di Giuseppe Benassi
Nel 1945 uscì Cristo si è fermato a Eboli, e fu subito un clamoroso successo. Parlava di un’Italia arcaica, di una realtà diversa, quella dei contadini del mezzogiorno, fuori dalla storia e dal progresso. Un libro talmente “vero” che il suo successo dura tuttora. Dagli stessi anni in poi, e su un piano più scientifico, Ernesto De Martino scrisse, sul profondo sud, una serie di saggi antropologici di grande rigore e fedeltà al vero, che ancor di più rivelavano e spiegavano un mondo antico, dove il paganesimo resiste e si mescola al cristianesimo, serpi e tarantole diventano animali simbolici fino ad incarnare degli archetipi, dove lo straordinario e il magico emergono nella vita quotidiana, caricandola di aura. Nella cruda realtà del meridione d’Italia, descritta con scientifica precisione, irrompono metafisiche altre, fatte di estasi, affabulazioni, possessioni e guarigioni sciamaniche. Descrive un mondo, come già aveva intuito Levi, ancora impermeabile alla plasmazione cristiana, che viene trasformata in una nuova forma di magia. Poi, negli anni ‘60 e ‘70, un sempre più angosciato Pasolini pronunciò alcune parole d’ordine che restarono e restano memorabili: il mondo contadino è morto, la società dei consumi l’ha ucciso, riuscendo nell’opera di sottomissione generale, là dove non era riuscito neppure il fascismo. La dittatura della – sedicente – civiltà dei consumi ha prodotto addirittura una mutazione antropologica. Le lucciole sono sparite. Slogan apocalittici, antimoderni, subito non compresi, e poi, dopo la morte di Pasolini, ripetuti come mantra. Eppure, ben oltre la soglia del Duemila, guardiamo le fotografie di Raffaele Montepaone, e ci domandiamo sbalorditi: ma allora, quel mondo esiste ancora?!
A parte il loro valore estetico e la potenza di quelle immagini, dobbiamo constatare che, forse, Pasolini non fu un perfetto profeta: sembrano resistere, forse solo nelle alture della Calabria, da sempre tagliata fuori e salvata dalle invasioni del nord, quei mondi arcaici di cui ci parlarono Levi e De Martino, realtà che paiono fuori dalla storia, in cui il paganesimo vive ancora e va disinvoltamente a braccetto col cristianesimo, come se l’uno non escludesse l’altro. Dove si resiste ancora alle sirene del consumo coatto, e si sopravvive, a quanto pare benissimo, e fino a tarda età, all’apocalisse culturale. Dove paiono abitare ancora gli Enotri, gli Ausoni, i Bruzi, gli Oschi, i Sabelli. Le vecchie di Montepaone appendono il crocifisso e l’aglio, recitano il rosario e formule magiche, apotropaiche; non vanno dal parrucchiere, non usano creme, non sanno cos’è il lifting… non si fanno neanche la barba! Alla barba di certi profeti. Tanto meno si mettono le dentiere, né si fan le sopracciglia ad ali di gabbiano. Se la ridono sotto i baffi non depilati, con le bocche allegramente sdentate, delle idiozie del consumismo. I loro sguardi vivi, i loro occhi intelligenti, smentiscono la “cecità da opulenza” che pervade la nostra società. Sembra addirittura, guardando quelle fotografie, che esista ancora una società matriarcale; o comunque, in essa, le donne non vivono certo nell’ombra, ma si mettono in luce, vivono di luce. Ed esibiscono orgogliosamente i segni – specie i capelli, laboriosamente intrecciati – della loro perdurante, a dispetto dell’età veneranda, femminilità. E, naturalmente, quelle fotografie sono in bianco e nero, perché il colore toglierebbe quel senso di antico che sopravvive. Quelle mani rugose, che non smanettano iPad e iPod, le unghie che non graffiano i gratta e vinci, quei volti rinsecchiti, simili a cretti di Burri, ricordano antichi capolavori, di chi ritrasse, con occhio tanto spietato quanto partecipe, l’estrema vecchiezza: Rembrandt, Quentin Metsys. Nei volti di quelle donne – abitanti di paesi semiabbandonati, dove sonnecchia ma non dorme un passato immemorabile – sono racchiusi tutti i giorni della loro vita, e Montepaone vi apporta, con arte, riflessi di un valore di vita.
La fotografia diventa, con Montepaone, di nuovo strumento politico, più che denuncia sociale, di richiamo a valori perduti. È fotografia “umanista”, dominata da un’etica della visione, che incrimina la nostra società, ne aggredisce la disfatta e la resa a pseudovalori, ci stimola ad una reazione morale. La società neocapitalistica ha scisso questa realtà “altra”, e Montepaone – che la assume come propria, in una comunanza politica, ideologica e culturale – ce la rimette sotto gli occhi, reclamando la nostra attenzione: se il proprio degli artisti è quello di sorprenderci, di rivelarci dei mondi che non conoscevamo o pensavamo addirittura non esistessero, Montepaone è un artista, e di razza.
Giuseppe Benassi

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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 26 – Marzo 2016.
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