CHERNOBYL | TRENT’ANNI DOPO IL DISASTRO

chernobyl_2016 (2)CHERNOBYL TRENT’ANNI DOPO

di Elena De Santis

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Sono trascorsi trent’anni dal disastro di Chernobyl, avvenuto la notte del 26 aprile 1986. Trent’anni possono voler dire una giovane vita, o le tante che nel frattempo si sono affacciate al mondo e per le quali quel disastro non è mai esistito. Ciò che accadde quella notte a Chernobyl per molti può essere finito nei recessi della memoria, sepolto sotto la valanga di infiniti altri accadimenti, e non basterà certo una commemorazione a farlo riemergere dandogli la giusta consistenza. Ci sono cose di cui non serve far memoria, perché la memoria da sola non basta; ci sono cose che non possono essere archiviate come storia, perché storia compiuta ancora non sono. Chernobyl appartiene a queste cose. Non una memoria né una storia da raccontare. Per noi che siamo qui a parlarne Chernobyl è il presente, e anche il futuro. Per chi invece l’ha vissuto sulla propria pelle, il futuro non c’è stato, ma soltanto un prima e un dopo la terribile sciagura.

Ci si chiederà: Perché questa faccenda deve riguardarci? E poi cos’è Chernobyl?

La prima risposta che verrebbe da dare è: Chernobyl sei tu, quel che vesti e mangi, quel che usi e getti. Perché tutto questo ha un costo che qualcuno deve pur pagare. E quel qualcuno sei tu, siamo tutti noi, è questa Terra e tutto ciò che in essa vive. Ma Chernobyl è anche un luogo, una città il cui nome significa “stelo d’erba nero”, o, nell’antica lingua slava, “assenzio” (pianta di colore grigiastro e dal sapore amaro da cui si estraeva il veleno). Nell’uno come nell’altro significato il toponimo di questa luogo si rivelerà quanto mai profetico. Nessuno forse avrebbe mai sentito parlare di questa città al di fuori dei suoi confini; la sua fama non è data dall’essere stata un fiorente polo industriale e commerciale del XIX secolo, quanto da ciò che accadde presso la vicina centrale nucleare “Vladimir Il’ič Lenin”. Qui, alle ore 1.23 circa del 26 aprile 1986, uno dei quattro reattori esplose, causando quello che è ritenuto il più grave incidente nucleare che si sia mai verificato, classificato al livello 7 e massimo della INES dell’IAEA. Secondo una prima ricostruzione dei fatti si sarebbe trattato di un errore umano durante l’esecuzione di un test che prevedeva la simulazione di un guasto al sistema di raffreddamento. Per effetto del surriscaldamento delle barre di uranio il nocciolo del reattore 4 si fuse provocando due esplosioni, la cui entità in termini di impatto ambientale fu tale da risultare cento volte superiore a quelle di Hiroshima e Nagasaki messe insieme. La copertura del reattore andò in frantumi, sprigionando nell’atmosfera un’enorme quantità di vapore carico di particelle radioattive. La nube di polvere incandescente presto si propagò viaggiando nei cieli di tutta Europa; vento e pioggia fecero la loro parte, diffondendo per aria e per terra le pericolose radiazioni.

E intanto che la peste nucleare dilagava, iniettando ovunque nel suolo e negli esseri viventi i suoi radionuclidi, presso la centrale, ai militari e ai vigili del fuoco ci vollero quindici giorni per domare l’incendio e bloccare le emissioni. Accorsero in migliaia, molti dei quali erano militari di leva; alcuni erano sopravvissuti alla guerra russo-afghana, e in confronto questo gli sembrava un gioco di poco conto. Giovani soldati che non sapevano esattamente a cosa stavano andando incontro, contro quale nemico stessero lottando. Sembrava fossero lì solo per raccogliere i cocci di una costruzione andata in frantumi, ma la polvere radioattiva quella no, non si vedeva né si poteva toccare con mano; quella era ormai dappertutto, invisibile e inodore. Lavorarono senza dispositivi di protezione, ignari della pericolosità di ciò che stavano toccando. Figli, mariti e padri di famiglia; sarà questo il loro ultimo gesto eroico, l’ultimo e più caro tributo pagato al progresso di una nazione matrigna. Divennero essi stessi oggetti radioattivi; in breve a bruciare erano i loro corpi; la pelle si staccava, andava via in brandelli anneriti. Morirono di leucemia, malattie cardiovascolari, varie tipologie di cancro. Per mesi e mesi si lavorò per approntare l’imponente sarcofago di acciaio e cemento armato che ricopre il reattore 4; la sua realizzazione costò un miliardo di dollari, mentre rimane incalcolabile il costo in vite umane. Questo sarcofago imprigiona al suo interno il 95% del materiale nucleare che si riuscì a non far disperdere nell’ambiente. Secondo i progettisti sarebbe dovuto durare migliaia di anni, ma già da parecchio tempo le sue spesse pareti mostrano moltissime crepe. Il nuovo sarcofago, decisamente più all’avanguardia, sarà pronto entro la fine del 2017. La centrale “Vladimir Il’ič Lenin” è rimasta in funzione fino al 2000, quando l’ultimo reattore in esercizio è stato spento.

