PER UN SACCO DI CARBONE
1956 – 2016 Cinquant’anni dalla catastrofe di Marcinelle
di Elena De Santis
(Su Amedit n. 28 – Settembre 2016)
Nel 1945 l’Italia, vista con gli occhi di oggi, sarebbe apparsa come un Paese povero e sottosviluppato. Ovunque, tra le macerie lasciate dalla seconda guerra mondiale, era solo fame e miseria, e in queste condizioni era veramente unita. Un’Italia contadina, che non conosceva ancora le profonde distinzioni tra nord e sud, tra regioni industrializzate e benestanti e regioni tagliate fuori da serie politiche di sviluppo. Il duro lavoro dei campi veniva ripagato con un tozzo di pane o, ben che ti andava, con una minestra calda. Si facevano più figli, questo sì, tanto più se maschi, che avrebbero costituito forza lavoro per portare più pane a casa. Per quanti aspiravano a delle condizioni di vita più dignitose si presentava una sola soluzione: prendere la propria valigia di cartone e partire in cerca di miglior fortuna. Fu lo stesso governo italiano a incentivare questa scelta, dando il via, a cavallo tra gli anni ’40 e ’50, a un nuovo imponente flusso migratorio verso altri Paesi dove si richiedeva manodopera presso le fabbriche o i giacimenti minerari; le destinazioni principali furono Francia, Belgio, Svizzera e Germania. Nel 1946 lo Stato italiano firmò il Protocollo Italo-Belga con il quale si stabilivano le condizioni relative all’invio di manodopera presso le miniere di carbone in Belgio; questo documento prevedeva che per ogni scaglione di mille operai in servizio nelle miniere il Belgio avrebbe fornito all’Italia tra le 2.500 e i 2.000.000 di tonnellate di carbone al mese, a seconda della produzione mensile ottenuta. Il protocollo stabiliva l’invio di 50.000 operai in tutto, ma alla fine furono oltre 63.800, tutti giovani non oltre i trentacinque anni e di buona salute. Per il reclutamento vennero affissi nelle mura di tante città, da nord a sud, degli allettanti manifesti rosa in cui la Federazione Carbonifera Belga esponeva i vantaggi e gli aspetti positivi che questo lavoro avrebbe comportato. Si parlava di salario medio giornaliero e alloggi garantiti, di assegni familiari, premi di natalità e tutele sociali, di riposi settimanali e di ferie, di biglietti del treno e carbone gratuiti, e si garantiva inoltre un equo trattamento tra gli operai italiani e quelli belgi. Tutte cose, queste, che all’italiano medio di allora erano sconosciute. Insomma, molti si lasciarono trasportare da queste rosee promesse, partendo con gli occhi e il cuore ebbri di speranza in una vita migliore. Erano veneti, friulani, emiliani, abruzzesi, pugliesi, siciliani… Ne partivano duemila ogni settimana, e dopo essersi sottoposti alle rigide procedure di accertamenti igienico-sanitari a Milano, affrontavano l’estenuante viaggio che li avrebbe condotti a Bruxelles, dove sarebbero stati smistati nelle varie miniere del Paese. La realtà che li attendeva una volta giunti a destinazione era molto meno rosea di quanto gli era stato prospettato. Quello delle miniere era tra i lavori più duri, non tutti sarebbero stati in grado di sostenerlo, ma anche per quanti riuscivano ad adattarvisi c’era sempre la paura che qualcosa non andasse per il verso giusto, che un incidente avrebbe potuto trasformarsi in una tragedia in cui poter perdere la vita. Ma questo lo si sapeva già.
