IL TERZO SCIMPANZÉ (Bollati Boringhieri, 2016)
L’evoluzione dell’animale umano spiegata ai ragazzi / Un saggio di Jared Diamond
di Cecily P. Flinn
Curato da Rebecca Stefoff, L’evoluzione dell’animale umano è un efficace e sintetico adattamento del celebre saggio Il terzo scimpanzé. Ascesa e caduta del primate Homo sapiens, opera del naturalista e premio Pulitzer Jared Diamond. «Scritto con grande incisività – scrive Frans De Waal – questo libro ci porta a pensare a fondo al rompicapo dell’evoluzione umana, per comprendere da dove veniamo e dove siamo diretti.» I protagonisti della nostra storia profonda sono tre curiosi e intraprendenti scimpanzé, e se un presepio c’è è in questa triade che va necessariamente ricercato. L’evoluzione ci ha resi speciali, un’assoluta rarità nel nostro regno d’appartenenza, che è a tutti gli effetti quello animale. Differiamo di poco, davvero di poco, dai nostri parenti animali viventi più stretti, ed è in quel poco (una percentuale apparentemente irrilevante di DNA) che si è forgiata l’umanità. Siamo mammiferi (abbiamo il pelo e allattiamo) e apparteniamo all’ordine dei primati, un ordine che comprende le scimmie e le scimmie antropomorfe.
Non abbiamo artigli ma unghie, mani prensili e pollici opponibili (caratteristiche tipiche dei primati, che mancano agli altri mammiferi). Tra i primati abbiamo caratteristiche che ci avvicinano più alle antropomorfe (ossia scimpanzé, gorilla, gibboni e oranghi) che alle scimmie. Bisogna andare indietro, molto indietro, per capire quello che è successo e quale ramificazione ci ha originati. Trenta milioni di anni fa si verificò il primo grande bivio in cui le antropomorfe si separarono definitivamente dalle scimmie africane e eurasiatiche; il processo evolutivo delle scimmie è proceduto in parallelo a quello delle antropomorfe fino ai giorni nostri, senza sostanziali innovazioni sul piano cognitivo-cerebrale. Circa venti milioni di anni fa dalle antropomorfe si separò il ramo dei gibboni, il cui DNA infatti differisce del 5% dal nostro e da quello delle altre antropomorfe. Il ramo della protoumanità si separò da quello degli scimpanzé circa sette milioni di anni fa, ed è in questa proverbiale congiuntura spazio temporale che l’uomo ancestrale ha cominciato a muovere i primi passi, dalla discesa dagli alberi alla conquista della postura eretta fino a quel prodigio della natura che risponde al nome di Homo sapiens. Nel gruppo delle antropomorfe le specie tuttora viventi più imparentate sono le due diverse tipologie di scimpanzé: lo scimpanzé comune e il bonobo (che vantano un DNA identico al 99,3%). Da bonobo e scimpanzé l’uomo diverge circa del 1,6%, mentre con il gorilla si sale al 2,3%. Detto in altre parole, condividiamo con gli scimpanzé ben il 98,4% del nostro DNA, e se ne deduce quindi che il parente più prossimo dello scimpanzé non è il gorilla ma siamo noi (un dato che fa riflettere). Ragionando in meri termini di distanza genetica è più che lecito raggruppare uomo, scimpanzé e bonobo sotto un unico genere.
L’uomo, stringi stringi, non è che una terza specie di scimpanzé. Dall’ultima grande biforcazione alla comparsa di Homo sapiens sono intercorsi milioni di anni, costellati qua e là da ulteriori diramazioni e rami spezzati, e non è stata certo un’amena e agevole passeggiata. Più volte ci siamo trovati sull’orlo dell’estinzione, discendiamo da un gruppo molto ristretto di parenti ancestrali e, con ogni evidenza, dobbiamo la nostra esistenza a una serie altamente improbabile di circostanze fortunate. Quell’intraprendenza che ci ha favoriti è la stessa che ora ci sta indirizzando alla sesta estinzione dell’antropocene. I nostri lontanissimi antenati erano animali davvero insoliti, i primi a spingere la curiosità verso rudimentali soluzioni creative; i primi grossolani strumenti litici compaiono in Africa circa 2.500.000 anni fa. La permanenza in terra africana durò molto, molto a lungo. Un milione di anni fa i nostri antenati raggiunsero i territori più miti dell’Europa e dell’Asia, divenendo man mano la più diffusa tra le tre specie di scimpanzé. Intorno ai 100.000 anni fa la protoumanità, almeno quella neandertaliana, cominciò a utilizzare il fuoco e a sviluppare prime forme di socialità.
L’uomo moderno propriamente detto compare solo 60.000 anni fa, un uomo capace di elaborare prime forme di linguaggio, e prime forme d’arte e di tecnologia. Intorno a 10.000 anni fa, al termine dell’ultima era glaciale, la nostra ascesa accelerò. La diffusione dell’uomo nelle Americhe coincise con l’estinzione dei grandi mammiferi, e di lì a poco nacquero le prime forme di agricoltura e, più in generale, di addomesticazione ambientale. Non sappiamo cosa abbia causato questo improvviso balzo di grande progresso, quale scintilla abbia innescato la prodigiosa macchina di Homo sapiens; l’unico dato certo è, come abbiamo già osservato, che il nostro genoma differisce appena del 1,6% da quello dello scimpanzé. L’ipotesi avanzata da Diamond è che questo balzo sia stato innescato dall’affinamento del linguaggio. Il grande naturalista individua inoltre due cruciali caratteristiche comuni sia alla protoumanità che a quella contemporanea: «…Questi primi esseri umani avevano tratti nobili, ma erano anche portatori delle due caratteristiche che sono alla base dei nostri problemi moderni: la tendenza a ucciderci in massa e a distruggere l’ambiente e le nostre risorse.» L’uomo ha in sé il seme della creatività e quello della distruzione. L’evoluzione ci è costata cara.
Cecily P. Flinn

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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 26 – Marzo 2016.
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