, Terrore nella palude, Lucy, Hilda, La falena e la fiamma, Miss Bell Rankin e Louise apparvero tra il ’40 e il ’42 sul periodico letterario del liceo di Greenwich («Green Witch»); di una datazione successiva (tra ’45 e ’47) è invece Anime gemelle, in cui la scrittura compare più solida e matura. Come sottolinea David Ebershoff nelle note di postfazione: «Capote aveva trovato la propria voce in tenerissima età, ma dovette al tempo stesso sgobbare per svilupparla.» In queste prime stesure, tra le righe, c’è già tutto Capote. Quella sua capacità di affilare le parole in un equilibrio straniante e seducente tra violenza e tenerezza; e così i suoi personaggi, talmente reali da apparire a tratti metafisici, come appartenenti a un altro mondo. In Ognuno per la sua strada e Louise (tra i racconti più riusciti) serpeggia, mai esplicitata, un’omosessualità sotterranea che sembra avvolgere i personaggi in una morsa invisibile. Anziane signore, donne afroamericane, bambini, ragazzine, uomini vigorosi…, il giovane Truman si guarda intorno, studia meticolosamente ogni tipologia di persona, ogni archetipo di personaggio narrativo e tenta, attraverso l’esercizio reiterato della scrittura, di stabilire un’empatia, è attratto dalle figure più ai margini, più indifese e vulnerabili, quelle meno integrate nel tessuto sociale (il diverso, il vagabondo, l’avventuriero, il criminale, chiunque viva in una condizione di estraneità).

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Potenti, nitide, talvolta pittoriche, le descrizioni ambientali, esterni scenografici dove sole e luna si danno il cambio in squisiti siparietti: «… Non ci fu il rosso del tramonto, ma solo il grigio perla del cielo che a poco a poco diventava nerissimo. Nevicava ancora, e la strada era gelida e fangosa.» o ancora «… La luna splendeva alta nel cielo, con tante nuvolette pallide ed esangui sospese intorno alla sua superficie come uno scialle di squisiti merletti.» In molti racconti compare il disco del sole, acceso come un riflettore puntato sulle vite sottostanti, un sole agostano cui nulla sfugge, un sole che insieme illumina e schiaccia. «… Era un giorno caldissimo d’agosto. Il sole declinava nel cielo listato di scarlatto, e il calore si alzava secco e vibrante dalla terra.» o ancora «… Forse era soltanto il sole troppo vivo che gli si specchiava negli occhi, ma in realtà, forse erano lacrime vere.» In certi passaggi questi contrasti cromatici quasi fauve virano verso suggestioni crepuscolari e gotiche: «La luce era fioca, e gli angoli della stanza erano al buio: tutta l’atmosfera era fredda e vittoriana. Davanti alla finestra, Ethel stava guardando la prima nevicata dell’anno, il manto bianco sugli alberi nudi e l’argenteo impolverarsi della terra.»

Testimonianze preziose, infinitamente interessanti per inquadrare l’apprendistato di uno dei più grandi scrittori americani di tutti i tempi, ed è appunto considerandole da quest’ottica che riusciamo ad apprezzarle maggiormente, sorvolando certe ingenuità e certi stereotipi letterari. Garzanti, storico editore italiano di Capote, ci propone i quattordici racconti nell’attenta traduzione di Vincenzo Mantovani, scegliendo come titolo Dove comincia il mondo (che è il titolo del racconto che chiude la raccolta). Per chi ha amato e ama l’indimenticabile autore di Musica per camaleonti, A sangue freddo, Altre voci altre stanze e L’arpa d’erba (per non citarne che alcuni), la lettura di questi racconti risulterà certo un’esperienza affascinante e appagante.

Andrea Pardo


IL TOCCO di TRUMAN

di Giuseppe Benassi

(Su Amedit n. 28 – Settembre 2016) 

