GLI AMORI E I DOLORI DI VILLA LYSIS
I fasti infausti del Barone Fersen a Capri.
di Paolo Schmidlin
BROWSABLE VERSION / VERSIONE SFOGLIABILE
Nella luce azzurra ed opalescente del tardo pomeriggio Villa Lysis apparve allo scrittore Frederic Prokosch e alla decadente principessa Mananà Pignatelli – che aveva ottenuto in prestito le chiavi- fosca e spettrale, ombreggiata dai cipressi ed avvolta nel silenzio. Era il finire degli anni ’40 e la villa era disabitata da molto tempo. I due visitatori si aggirarono al suo interno in punta di piedi, come in un sacrario. Tra candelabri ossidati, tavolini d’ebano coperti di polvere e vecchi cuscini divorati dalle tarme, parve loro di avvertire ancora, sotto l’odore di chiuso, di tessuti ammuffiti e di vecchio incenso, un vago sentore di oppio… In quegli stessi saloni nel 1923 Jaques Fersen, avvolto nel suo “sarong” orientale aveva posto fine alla sua parabola terrena ingerendo una dose letale di cocaina. La storia del barone Jaques Adelswaerd Fersen e della sua villa dedicata “all’ amore e al dolore” era iniziata molti anni prima, già nel 1897- quando questo “jeune homme , mince et blond” – come lo descrisse Roger Peyrefitte nella biografia “L’esule di Capri”- approda sull’isola durante un tour nell’Italia mediterranea. Fersen ha allora diciassette anni, è di nobili natali (discendente di Axel von Fersen che fu l’amante di Maria Antonietta), si può fregiare sia del titolo di conte che di quello di barone ed è erede di una colossale fortuna legata alle acciaierie del nonno a Longwy. È in compagnia del visconte Robert de Tournel, trentenne ed ex ufficiale di cavalleria e poeta dilettante, con cui visita la residenza imperiale di Tiberio, luogo carico di leggende.
Capri a quel tempo era meta prediletta di intellettuali in cerca di tranquillità ma anche della più eccentrica mondanità internazionale; vi gravitavano la Marchesa Luisa Casati col suo seguito di servitori ed animali esotici, lo scrittore e psichiatra svedese Axel Munthe, Norman Douglas, Oscar Wilde… Il giovane rimane stregato dall’isola che gli appare incantata, beneaugurante e ricca di promesse di una vita libera dai rigidi vincoli sociali a cui era abituato. Il ricordo lo accompagna a lungo, anche quando, tornato a Parigi, riprende la consueta vita di società. In quegli anni Fersen brilla nei salotti e si dedica ai suoi passatempi preferiti; il disegno, il pianoforte, ma soprattutto la poesia. Finisce anche per fidanzarsi con una graziosa nobildonna, Blanche Maupéou. Ma nel 1903 la sua esistenza di giovane esteta viene sconvolta dallo scoppiare di uno scandalo che manda a monte il fidanzamento e gli costa l’arresto e la perdita per cinque anni dei diritti civili. Lo scandalo, plausibilmente gonfiato dal perbenismo dell’epoca, era partito dalla denuncia di un “valet de chambre”; nell’accusa si parlava di messe nere nel suo appartamento di Avenue Friedland che degeneravano in orge in cui erano coinvolti ragazzini ed altri giovani nobili. Ma nella realtà le famigerate “messe nere” dovevano essere state poco più che degli audaci ed estetizzanti “tableaux vivant”.
Amareggiato il giovane barone decide di tornare a Capri, che gli sembra il rifugio ideale per lasciarsi alle spalle gli ostili mormorii parigini. Sull’isola si mette subito alla ricerca di un luogo remoto ed inaccessibile dove costruire la “dimora del sogno”. Lo trova proprio sulla rupe di Tiberio, non lontano dai ruderi di villa Jovis: un terreno roccioso ed impervio, in inverno battuto da venti gelidi, che però si apre su un panorama incantevole. Ne acquista un ampio appezzamento di dodicimila metri quadrati e con l’aiuto dell’amico scenografo Edouard Chimot inizia la costruzione di quello che sarà destinato a diventare una sorta di tempio greco-preraffaellita-moderno dedicato “alla gioventù e all’amore”. Sull’architrave in marmo bianco dell’ingresso fa scrivere in lettere nere “Amori et dolori sacrum”. Mentre la Villa è in fieri Fersen parte per Ceylon; in quest’isola remota rimane affascinato dall’hinduismo ma scopre anche la pericolosa voluttà e il senso di oblio regalati dall’oppio. Rientrato in Italia, durante un breve soggiorno a Roma, il destino gli fa incontrare Nino Cesarini che ha quindici anni e vende giornali in via Veneto; il barone rimane conquistato dalla bellezza di quel giovane muratore dal corpo acerbo e perfetto e dai nobili lineamenti. Ada Negri descriverà in seguito la grazia di “quel segretario dal profilo da medaglia, con lo sguardo pesante di chi ha occhi troppo lunghi, troppo neri e sormontati da sopracciglia troppo basse”. Nino è orfano e vive in ristrettezze economiche con la famiglia della sorella; Fersen non ha difficoltà a comprarlo, promettendogli protezione ed istruzione, e lo conduce con se a Capri. Nell’estate del 1905 sarà proprio Nino a sistemare l’ultima pietra di villa Lysis (dall’efebo Liside, dei dialoghi di Platone): è una lastra di marmo con l’iscrizione “L’AN MCMV / CETTE VILLA FÛT CONSTRUITE / PAR JACQUES / CTE ADELSWARD FERSEN / ET DÈDIÉE / À LA JEUNESSE D’AMOUR” .