Non potevano però immaginare che gli alloggi promessi altro non erano che delle semplici baracche in legno e lamiera, le stesse che erano state utilizzate per i prigionieri di guerra, prive di riscaldamento e di elettricità, prive di acqua e di servizi igienici, il cui corrispettivo dell’affitto gli veniva regolarmente scalato dallo stipendio. Non potevano immaginare che avrebbero lavorato in condizioni in cui le norme di sicurezza erano pressoché inesistenti, dove la loro vita era tenuta molto meno in conto di un chilo di carbone. E poi c’erano loro, i belgi, con l’accoglienza riservata agli italiani venuti a rubargli il lavoro. In quel tempo il terzo mondo eravamo noi, ed eravamo noi i profughi guardati con diffidenza, quando non con disprezzo. Nel 1956 in Belgio, su 142.000 minatori 44.000 erano italiani. Tra questi profughi della fame c’era chi sognava un giorno di rientrare al proprio Paese dopo aver conquistato una posizione più agiata, ma in tanti non avrebbero più imboccato la strada del ritorno, per scelta di vita, o perché in fondo, qui, avevano trovato tutto ciò che il loro Paese non era stato in grado di offrirgli. Il contratto di lavoro previsto per gli operai italiani obbligava a prestare servizio nella miniera per cinque anni, trascorsi i quali avrebbero potuto scegliere di continuare, di cercare impiego altrove o di tornare a casa propria. Molti minatori non sarebbero nemmeno arrivati a questo traguardo e a compiere la scelta. Gli incidenti nelle miniere erano piuttosto frequenti; un’esplosione, un incendio, una frana o una cinta che si rompeva causavano spesso la morte di qualche operaio, e ogni volta che l’ascensore sprofondava nelle viscere della terra ciascuno in cuor suo pregava, si raccomandava alla Madonna o a Santa Barbara, Patrona dei minatori, portando con sé i volti dei propri cari che forse non avrebbe più rivisto. La paura della morte era sempre fissa nei loro occhi.
Miniera di carbone Bois du Cazier di Marcinelle, nel comune di Charleroi. L’8 agosto del 1956 è una limpida giornata di sole, cosa insolita in un Paese dove le piogge non mancano nemmeno in piena estate. Ma l’azzurro intenso del cielo presto fu coperto da dense nuvole di fumo nero che in poco tempo si propagarono trasformando l’intera area intorno agli impianti in uno scenario lugubre. Dalle vicine baracche cominciarono ad arrivare decine di donne con i loro bambini per mano, erano le mogli e i figli degli operai che quella mattina avevano iniziato il loro turno di lavoro. Il fumo fuoriusciva dai pozzi del Bois du Cazier e non poteva voler dire nulla di buono; era presago di morte, segno di una spaventosa sciagura. Sono da poco trascorse le ore 8:00 e nel giro di qualche ora l’apparente quiete di quella mattina d’agosto a Marcinelle viene travolta dal via vai di ambulanze, sirene della polizia, vigili del fuoco, camionette dell’esercito, soccorritori, medici, volontari, tra l’agitarsi degli ingegneri e i pianti, le urla, i gemiti delle donne aggrappate alle griglie dei cancelli, tenute a forza dai gendarmi. In pochi istanti l’inferno, la disperazione, il senso d’impotenza che coglie l’uomo sempre impreparato in simili tragedie, prevedibili, e pur sempre inattese. Cos’era accaduto laggiù, sottoterra? A 975 metri di profondità due vagonetti male inseriti nell’ascensore in movimento avevano divelto le condutture dell’olio, i tubi dell’aria compressa e i cavi dell’alta tensione. La congiuntura di questi danni provocati agli impianti causò un imponente incendio che, favorito dall’essersi sviluppato nel pozzo di entrata dell’aria, propagò il suo intenso fumo in ogni angolo della miniera. Fumo e fiamme tagliarono ogni via d’uscita senza lasciare alcuno scampo ai minatori. Fuori intanto si cercava con ogni mezzo di organizzare le operazioni di salvataggio, giunsero aiuti dalle città vicine, e anche dalla Francia e dalla Germania. La prima squadra di soccorritori giunse dopo