E spenta è la vita tutt’intorno a essa. Nelle ore successive all’esplosione tutti gli abitanti delle zone circostanti vennero fatti evacuare per non farvi più ritorno. Persero tutto, le loro case, i loro campi, i loro affetti. Nel 1986 Chernobyl contava 13.000 abitanti; oggi ce ne sono circa 700. Si tratta di operai tuttora impiegati per il risanamento della centrale e di pochi nuclei familiari residenti non autorizzati. Pryp’jat’ era invece proprio la città simbolo della centrale, da cui dista appena 3 km. Era stata costruita agli inizi del 1970 per ospitare i costruttori e i lavoratori della centrale con le loro rispettive famiglie. Nel 1986 vi vivevano circa 47.000 abitanti. Era una città moderna dotata di ospedali, strutture ricettive, luoghi di ristoro, cine-teatro e tante splendide aiuole che le guadagnarono il titolo di “Città dei fiori”. Oggi è una città fantasma, completamente abbandonata. È qui che si trova l’ormai celebre ruota panoramica mai entrata in funzione e che si erge su un panorama spettrale incorniciato dalla “foresta rossa” (così ribattezzata per il colore rossastro degli alberi causato dalle radiazioni). A vederla oggi, questa città è un sito archeologico dell’era moderna, un cimitero a cielo aperto dei miraggi del progresso. Quante siano le vittime effettive di questo disastro non è dato sapere. Secondo il Chernobyl Forum organizzato dall’ONU, il numero delle morti accertate sarebbe di sole 65 unità. Questa stima tiene conto solo di quelli deceduti a causa dell’esplosione o subito dopo gli interventi di bonifica alla centrale. Di diversa opinione le varie organizzazioni antinucleariste, tra cui Greenpeace, che arriva a formulare una stima di ben sei milioni di morti per tumore direttamente imputabili al disastro di Chernobyl tra la popolazione mondiale. Il balletto dei numeri tra questi due estremi non si esaurisce, tra chi intende minimizzare e chi vuol rendere giustizia degli effetti patiti nel breve e nel lungo termine da quanti sono stati direttamente o indirettamente coinvolti nella catastrofe.

I numeri e le cause reali sono variabili dello stesso discorso, e come in tutte le faccende di Stato che coinvolgono poteri forti non potremo mai contare su un’ultima oggettiva verità. Si trattò realmente solo di un errore umano? Gli accertamenti sugli impianti evidenziarono come la centrale difettava fin dal suo concepimento, con gravi errori di progettazione e l’utilizzo di materiali scadenti per insufficienza dei fondi. Ma la risposta di tecnici e ingegneri che pur sapevano da tempo delle falle presenti negli impianti fu un’autoassoluzione, imputando tutta la responsabilità di ciò che era accaduto a un semplice errore umano (un vecchio cliché che si ripete sempre, in tante analoghe occasioni). Di fronte all’immane catastrofe, l’uomo che può tutto, l’uomo onnipotente, non poté che alzare innocentemente le spalle come un bambino spaventato dalle conseguenze di un gioco finito male. Le conseguenze di questo gioco però, non furono solo imminente morte e distruzione, ma anche la materializzazione di figure mostruose che si pensava possibili solo nei sogni e nella fantasia. In Ucraina, un’indagine del 1995 rilevò molti casi di mutazioni genetiche: puledri con otto zampe, vitelli con due teste, maialini con caratteristiche mostruose; ci sono i casi di un bambino sirena con gli arti inferiori a forma di pesce, di un altro morto con tre teste, di altri ancora nati con labbro leporino o con la bocca di lupo. Molto più del vento e della pioggia, al diffondersi della peste di Chernobyl contribuì l’irresponsabile comportamento delle autorità russe, scegliendo il silenzio sulle reali conseguenze e immettendo sul mercato i prodotti alimentari avvelenati dalle radiazioni.

Era il tempo delle fragole e gli alveari erano pieni di miele, quando tutto ciò accadde. “A un certo punto le api hanno interrotto i loro voli, non s’erano più fatte vedere. Loro hanno un sistema più giudizioso del nostro, hanno capito subito ciò che era successo.” È una delle testimonianze di residenti non autorizzate raccolte da Svetlana Aleksievič nel suo bellissimo libro Preghiera per Černobyl’ (Edizioni e/o, 2016). La natura qui sembra voler irridere alla disfatta della civiltà umana, mostrando copiosi più che mai i suoi frutti. Ammicca tra i rami dei frutteti carichi di mele straordinariamente belle, e la terra continua a produrre patate e ortaggi in gran quantità. Se ti guardi intorno, vedi gli scheletri delle città e dei villaggi fantasma, vedi i relitti militari e le macchine agricole arrugginite, sai di stare calpestando uno sterminato cimitero che nasconde cose pericolose sotto i tuoi piedi, ma vedi anche una natura ostinata e generosa più che mai, pronta a porgerti la mela avvelenata. Il mondo oggi sa dove sono Hiroshima e Nagasaki, lì dove la follia autodistruttiva dell’uomo in guerra con se stesso sganciò le bombe atomiche. E sa anche dove sono Chernobyl e Fukushima (quest’ultima protagonista nel 2011 di un analogo disastro nucleare). L’atomica in tempo di guerra è una minaccia che ci sforziamo di scongiurare, ma chi ci salverà dall’atomica che ci è vicina di casa, che si mostra pacifica e al servizio della società civile? Attualmente nel mondo ci sono 440 reattori atomici attivi in trenta paesi, molti dei quali costruiti in zone ad alto rischio sismico. La mistica della crescita inarrestabile, della produttività h24, dell’alta tecnologia che promette sempre nuovi comfort e servizi si traduce in un enorme fabbisogno energetico. Tutto questo si chiama progresso. E progresso sono anche le armi di distruzione di massa che sfruttano l’atomo, anche quando, quest’ultimo, ci viene presentato come l’atomo “buono”.

Elena De Santis


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Cover Amedit n. 26 – Marzo 2016 “Sacré Cœur” di Iano, 2016

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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 27 – Giugno 2016.

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