La dimora risulta una costruzione di tre piani audacemente eclettica, con terrazze a strapiombo sul mare, arricchita di marmi, stucchi, vetrate policrome, colonne corinzie istoriate con tessere d’oro. È immersa in una sorta di “hortus conclusus” piantumato di orchidee, narcisi, camelie, rose, azalee, ortensie e gardenie (niente buganvillee, troppo volgari). Boschetti di mirto, di alloro e cupi cipressi lasciano intravedere tempietti e statue classiche commissionate a grandi artisti napoletani. Francesco Jerace modella una scultura, oggi dispersa, che raffigura Nino nudo su una conchiglia che viene posta al centro del belvedere esterno. Il giovane viene ritratto anche da fotografi ed artisti, tra i quali spiccano Von Plushow, Von Gloeden e Paul Hoecker. I lussuosi arredi vengono acquistati a Parigi e in Oriente. Ad Hong Kong, Fersen compra una incredibile collezione – appartenuta ad un imperatore – di trecento pipe da oppio, in oro, argento, avorio e pietre dure che andranno ad arredare quella che sarà il vero cuore della casa: la Camera Cinese o Opiarium. La stanza è situata in modo strategicamente perfetto rispetto al panorama e dai muri affiorano le rocce su cui è fondata la villa. Tra paraventi orientali e sete impalpabili, su vassoi d’argento sono deposti gli aghi d’oro e i vasi contenenti le migliori qualità della preziosa droga. Sempre più spesso Jaques si rifugia in questo locale – che in qualche modo richiama un ventre materno – e si abbandona ai sogni confusi dell’oppio.
Negli anni a seguire la strana coppia conduce una vita apparentemente serena e ritirata in questa sorta di “éremo simbolista”, mostrandosi solo di rado al Caffè del Quisisana o in piazzetta: Fersen elegantissimo, biondo e diafano; Nino disinvolto, con la sua figura bruna e carnale. Frequentano pochi scelti amici , per lo più intellettuali e aristocratici, che salgono a trovarli a villa Lysis: le “sorelle” americane Walcott_Perry (in realtà una coppia di anziane lesbiche), la contessa Ephi Lovatelli o la Marchesa Casati che per un periodo condivide con il barone i languori della “chambre chinoise”. Sempre Ada Negri racconta di un ricevimento nella Villa in una notte di maggio, in cui tutto era bello fino allo spasimo: “… La porta d’ingresso era nascosta da un ampio velario oro e nero. Sulla gradinata antistante tappeti turchi e persiani; sui tappeti tralci di rose; una profusione di rose; un torrente di rose. Al sommo della gradinata, due antichi tripodi di bronzo reggevano alcuni bracieri, donde vaporavano grani d’incenso. L’aroma dell’incenso unito a quello delle rose e a non si sa quale essenza orientale impregnava l’aria e dava il capogiro. Globi opachi di luce erano sapientemente disposti tra il verde e nell’interno del portico.(…)”.
