di Massimiliano Sardina
pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 26 – Marzo 2016
Genio sovrannaturale: è questo il concetto chiave che lega i due racconti squisitamente ottocenteschi di Dumas padre e Asselineau, non a caso chiamati a raccolta in questo prezioso volumetto edito da Il Canneto. Tanto ne Il diavolo e l’architetto (Dumas, 1841) quanto in Seconda vita (Asselineau, 1858) i protagonisti, agiti dal demone dell’ambizione, si rivelano disposti a tutto pur di veder coronati i loro desideri, finanche a stipulare un patto col diavolo in persona, che infatti è proprio quello che accade. Nel primo racconto l’ambizione del protagonista è quella di raggiungere il più alto livello d’eccellenza nell’invenzione architettonica, un talento progettuale e creativo che non tema rivali e che susciti la più commossa e unanime ammirazione. Nel racconto di Asselineau invece l’ambizione prima di essere artistica (nello specifico musicale) è amorosa, alimentata dal fuoco folle della gelosia. Ci troviamo di fronte a due racconti “neri”, distanti diciassette anni uno dall’altro ma ben in sintonia con certe istanze gotiche del Romanticismo che affondano le loro radici in quella lunga tradizione inaugurata da Walpole nella seconda metà del XVIII secolo; negli stessi anni, e soprattutto in Francia, si va imponendo la “verità vera” del Realismo, ma i venti misterici e fantastici del luciferino continueranno a soffiare indisturbati fino all’approssimarsi della Belle Epoque.
Ne Le Diable et l’architecte Dumas, utilizzando un tono da racconto popolare, si riallaccia dichiaratamente alle leggende medioevali che assegnavano al diavolo la paternità delle architetture più ardite (specie ponti e cattedrali). Tra architettura e romanzo gotico c’è sempre stato un legame molto stretto, dal Castello di Otranto in avanti, lo sa bene Dumas che qui, ripescando la figura storica di Mastro Gerardus (primo progettista del Duomo di Colonia), e immaginando una sua interazione con Satana, crea un piccolo classico nel genere e un modello per tante riformulazioni future. Esempio mirabile di vertigine gotica, la Cattedrale di Colonia è l’archetipo dell’edificio diabolico. L’arcivescovo Corrado di Hochstaden commissionò il progetto a Mastro Gerardus, che a quel tempo godeva fama di abile architetto. I lavori iniziarono nel 1248, si fermarono nel 1560 e ripresero solo nel 1842. A Dumas, nel corso di un viaggio sul Reno nel 1838, giunge notizia della riapertura del cantiere, ed è da qui che trae spunto per il suo racconto. Lo scrittore immagina Mastro Gerardo in piena crisi progettuale, insoddisfatto di ogni suo schizzo, che per quanto originale risulta sempre troppo simile a qualcosa di già esistente. L’architetto si sente inadeguato, frustrato, non all’altezza della prestigiosa commissione, ma l’orgoglio, il desiderio di veder associato il suo nome a quella grande cattedrale, lo predispone fatalmente alla stipula di un patto col maligno. Il diavolo gli offre il progetto tanto agognato, tracciandolo con sottili linee di fuoco: è quanto di più bello e perfetto Mastro Gerardo abbia mai visto, è quel Duomo di Colonia che mai da solo sarebbe riuscito a progettare. La mente razionale e finita dell’uomo non può tener testa alla mente immaginifica luciferina, ma può tentare di gabbarla su un piano comune, quello dell’astuzia. Grazie all’arguto consiglio di un prete Mastro Gerardo riesce a beffare il diavolo e a impadronirsi del progetto. La vendetta diabolica passerà attraverso le tentazioni dei vizi capitali, cui l’architetto riuscirà a resistere, ma sarà il peccato d’orgoglio a tradirlo, «il primo che commette – osserva bene Ida Merello nelle note introduttive – nel momento stesso in cui firma col proprio nome il disegno di un altro».
In Seconda vita l’ambizione passa prima attraverso il sogno. Protagonista è un ventiquattrenne parigino, diviso tra una donna amata (la baronessa Lydie) e un nemico (il pianista Gatien, suo rivale in amore). Vorrebbe essere un bravo musicista, poter sfidare Gatien e sedurre la bella baronessa. In sogno accade proprio così: in un salone gremito, dinanzi alla sua amata, un misterioso straniero lo esorta a suonare un violino, e d’incanto una musica celestiale si sprigiona dalle punte delle sue dita, mosse da una vibrazione potente e sconosciuta. Lydie s’innamora di lui, del suo irresistibile genio musicale. Ma, per l’appunto, non è che un sogno. Al risveglio il giovane, oppresso da quell’amore non corrisposto, cerca in ogni modo di “recuperare” dal sogno quella misteriosa virtù, e si concentra sul binomio volere-potere. Convinto di poter riuscire, a una festa, in presenza dell’amata, impugna un violino e tenta il tutto per tutto. Dalle corde, contrariamente a quanto avvenuto in sogno, esala solo uno stridio metallico. Dalla vergogna il giovane fugge, raggiunge un ponte e si getta nella Senna. La “seconda vita”, la possibilità di “ritornare” per riscattarsi, gliela concede un demone (a patto di morire entro un anno con le stesse modalità suicidarie). Accecato dall’ambizione il giovane “torna” con “scienza acquisita” e facoltà decuplicate. Il genio sovrannaturale concessogli dal demone lo porterà a comporre sinfonie talmente complesse da richiedere l’invenzione di nuovi strumenti. Questa scienza acquisita per disperazione gli recherà vantaggi solo illusori: Lydie lo amerà, sedotta dal suo genio, ma di un amore che presto gli verrà a noia, così come la vita, l’arte e tutto il resto. Troverà la pace riconsegnandosi alle acque del fiume, in ossequio al patto stretto con l’oscura entità ultraterrena. In Seconda vita Asselineau indaga l’anima più inquieta del Romanticismo, quella che senza soluzione si interroga sull’origine del genio e sul demone inafferrabile dell’ispirazione.
Massimiliano Sardina

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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 26 – Marzo 2016.
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