circa un’ora, ma i tentativi andarono a vuoto; trascorsi i primi momenti cruciali ogni via d’accesso ai pozzi era ormai preclusa dalle fiamme e dal fumo. Ogni tentativo di prestar soccorso risultò inutile. Per giorni e giorni le mogli di quei poveri sventurati rimasero aggrappate ai cancelli, piangendo, pregando, sperando di vederli riaffiorare ancora vivi, fino a quel fatidico 22 agosto, quando, alle 3 di notte, uno degli ultimi soccorritori risalì dichiarando in italiano: «Tutti cadaveri!». Dei 274 uomini presenti nella miniera al momento della catastrofe solo 12 sopravvissero, gli altri 262 morirono carbonizzati, di questi 136 erano italiani. I corpi man mano estratti giungevano in superficie ormai irriconoscibili, e la loro identificazione veniva fatta solo sulla base di qualche oggetto rinvenuto nelle loro vicinanze, come una medaglietta o una lampada numerata. Nessuna delle tre commissioni d’inchiesta create in seguito riuscì a stabilire le responsabilità di quanto accaduto. Al processo celebrato a Charleroi nel 1959 i cinque imputati dirigenti della miniera vennero tutti assolti, la sola condanna pronunciata fu quella nei confronti dell’ingegnere Calicis, in qualità di direttore dei lavori, a sei mesi di reclusione con la condizionale e una multa di duemila franchi. La società Bois du Cazier venne condannata a risarcire i familiari delle vittime per un ammontare di circa tre milioni di franchi. Antonio Iannetta, l’operaio di origine molisana ritenuto responsabile dell’incidente, si trasferì poco dopo in America, in una lussuosa casa che, per sua stessa ammissione, gli era stata regalata dall’ingegnere capo il giorno dopo la sciagura. Perché questo regalo? E chi erogava i mille franchi alla settimana che percepiva oltre la pensione (soldi di cui, a suo dire, ignorava la provenienza)?
La tragedia di Marcinelle servì solo a far cambiare l’atteggiamento dei belgi nei confronti dei nostri connazionali. Prima della catastrofe gli italiani erano tenuti alla larga, derisi, appellati “macaronìs”, i loro figli non potevano giocare con i bambini belgi, se chiedevano una casa venivano scacciati, all’ingresso di certi locali c’era la scritta «Interdit aux chiens et aux Italiens» (niente cani e italiani), semplicemente perché venivano visti come chi gli rubava il lavoro, anche se quel lavoro per loro era ormai diventato denigrante: «Arriva la carne da macello, loro scendono e noi saliamo» come a dire che gli italiani ora venivano a fare quello che loro non volevano più fare. Dopo la catastrofe di Marcinelle dicevano invece «copains, copains», tutti compagni, tutti amici e pacche sulle spalle, e finalmente gli italiani poterono avere le prime case di mattoni. In quei tragici giorni i familiari delle vittime non si videro accanto nessuno di quei politici italiani che li avevano barattati in cambio di carbone, né li videro in seguito. Eppure quella gente aveva contribuito a risollevare l’Italia dalla miseria con i soldi mandati giù, per costruire nuove case o far studiare i propri figli. Nessun sussidio statale alle vedove e ai figli rimasti orfani, a parte quelli riconosciuti dal Belgio. Oggi il Bois du Cazier è un museo iscritto nel patrimonio dell’UNESCO. Nel 2001 il governo italiano ha istituito la “Giornata Nazionale del sacrificio del lavoro italiano nel Mondo”, che ricorre ogni anno l’8 agosto. La memoria rimane l’unica forma di riscatto possibile da quella tragedia, per ricordarci chi eravamo, e per saperci riconoscere in chi oggi, come noi allora, lascia il proprio paese in cerca di una vita migliore.
Elena De Santis
LETTURE CONSIGLIATE DA AMEDIT:
- Marcinelle, 1956. Quando la vita valeva meno del carbone di Toni Ricciardi (Donzelli editore, 2016)
- La catastròfa. Marcinelle, 8 agosto 1956 di Paolo Di Stefano (Sellerio editore, 2011)
Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 28 – Settembre 2016.
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