LA PROFEZIA DI McLUHAN
ovvero la contemporaneità come ritorno al prealfabetico
di Massimiliano Sardina
(Su Amedit n. 28 – Settembre 2016)
Schermi e schermetti dei nuovi media ipertecnologici hanno modificato profondamente la nostra percezione della realtà. Hanno spalancato finestre che sarà impossibile richiudere. Ogni aspetto della realtà contingente appare, nel bene e nel male, sempre più filtrato, virato, condiviso. La comunicazione, rotti gli steccati tradizionali, si va amplificando altrove, stabilendo relazioni un tempo inimmaginabili. La rappresentazione della realtà, fedele o fuorviata che sia, ha finito per coincidere con la realtà stessa, e viceversa, in un’unica soluzione di continuità. Quando la sovrapposizione si fa compenetrazione è davvero arduo distinguere, subentra così una fluidità di fondo, un flusso che convoglia il tutto in un unico grande gorgo.
Per descrivere efficacemente il gorgo fagocitante del contemporaneo l’esperto di comunicazione visiva Marco Magurno – autore del complesso e affascinante saggio Diorama (Il Saggiatore, 2016) – prende a prestito il vortice perenne e immenso descritto da Poe nel racconto Una discesa nel Maelström (1833). Nel racconto di Poe il marinaio fissa il vortice e ne è attratto. Il vortice incorpora e distrugge navi, tronchi, barili, casse, e con la stessa indifferenza incamererebbe esseri umani. Preda di un misterioso delirio il marinaio è agito da una curiosità temeraria che travalica la paura. Nel marinaio che contempla il Maelström Magurno individua una prefigurazione dell’uomo contemporaneo rapito dalle immagini della rete. «Ma cos’è questa, se non una descrizione dello sguardo contemporaneo e di quel gorgo iridescente che quotidianamente cattura i nostri sensi nello schermo del nostro personal computer, sulla superficie touch dei nostri innumerevoli dispositivi?» Chiamato a interagire con un mondo sempre più iperconnesso, l’uomo contemporaneo è continuamente esposto a una sovrastimolazione, un bombardamento di messaggi e di richiami in perenne riformulazione che mette a dura prova la sua comprensione della realtà. Parliamo di una tecnologia invasiva e pervasiva, tutt’altro che accessoria. Una tecnologia che va sempre più configurandosi come una protesi del nostro sistema nervoso, parte integrante e connotante.
Con sorprendente lungimiranza il filosofo e sociologo canadese Marshall McLuhan già nei primi anni Sessanta aveva intuito nell’avvento dei computer il pericolo (o l’opportunità) di un ritorno al mondo prealfabetico delle società arcaiche; a McLuhan fu chiaro fin da subito che i nuovi media elettronici (al di là del loro utilizzo per facilitare la risoluzione di problemi tecnici) avrebbero agito su un piano squisitamente sensoriale. Queste macchine prodigiose – oggi sempre più piccole, con l’intrinseca tendenza all’impalpabilità (dal tasto al touch, e dal touch agli innesti di sensori sottopelle, fino a un’ibridazione capace di innescare un vero e proprio salto evolutivo) – schiudono uno spazio dilatato ed elastico, un Supermondo, uno spazio percepibile ed esperibile soprattutto attraverso i sensi, al di là del linguaggio visivo e verbale. McLuhan arrivò ad auspicare come acme della relazione simbiotica uomo-computer una sorta di integrazione psichica collettiva mirata alla creazione di una coscienza inclusiva totalizzante e di una telepatia globale. Ecco cosa dichiarò McLuhan in un’intervista rilasciata alla rivista Playboy nel marzo ’69: «…Se il feedback di dati è possibile attraverso i computer, perché non dovrebbe essere possibile un inserimento-feedback di pensiero attraverso il quale una coscienza globale si connetta all’interno di un computer globale? (…) Il computer, quindi, permette d’intravedere la prospettiva di uno stato tecnologicamente generato di comprensione e unità universali (…) L’integrazione psichica collettiva, resa infine possibile dai media elettronici, potrebbe creare l’universalità della coscienza prevista da Dante quando preconizzava che gli uomini avrebbero proseguito la loro vita come null’altro che frammenti spezzati finché non sarebbero giunti a unificarsi all’interno di una coscienza inclusiva.»
