COME BRADAMANTE E FIORDISPINA | La vita a rovescio di Caterina Vizzani in un romanzo di Simona Baldelli

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Esser donna e starti assente non impediscon di amarti;

le anime, tu ben lo sai, distanza ignorano e sesso.

Juana Inés de la Cruz

 

di Massimiliano Sardina

BROWSABLE VERSION / VERSIONE SFOGLIABILE

Caterina è spavaldamente moderna, coraggiosamente libera, un raro esempio di sfacciata protoemancipazione e di rivendicazione identitaria in un mondo strutturato a compartimenti stagni, con ruoli fissi e immutabili, sanciti una volta per tutte e incontestabili. Prima che donna o uomo Caterina Vizzani (Roma, 1719 – Siena, 1743) è innanzitutto una persona che non vuole rinunciare alle pulsioni vitali della sua natura: ai suoi affetti, alle sue passioni, alle sue ambizioni emotive e professionali. Il suo primo biografo fu il dottor Giovanni Bianchi (Jano Planco), titolare di una cattedra di Anatomia presso l’Università di Siena. Breve storia della vita di Caterina Vizzani Romana che per ott’anni vestì abito da uomo in qualità di Servidore la quale dopo varj Casi essendo in fine stata uccisa fu trovata Pulcella nella sezzione del suo Cadavero, per ragioni di censura, venne stampato clandestinamente a Firenze nel 1744. Un’analisi più particolareggiata è stata condotta recentemente da Marzio Barbagli nel saggio Storia di Caterina che per ott’anni vestì da uomo (Il Mulino, 2014). È però grazie al potere vivificante del romanzo che la figura a rovescio di Caterina Vizzani riemerge con tutta la sua portentosa carica rivoluzionaria. In La vita a rovescio (Giunti, 2016) Simona Baldelli dà corpo e anima a una donna piena di risorse, sfacciatamente protagonista della sua vita e della sua sessualità, una donna che fin dalla più tenera età aveva rigettato con tutta se stessa l’obbligo di subalternità al mondo degli uomini (padri, mariti, preti, padroni), per rincorrere un ideale proprio, una personale ricerca della felicità; Caterina proprio non ci sta a comprimersi nel ruolo che la società ha stabilito per lei, e per tutte quelle come lei, ossia donne, buone a far da madri e a far da mogli, sempre un passo indietro, a testa china, genuflesse prima al maschio e poi al Cristo come comanda la dottrina.

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Caterina è nata uomo in un corpo di donna, o più semplicemente è nata donna in un corpo che desidera un’altra donna, non lo sa, non sa dare un nome alla sua identità e al suo orientamento affettivo e sessuale; è nata a rovescio, sottosopra, «fuori posto come la neve d’estate.» Solo quando sarà tra le braccia del suo primo amore, comincerà a vederci più chiaro e a chiamare “natura” quella sua inclinazione. Poco più che bambina, all’età di undici anni, è allettata dal vaiolo, proprio mentre le campane di Roma suonano a lutto per la morte di Benedetto XIII (siamo nel 1730); la variola major le imprime tra la guancia destra e l’occhio «una voglia scura, color del vino e grande quanto un baiocco». Per Caterina è il marchio indelebile della sua diversità, un sigillo che la seguirà per tutta la vita; per una fatale coincidenza la macchia violacea compare insieme alle prime mestruazioni. «Ci doveva essere un motivo se la chiazza e il sangue si erano presentati assieme. La madre le aveva spiegato che il flusso era legato alla sua condizione di donna, un dolore a cui l’aveva condannata Dio per aver mangiato la mela del peccato e che si sarebbe ripresentato a ogni giro di luna, per ricordarle che lei era un essere imperfetto, nato dalla costola di un maschio e dunque mancante di qualcosa. Il sangue le sarebbe servito, un giorno, per mettere assieme un figlio e così pareggiare il conto. Il pezzo di carne che le mancava, l’avrebbe partorito.» Caterina però farà presto a passare dalla vergogna all’orgoglio: con il tempo imparerà a esibire il suo marchio alla stregua di una medaglia al valore (un tratto distintivo del suo carattere è proprio quello di saper trasformare in vantaggio ogni situazione sfavorevole). «A colpirmi – spiega l’autrice nelle note d’appendice – non fu che la ragazza si innamorasse delle donne (…) Ciò che mi appassionò fu il coraggio, la capacità di Caterina di ribaltare a suo favore ogni esperienza negativa.» Da ragazzina si occupa del libro dei conti della falegnameria di famiglia, un’occupazione considerata tipicamente maschile; tutto bene fin quando il parroco non convince i genitori a iscriverla a un corso di cucito, un’attività più consona alla condizione femminile, ed è a partire da qui che la vita di Caterina comincia a prendere una piega nuova. Tra un dritto e un rovescio il suo sguardo si incrocia con quello della bella Margherita Bordoni, una fanciulla bionda e delicata, figlia di una famiglia benestante.

