HITLER, È TORNATO; ANZI: NON È MAI ANDATO VIA
Lui è tornato | Un film di David Wnendt
di Carlo Camboni
BROWSABLE VERSION / VERSIONE SFOGLIABILE
Se Adolf Hitler tornasse tra noi sarebbe una pop star, parola di David Wnendt, regista di Lui è tornato, trasposizione cinematografica del best seller da due milioni di copie di Timur Vermes. Satira feroce sulla fine annunciata delle democrazie occidentali, meditazione sulla decadenza culturale e politica nell’età del tardo capitalismo, il film coglie la realtà nel suo disfarsi, indica un presente inafferrabile di cui è facile percepire la complessità semantica. Dagli inferi del suo bunker in una Berlino moderna e multietnica riemerge più sulfureo che mai l’Adolf che non ti aspetti. La distanza storica ha metabolizzato la sua ideologia o forse, più semplicemente, è sempre vissuto tra noi: nella deriva populista delle democrazie europee, nel razzismo inconfessabile, nella rabbia inespressa della maggioranza silenziosa, nella generale insoddisfazione e frustrazione, nella banalizzazione del dibattito sui temi etici e civili. Hitler capisce subito che la sua Germania non è cambiata: la Storia è stata dimenticata, l’ambiguità del presente non permette di immaginare un futuro fondato sulla conoscenza del passato, il dittatore è Lui ma viene scambiato per un comico che lo imita; forse è un sosia, dunque evoca il perturbante, misura la perdita di memoria storica e dà un senso alle reazioni della società innanzi a provocazioni estreme. Inizia così una commedia degli equivoci che ha come sfondo naturale la realtà verosimile elaborata dalla TV spazzatura che non informa mai ma intrattiene, amplifica, omette per far dimenticare. Hitler si ripresenta ai tedeschi in diretta televisiva accompagnato dalle note del preludio del terzo atto de La Valchiria di Wagner; Lui sa che la storia è replicabile e i suoi discorsi deliranti suscitano l’ilarità degli sciocchi ma da ex artista consapevole del suo carisma pianifica indisturbato, ora come allora, la sua ascesa al potere, lanciando come esca alcune parole chiave (immigrazione, razzismo, islam, zingari, minoranze), certo che il suo popolo lo seguirà. Wnendt sa bene che il presente è naturalmente non serio e ciascun individuo agisce nella realtà che conosce, spesso non immaginandone un’altra. La satira richiede riflessione, una presa di posizione rispetto alla realtà mentre la comicità stimola la risata e il divertimento momentaneo. Da qui l’esigenza del regista di restituire allo spettatore la sua provocazione cinematografica procedendo con inquadrature mediamente ampie per arrivare a piani più ristretti, ravvicinati (primo piano, primissimo piano, particolare); la figura umana domina lo spazio: il personaggio è al centro dell’immagine, da lui scaturisce l’analisi del racconto filmico e questa scelta, ben lontana dal calligrafismo, determina un dialogo emotivo con lo spettatore che ha l’illusione di penetrarne l’intimità, percepirne la presenza nel reale, oltre la finzione.
Il regista espone con eleganza l’istanza alla base della sceneggiatura e ne intuisce l’essenza: in alcune sequenze il suo attore interagisce con la gente comune nelle birrerie e nei parchi di Berlino, il personaggio storico e quello cinematografico sfumano uno nell’altro; così, senza costrizioni narrative, la realtà fenomenica è rappresentata in sorprendenti sequenze documentaristiche in bilico tra realismo e artificio; il tedesco medio, divertito dalla comicità surreale, avalla spavaldamente idee razziste e xenofobe purché propugnate da un condottiero che, insinuando il germe di una rivoluzione possibile, indichi un’alternativa al potere costituito percepito come corrotto e poco democratico. Wnendt rilegge il romanzo di Timur Vermes proponendo soluzioni cinematografiche accessibili e un linguaggio asintattico. Purtroppo la superficie del presente, così ambiguo e indecifrabile, non viene quasi mai intaccata da un’analisi profonda: la citazione di Leni Riefenstahl, indomabile regista dal discutibile passato, avrebbe potuto catalizzare una narrazione dagli esiti imprevedibili ma non viene affatto sviluppata e allo stesso modo la voce fuori campo di Hitler che ci accompagna per tutto il film non commenta l’avvento dell’euro che tanto condiziona le proposte politiche dell’Europa unita… Impressionante la prova di Oliver Masucci nei panni di Hitler. Il suo è un agire sul corpo (reso ancora più imponente dalle inquadrature); la mimica e la voce, inoltre, gli permettono di centrare il personaggio evitando di scivolare nel macchiettismo. Successo sorprendente in patria, il film (basato sulla solida sceneggiatura degli stessi Wnendt e Vermes) ricorda che la grandezza dell’uomo si misura con l’evoluzione della tecnologia ma ci interroga sull’uso che facciamo quotidianamente dei moderni canali di comunicazione dove chiunque si esprime su ogni argomento in un confondersi di ruoli e competenze specifiche che alimenta caos e ignoranza.
Carlo Camboni

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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 27 – Giugno 2016.
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