Con grande anticipo sui tempi il filosofo canadese era riuscito a elaborare una fotografia nitida e impietosa del Supermondo, questa landa sconfinata sospesa in una dimensione parallela, tangibile e al contempo fluttuante; un non-luogo o un iper-luogo, una sorta di ponte fatto di elettricità pura, un’energia capace di fondere in un’entità empatica unica l’umano e il tecnologico. Nel Supermondo c’è bellezza e c’è terrore, c’è luce accecante e tenebra fitta. C’è tutto e il contrario di tutto, in una continua addizione e sottrazione. «Invece di tendere a diventare una gigantesca biblioteca di Alessandria, – scrive McLuhan in uno dei suoi capolavori La galassia Gutenberg. Nascita dell’uomo tipografico, 1962 – il mondo è diventato un computer, un cervello elettronico molto simile a quello di un racconto di fantascienza per bambini. E mentre i sensi vanno fuori da noi, il Grande Fratello entra in noi. Così, se non riusciamo a renderci conto di questa dinamica, ci ritroveremo improvvisamente in una fase di terrori panici, assolutamente appropriata a un piccolo mondo di tamburi tribali, di totale interdipendenza e coesistenza imposta dall’alto.» Questa tendenza al prealfabetico – a uno spazio magico ancestrale percepibile con la totalità dei sensi – non necessariamente dovrà tradursi in un livellamento dell’umano e nel suo progressivo assorbimento nel medium digitale; la comunione tra naturale e artificiale non implica di per sé qualcosa di negativo, magari straniante sì, ma non negativo tout court. Vero è che certe strade se non le percorri non sai dove conducono.
La riflessione di Magurno passa poi a sviscerare il significato di “contemporaneo”, tutt’altro che lineare e didascalico. Citando il filosofo Giorgio Agamben (autore di Cos’è il contemporaneo?, 2008) Magurno sottolinea che: contemporaneo è chi, pur appartenendo al proprio tempo, è capace di distaccarsene per osservarlo da una posizione privilegiata; contemporaneo è chi riesce a scorgere la tenebra del proprio tempo, senza lasciarsi abbagliare dalle sue luminescenze effimere; contemporaneo, in ultima analisi, è chi sa farsi testimone consapevole (nel centro vorticoso del Maelström) rimanendo al contempo protagonista. A questo tempo presente – un tempo sfasato, curvato, sempre proiettato nel futuro ma attraversato da reiterati anacronismi – Magurno assegna una valenza dioramatica. Nel concetto tautologico di “Diorama” Magurno fa confluire «la totalità di quanto stiamo vivendo». Il Diorama è l’effetto collaterale generato da un Supermondo iperconnesso, è il brodo digitale subentrato al brodo primordiale, è la dimensione meravigliosa e inquietante che intreccia e compromette sempre più le nostre esistenze. Magurno parte spiegando il significato etimologico di “Diorama”: «un diorama (anche detto: plastico) è un’ambientazione in scala ridotta che ricrea scene di vario genere o una vetrina dietro cui è rappresentata la ricostruzione di una scena naturale.» e specifica che «Nel caso del presente oggetto letterario (che è un oggetto letterario del presente), un diorama è l’ambiente in qualunque scala di grandezza in cui sono senza fine prodotte scene di qualsivoglia genere appartenenti a ogni universo vivente.» Nello spazio dioramatico riecheggia un sentire arcaico, pretecnologico e prealfabetico, un sentire che coinvolge la totalità dei sensi; il progresso si fa regresso, incursione nel remoto futuribile, riappropriazione di una sensorialità atavica. Nel Diorama si contrae e si ritrae questa nostra era digitale, un’era che è solo agli albori ma che appare già sovraffollata, stipata com’è di spettrali intermittenze e di icone labili, infinitamente sostituibili, modificabili e falsificabili. Nel Diorama tutto converge e diverge, compare e scompare, emerge e affonda; nel Diorama, che tutto tritura e rigetta, galleggiano le relazioni, le comunicazioni, le emozioni (tra identità virtualizzate e riesumate second life). L’era dioramatica segna il definitivo passaggio dal visivo al visionario (ossia l’ipervisivo che a forza di sovraesporsi sfuma). L’uomo contemporaneo assurge a eternauta, grande raccoglitore ed elargitore di stimolazioni elettriche, declinate in immagini, suoni o parole (forme e contenuti infinitamente variabili e sovrapponibili, icone a un tempo labili e pregnanti impigliate nelle fibre ottiche della grande rete a strascico). Alla visione diretta si è andata man mano sostituendo quella filtrata da uno schermo, setaccio dioramatico di questa contemporaneità sempre più smaterializzata e trasfigurata nel pixel.