Le due si innamorano e, nello spazio intimo e privato dell’elegante cameretta di Margherita, sperimentano le prime gioie carnali. Leggono l’Orlando innamorato del Boiardo e si immedesimano nelle figure di Bradamante e Fiordispina. Letteratura e realtà hanno in comune una dimensione: la natura; ed è proprio “natura” la parola che le due innamorate scelgono per battezzare il loro amore, una passione calda e gioiosa vissuta con estemporaneità, senza il rigurgito dei sensi di colpa di matrice ecclesiale. Quello tra Caterina e Margherita è l’amore perfetto, archetipo e totalizzante, desunto con vivo trasporto dalla grande letteratura e incarnato (come in un gioco di ruolo) nel fiore inebriato e inebriante della giovinezza. Bradamante, la donna cavaliere con l’armatura splendente, e Fiordispina, la principessa saracena con l’abito di stelle. Restò delusa la principessa quando scoprì che il suo amato cavaliere aveva seni rotondi come i suoi, e prese a singhiozzare dal dolore. Né tra gli uomini mai, né tra l’armento, che femmina ami femmina ho trovato: non par la donna all’altre donna bella, né a cerve cerva, né all’agnelle agnella. Il poeta si ingannava, Caterina e Margherita ne erano certe «…di sicuro sapeva tutto di cavalieri e cerimonie, di sospiri e pene d’amore ma, della natura, non sapeva nulla. Nobile, aristocratico (…) non aveva mai visto un gallo montare un suo simile, né le gatte annusarsi e leccarsi a vicenda» Se solo la principessa triste «avesse saputo che il suo desiderio era naturale», che nulla, se davvero l’avesse voluto, le avrebbe proibito di amare la sua donna cavaliere. L’incanto si spezza quando la perfida madre di Margherita, entrando improvvisamente nella stanza (nido d’amore di Bradamante e Fiordispina), le sorprende in atteggiamenti inequivocabili. «…Schifosa cagna randagia. Cos’hai fatto alla mia bambina? (…) Strega! Quella cosa che fai ha un nome ripugnante, sodomia. Ti trascinerò davanti alla Santa Inquisizione. Arriveremo fino al papa se necessario, e io assisterò alle tue torture!»

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Caterina non ha scelta, deve fuggire, lasciare Roma, la famiglia, la falegnameria (ritornerà dalla sua amata quando le acque si saranno calmate). A Viterbo trova ospitalità da una prostituta (altro modello alternativo-emancipato di donna) che la incoraggia a travestirsi da uomo; le dà lezioni di portamento maschile e riesce a procurarle un passaporto rilasciato dallo Stato Pontificio di Clemente XII. Caterina diventa ufficialmente Giovanni (sceglie il cognome della sua amata Margherita: Bordoni). In un mondo governato dagli uomini Caterina sceglie di diventare un uomo. «Le fattezze di donna brutta si erano trasformate in un uomo bello.» Acquisita la nuova identità maschile Giovanni compie la scalata sociale: comincia come stalliere, poi diventa segretario ad Anghiari e infine, in veste di fiduciario, si ritrova signorotto del borgo di Librafratta. Si fa ben volere da tutti, serve e padroni, efficiente a letto con la sua protesi di cuoio, efficiente nella gestione dei conti. Sul più bello, nella stagione di massima stabilità – proprio quando comincia a vagheggiare l’idea di un microcosmo popolato di persone alla rovescia – Giovanni perde la testa per una ragazzina, già promessa in sposa ad altro uomo; la rapisce, tenta di condurla a Roma, ma si accorge troppo tardi di aver commesso un’imperdonabile imprudenza. Un colpo di fucile metterà fine alla sua fuga. Ferito a una gamba finirà i suoi giorni su un letto d’ospedale.