Son davvero pochi gli scrittori che si riconoscono a prima vista, leggendo qualche riga, addirittura qualche parola (che hanno usato praticamente solo loro); sentendo quella certa musicalità o sonorità della loro prosa; o una setosità o ruvidezza; lo stile attico o asiano; o quel certo taglio della frase; una voce roca o stridula, una temperatura gelida o bollente. Oppure, certe situazioni, certi dialoghi, “non possono esser d’altri che di… “. Son quelli gli scrittori migliori? Quelli immediatamente riconoscibili? Come per ogni problema estetico, la risposta è aperta. Ma de gustibus est disputandum… Non se ne può più di quelle prose povere, da quinta elementare, da editor di Fabio Volo, che van per la maggiore. Ormai è invalsa una prosa standard, priva di risonanze, che tira tutti verso il basso. Mentre in pittura la riconoscibilità è un must, sembra che in letteratura tutti tendano verso lo stesso livello zero, di sconsolante uniformità. Fra gli italiani, Gadda, Manganelli, Longhi, Arbasino, Parise, Comisso, Busi, Tondelli, si riconoscono dopo pochissime parole. E son reputati i migliori, almeno come stilisti. E come invece scrivono sciattamente Svevo, Fenoglio, Pirandello, Buzzati, Eco, e tante altre “glorie” letterarie… D’Annunzio, all’opposto, scrive troppo bene, oltre i limiti dello stucchevole. Per gli stranieri, per chi non legge in lingua, ovviamente la cosa si fa più difficile. Come si fa a sentire “la musica” di una prosa, se si legge in traduzione? Eppure, un’eco risuona. Fra gli americani, uno dei più affilati è Truman Capote. Ecco, sebbene in traduzione, le frasi e le battute ove si sente, inconfondibile e commovente, dolce e sarcastica, la musica, il tocco inimitabile di Truman. Qualcosa che non potrebbe esser stato scritto da altri che da lui. Quasi sempre, un misto di dolcezza e perfidia, incanto e disincanto, innocenza e cinismo. Una carezza e un graffio, un elogio e un insulto, riuniti insieme, nella stessa frase. Una coltellata, ma inferta con stile. L’affetto e il disgusto riversati sulla stessa persona. Periodi secchi, privi di orpelli e di grasso, che schioccano come scudisciate.

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Poco dopo il matrimonio, scoprii che la meravigliosa stupida serenità degli occhi di mia moglie aveva un’eccellente ragione. Hulga era una deficiente. / Jack Kerouac non scrive: batte a macchina. / Cristo, se dal suo corpo fossero sporti tanti cazzi quanti ve ne erano entrati, avrebbe avuto l’aspetto di un porcospino. / Feci l’autostop, senza avere in mente una meta particolare e venni preso a bordo da un uomo al volante di una Cadillac bianca decappottabile. Non lo avresti creduto un finocchio. Ma lo era. / Avevo una mia clientela privata, uomini e donne che massaggiavo e a cui insegnavo esercizi corporali e facciali… anche se gli esercizi facciali sono pure stronzate: l’unico che serve a qualcosa è il pompino. / Se un mago volesse farmi un dono, dovrebbe darmi una bottiglia piena delle voci di quella cucina: i nostri “ah, ah, ah” e i crepitii del fuoco; una bottiglia colma fino all’orlo dell’aroma di burro, di zucchero, di forno… anche se Catherine puzzava come una scrofa a primavera. / Dolly non toccava mai verdura, e la sola carne che le piacesse era il cervello di gallina; una cosa talmente piccola che si liquefà prima che si riesca a gustarla. / In tutti coloro che aveva amato c’era sempre qualcosa di guasto, di rotto. Strano tuttavia come questo sentimento, dopo aver dato origine ad una simpatia, finiva regolarmente per distruggerla. / È un terremoto o solo una scossa? Brodo di carne o solo di ossa? È un prato intero o un filo d’erba? O è sempre al solito la vecchia merda? / Quando ho sentito parlare per la prima volta dell’arpa d’erba? Molto tempo prima di quell’autunno in cui andammo ad abitare sul sicomoro. / Le donne son come le mosche, van sul miele o sulla merda. / Le piaceva tanto scuriosare nei miei libri di scuola, soprattutto nell’atlante geografico: “Oh Buddy – diceva – ma pensa un po’: un lago che si chiama Titicaca. Esiste davvero, in qualche parte del mondo”. /  Da quando è morta mia moglie – lo stesso giorno in cui è morto Hitler – …

E, a proposito dello scrivere, è lo stesso Capote che racconta: «Un giorno mi misi a scrivere, ignorando d’essermi legato per la vita a un nobile ma spietato padrone. Quando Dio ti concede un dono, ti consegna anche una frusta; e questa frusta è intesa unicamente per l’autoflagellazione. Ma ovviamente non lo sapevo. Era molto divertente, all’inizio. Smise d’esserlo quando scoprii la differenza fra scrivere bene e scrivere male, e poi feci una scoperta ancor più allarmante: la differenza tra un ottimo stile e la vera arte; è sottile ma feroce. E allora calò la frusta!».

Giuseppe Benassi


amedit_settembre_2016_preciousQuesto articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 28 – Settembre 2016.

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