«Il Diorama – scrive Magurno – è la rete sociale, cioè l’interezza della vicenda umana, fattasi social network, ovvero una materia immateriale, dove l’indecifrabilità non pone più alcun problema…» Il Diorama assurge così ad habitat straniato e straniante dell’antropocene, non-luogo privilegiato del transito di messaggi d’ogni sorta, segnali esalati da una realtà viepiù atemporale, parcellizzata in un mosaico non più riassemblabile. Le tessere impazzite di questo mosaico esploso sono ben rappresentate dalle icone-spettro che popolano la rete, immagini virali rese indecifrabili dai processi dioramatici, immagini che continuamente si autorigenerano discostandosi sempre più dal significato originario, immagini dove vanno a stratificarsi altre connotazioni di senso, ipericone talmente farcite da apparire svuotate, talmente a fuoco da risultare sfocate, talmente lampanti e onnipresenti da sbiadire nell’invisibile. Le immagini tautologiche del nostro tempo sono immagini di tutti i tempi, un potpourri di epoche, stili, culture che delinea una Babele iconografica, uno zoo a gabbie comunicanti. Stampa, televisione, pubblicità forniscono la gran parte di materia prima, ma ci pensa poi il web a masticare e a reingurgitare il bolo. Accade così che certe immagini prendano vita propria, clonandosi in esemplari interdipendenti, suscettibili di infinite adulterazioni e decontestualizzazioni (nel saggio Magurno ce ne offre un’esaustiva carrellata). Queste ipericone sono porzioni ritagliate dal Supermondo: sono personaggi della politica, della cronaca nera, dello star system, dell’arte, della comunicazione…, personaggi defunti o viventi, celebri o sconosciuti, contemporanei ora di Kim Jong-Un ora di Ramses o di Napoleone, poco importa, perché nel panorama dioramatico non si dà uno spazio-tempo univoco. I testi visivi (di mera iconografia o accompagnati da brevi testi scritti) veicolano ciò che è familiare e ciò che è estraneo, e lo sottopongono all’eternauta osservatore; il tutto si consuma in un frangente effimero, fuggevole, in perpetua accelerazione (i tempi dioramatici sono veloci per definizione). Nello schermo (più che nella carta stampata) si consuma il rituale migratorio delle supericone.
Nello spazio ubiquitario del Diorama si trovano proprio tutti: dal piccolo Danny di Shining ad Annamaria Franzoni, da Berlusconi a Padre Pio, da un vecchio barattolo di Ovomaltina alla duplicazione giapponese di piazza San Pietro nella Tobu World Square di Nikko, da uno spermatozoo scrutato al microscopio a Franz Reichelt che cade con la sua imbracatura dalla torre Eiffel, da Andreotti ad Alighiero Noschese travestito da Andreotti, da un tramonto marziano fotografato dalla sonda Opportunity al volto in lacrime della Fornero…, e via così fino a comprendere di schermata in schermata il mondo intero. Diorama di Magurno è un saggio soprattutto visivo, che si serve intelligentemente di immagini per decriptarne le stratificazioni di senso; offre un’istantanea lucida e particolareggiata di questa nostra contemporaneità isterica e sovraccarica e, sulla scia di quanto paventato negli anni Sessanta da McLuhan, impronta inquietanti scenari futuribili nei quali «stufi di essere visti, i diorami vollero vedere». In quanto contemporanei ci è impossibile sottrarci alle seduzioni del Diorama, ma emulando il marinaio di Poe possiamo pur sempre operare quel famoso distacco e osservare, a debita distanza, il temibile gorgo senza esserne irrimediabilmente fagocitati.
Massimiliano Sardina
Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 28 – Settembre 2016.
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