Venticinque anni vissuti intensamente, nella menzogna come nella verità, sempre su un filo di tensione, con la paura costante dello smascheramento. Ape operosa vola di fiore in fiore, in una lunga primavera di esperienze erotiche. Di Margherita in Margherita: il primo amore e l’ultimo hanno emblematicamente lo stesso nome; nel mezzo (in un arco temporale di oltre otto anni) un nutrito campionario di compagne di letto, tra puttane, serve e nobildonne (tutte in fila per farsi penetrare dal piuolo dell’instancabile Giovanni, convinte di non commetter peccato alcuno con un uomo a metà). A letto Giovanni ci sa fare, sa come far godere una donna. Se il suo corpo esulta, saziato dal continuo esercizio, la sua mente resta ancorata al passato, a quella Margherita Fiordispina mai colta fino in fondo, a quel primo amore strappatogli di mano con violenza. La ritroverà in un convento, dove l’aveva rinchiusa la famiglia per punizione. Le chiederà di fuggire, di ricostruire una vita insieme, ma Margherita si rifiuterà, persuasa di aver trovato la pace nella vita claustrale, convinta che le donne nate a rovescio dovessero isolarsi in un mondo di lato, parallelo a quello reale ma ghettizzato. Lo spettro di Bradamante, privato definitivamente della sua Fiordispina, continuerà a seguire il suo alter ego Caterina-Giovanni fino alla fine, come uno spirito guida, l’ologramma di un’identità intermittente. L’ultima Margherita, venale e capricciosa, chiuderà il cerchio. Ecco il fatale errore dell’aspirante cavaliere: l’aver inarcato troppo la falcata, l’aver infranto le regole del gioco (così ben consolidato) delle maschere. All’ospedale di piazza Duomo di Siena Caterina Vizzani giunge sotto mentite spoglie, in panni maschili, con il nome “Giovanni Bordoni”. Credendosi prossima alla morte confida il suo segreto a una delle monache infermiere, la castalda Maria Colomba, le giura di essere ancora vergine e le manifesta il desiderio di essere seppellita in virginee vesti femminili. Per ragioni non ancora del tutto chiarite (forse per la negligenza della castalda), il medico non viene allertato per tempo al capezzale di Caterina, che il 16 giugno 1743 muore di setticemia (con un intervento più tempestivo forse si sarebbe potuta salvare). Appurata la verginità, il corpo prodigioso passò nelle mani del Bianchi che, non trovandovi traccia di ermafroditismo, la apostrofò significativamente “donzella di Lesbo”; dopo gli esami autoptici il corpo venne esposto in chiesa per soddisfare la curiosità del popolo; di fronte a tanta straordinarietà, narrano le cronache, ci fu addirittura chi auspicò venisse fatta santa.

L’eredità di questa grande donna, giunta intatta (come il suo imene) scavalcando i secoli, risiede tutta nel coraggio: il coraggio fiero e sfacciato di non essersi voluta piegare ai rigidi dettami degli uomini, ma soprattutto il coraggio (creativo, sprezzante del pericolo, verrebbe quasi da dire cavalleresco) di aver saputo escogitare strategie di sopravvivenza in sintonia con il proprio irrinunciabile progetto di vita.

Massimiliano Sardina

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Cover Amedit n. 26 – Marzo 2016 “Sacré Cœur” di Iano, 2016

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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 27 – Giugno 2016.

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