UN BOSCO PER POETI E PER RIBELLI
Stefano Lanuzza, Il bosco, il mondo, il caos. Come un romanzo (Stampa Alternativa – Strade Bianche, 2015).
di Antonio Castronuovo
(Su Amedit n. 28 – Settembre 2016)
Siciliano è Stefano Lanuzza, fiorentino di adozione; e che sia uno spirito senza confini lo cogli dal fatto che sia alla Sicilia e sia a Firenze ha dedicato spicchi della sua vasta produzione (le Erranze in Sicilia e il racconto dei letterati Insulari, o la Firenze degli scrittori del Novecento), latitudine affrancata che rende quei saggi letture senza luogo e senza tempo. Un redattore di lemmi direbbe che la sequela dei suoi titoli rientra nel genere della letteratura comparata. Vero, ma Lanuzza fa ben altro; mette fronte a fronte temi e modelli di vita: lo svela Vita da dandy, come anche Gli erranti, I sognautori, Bestia sapiens, nei quali entri e godi lo spettacolo del panopticon allestito dall’autore.
Una produzione che non disdegna l’aforisma, poiché Lanuzza sa che l’intelligenza ha bisogno anche di pungere e corrodere. Sfoglio ancora i suoi Disjecta membra, vecchi ma buoni, e adesso scorgo un’idea che fa di lui uno ben consapevole del senso del frammento: «Al pari della poesia e della critica, l’aforisma non “dipende” dalla realtà ma la rivela e talora la sospende o l’abolisce». L’idea è posata nel suo recente Il bosco, il mondo, il caos, collezione di schegge che lo rende prossimo alla tradizione della massima filosofica più che al mot d’esprit coltivato dall’altro siciliano Bufalino. D’altra parte Lanuzza ha voluto qualcosa di diverso: raccogliere cocci e farne un libro, perché la letteratura non è fatta di volontà compiute, di tutti i fogli riempiti per una certa opera: ci sono anche i sogni rifiutati e gli abbandoni, perfino le cose un tempo non dette e ora sì. Non però un cimitero di monche ideazioni: proprio un faggeto in cui l’incompiuto assume bellezza e respiro.
Torna in mente il bosco in cui concettualmente se ne fuggì Jünger quando abbandonò la civiltà tecnologica e scrisse il Trattato del ribelle. Ci si chiede anzi se queste pagine non siano proprio il trattato del ribelle Lanuzza: irriducibilmente indocile è infatti chi si distoglie dal mondo e da questa scelta ottiene la lucidità per osservarlo meglio. «Il pessimista è uno che si è informato», sbottò in uno stupendo aforisma Carlo Gragnani: potrei rettificarlo così: «Il ribelle è uno che si è informato», e si coglie bene, da queste pagine, che si parla di lui, dell’autore.
Entriamo allora nel testo. Si va nel bosco perché si ama la libertà e «questa vive nel bosco»; perché ci si trova l’essere («Addentrarsi nel bosco, allontanarsi, sparire, dileguarsi, stare “altrove”. Solo per “perdutamente essere”»), perché là ci sono le anime perse e perciò fraterne. Che subito riconosci: sono i poeti «che non vogliono “appartenere” a nessuna storiografia, che stanno in margini negletti, ombre sbiettanti e talora impudiche, uccelli migratori senza quiete né ricetto, esiliati principi straccioni»; entità che «concimano invisibili, con le loro fragili ossa, un bosco sempreverde»; figure che non vi mettono radici ma si riconoscono ancor meglio provvisorie, entrando a pieno titolo nel novero di quegli “inconsolabili” che la storia letteraria ha messo in fila come maledetti, tisici, psicopatici o, come un Dino Campana, vere “creature del bosco”, guarda caso i migliori.
Bosco come geografia prediletta dall’autore, e questo Bosco come Rastro in cui ti aggiri rapito tra violini senza corde, bambole nude, capitelli da tavolo, scatolette di pennini: non proprio un mercato di curiosità, ma se ci entri ne esci solo dopo aver ammiccato a ogni oggetto. Alcuni frammenti sono cristalli lucidati a stagno e Lanuzza ci si specchia: figura perduta con la folla d’ombre di una stirpe estinta, «eterno precario, avverso alla pazzia del reale e ben presto cosciente della verità ultima, quella della vita che immancabilmente finisce in sconfitta, lo sguardo rivolto a lontananze irraggiungibili e con i sensi all’erta, incurante del male e aperto alla bellezza»; uno «straniero in ogni dove» che interroga distaccato il proprio destino percorrendo ogni genere di spazio, amene piazze metafisiche o labirinti metropolitani: «Rapido e silenzioso il suo passo, guizzante colpo d’ala il suo braccio, dissidente il suo pensiero: cadenzato, modulato a bocca chiusa e a gola gonfia … Pensiero nomade di chi s’alimenta di silenzio e solitudine».
E fra tutto, quel che francamente mi seduce è proprio quel pensare dissidente. Credo sia l’urgente necessità dei nostri tempi.
Antonio Castronuovo
Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 28 – Settembre 2016.
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