Nel 1909 viene pubblicato a Parigi il romanzo di Fersen “Et le feu s’éteignit sur ls mer…” che gli attira critiche e avversione da parte della società caprese. Il consiglio comunale, sotto pressione, decreta l’espulsione del conte . Da qui altri viaggi, seguiti da altri ritorni su quest’isola che pare rappresentare ormai il suo destino. Con l’arrivo della guerra e la partenza di Nino per il fronte, ombre funeste si addensano. Jacques è irrequieto , solo, depresso, tormentato dall’horror vacui… Torna per un periodo a Parigi, poi soggiorna a Nizza dove scrive altre raccolte di poesie. Subisce un ricovero a Napoli a causa di una grave intossicazione da oppio e rientra infine a Capri dove precipita sempre più nella dipendenza dalle droghe. Sono anni di cupo smarrimento e nella fastosa dimora già aleggia un sentore di morte. Quando il devoto Nino torna dalla guerra non è più il bellissimo efebo ma un uomo maturo che è pronto ad offrirgli autentica amicizia ma non può più concretizzare quell’ideale romantico/adolescenziale che rimane ancora un tarlo nella mente annebbiata del barone che si aggira inquieto e insonne nei saloni della Villa con i lineamenti stravolti dalla sofferenza. Come per una sinistra profezia, Villa Lysis da “tempio dell’amore” si è trasformata in luogo di dolore. Nell’estate del 1921 Jaques si invaghisce di uno splendido adolescente, Manfredo, in vacanza all’Hotel Quisisana con la famiglia. A lui si ispira per la sua ultima opera: “La Ballade du petit faune”. Fersen , che la sua eleganza e la sua eloquenza riesce ancora ad ammaliare, con il consenso dei genitori del ragazzo, nel 1923 parte con lui per la Sicilia. Al ritorno lo ospita a Villa Lysis. Ma intuisce che questo nuovo legame è solo un palliativo; in realtà quell’ideale di armonia e bellezza tenacemente inseguito si sta sgretolando davanti ai suoi occhi, divenuti sempre più vitrei ed impenetrabili.
È il 3 novembre quando in una sera di tempesta si compie l’ultimo atto del dramma. Dopo cena il barone scende con Nino e Manfredo nella camera cinese dove la stufa è accesa e le palline d’oppio sfrigolano alla fiamma della lampada. Dopo aver fumato risalgono nella famosa “camera rosa” di cui si favoleggiava in tutta Capri, e mentre Manfredo sta mostrando a Nino le fotografie fatte in Sicilia , Jaques versa in una coppa di champagne l’intero contenuto di una scatoletta d’oro: cinque grammi di cocaina. Beve tutto d’un fiato , forse memore delle parole attribuite a Wilde: “Bisogna partire prima che il sogno finisca”. Agonizzante viene trasportato nella sua camera dove muore poco dopo tra i bagliori dei lampi e la luce tremolante delle candele. Nella casa, in un’apoteosi tragica dal sapore quasi teatrale, la luce elettrica è mancata a causa del violento temporale che infuria all’esterno. Quando il medico giunge a Villa Lysis non può far altro che constatare la morte del conte, attribuendola a crisi cardiaca. Fersen, viene ricomposto nella camera ardente su una coperta di porpora, rivestito con un sarong rosa, il suo colore preferito, tra candele rosa e ghirlande di fiori; il volto livido, circondato di tuberose, viene anch’esso leggermente truccato di rosa da Ephi Lovatelli che, mortalmente pallida, va incontro ai visitatori dopo aver inserito tra le labbra serrate dell’amico un anello d’oro proveniente dagli scavi di Tebe. Il feretro di Jaques de Fersen, che nessun prete volle benedire, è trasportato a Roma per la cremazione. Le sue ceneri rientrano infine a Capri dove tuttora riposano nel cimitero acattolico. Nino Cesarini, che ricevette in usufrutto la Villa con tutto il suo contenuto per poi venderlo poco dopo alla sorella del barone, non tornò mai più a Capri. Muore dimenticato nel 1943. Villa Lysis, dopo vari passaggi di proprietà, conosce decenni di spaventoso abbandono in cui tutto crolla e si disfa nell’umidità mentre il vento sibila nelle stanze deserte. Alla fine degli anni ’90 un energico restauro la trasforma in un’ asettica bomboniera e mette in fuga per sempre i fantasmi inquieti del conte Fersen e della “jeunesse d’amour”.
Paolo Schmidlin
DOMUS RELICTA
“Eccole lì, sono migliaia, tutte in attesa di chissà che cosa (…) Alcune sembra le abbiano abbandonate ieri, tanto appaiono ancora solide e impettite, nonostante gli sbreghi e le smussature; altre, ormai diroccate e nude, esibiscono in silenzio l’inesorabilità della loro condizione derelitta; di altre invece non potresti mai dire con certezza se qualcuno vi abiti ancora o se, al contrario, nessuno vi penetri più dalla notte dei tempi. Blindate o divelte, murate o esposte, sigillate nel buio o attraversate dai venti, le case abbandonate sono luoghi metafisici, muse inquietanti nella terra di nessuno.” (continua a leggere)
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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 27 – Giugno 2016.
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