IL LABIRINTO DEL SILENZIO
Un film di Giulio Ricciarelli
di Pietro Valgoi
I nazisti non si sono magicamente estinti dopo la caduta del loro capobranco, il vigliacco suicida Adolf Hitler. Finita la guerra, spazzate via frettolosamente le macerie come polvere sotto il tappeto, tanti feroci criminali hanno riposto l’uniforme nell’armadio e hanno ripreso la vita ordinaria di tutti i giorni come se nulla fosse accaduto. Un processo di simulata rimozione collettiva: la guerra è guerra, quel che è stato è stato, abbiamo solo fatto quello che ritenevamo giusto, quello che il Paese, la grande Germania nazional-socialista ci incitava eroicamente a compiere. SS o semplici soldati, potenti gerarchi o spicciola manovalanza: compiuti i massacri con zelante dovizia eccoli ritornare panettieri, farmacisti e professori, tutti reingurgitati nella macchina pubblica della nuova Germania post-bellica. Tutti responsabili, quindi tutti innocenti. Con le sentenze di Norimberga molti si illusero di chiudere definitivamente il libro nero, ma fortunatamente la giustizia fece il suo corso, almeno fin dove riuscì ad arrivare. I pezzi grossi, all’indomani della disfatta del Reich, riuscirono a rifugiarsi in Argentina, in Brasile, in Paraguai, protetti da una rete invisibile e complessa (pensiamo solo ai casi di Eichmann e di Mengele).

Dopo la guerra, dunque, un grande silenzio. Un silenzio sempre sospeso tra blindata omertà e incapacità d’espiazione. È questo posticcio e caricaturale ritorno alla “normalità” del popolo tedesco che Giulio Ricciarelli sceglie di indagare ne Il labirinto del silenzio. Francoforte, 1958. Il giovane procuratore Johann Radmann, stanco di occuparsi di infrazioni al codice della strada, si imbatte senza volerlo in un qualcosa di più grande di lui: i nazisti impuniti, quelli che con astuzia e appoggi l’hanno fatta franca in barba alla giustizia; l’incontro con il giornalista anarchico Thomas Gnielka, e successivamente quello con Simon, un artista ebreo sopravvissuto ad Auschwitz, si rivelano cruciali e decisivi per quella che diventerà prima un’ossessione e poi una missione: stanare i criminali nazisti e processarli. Johann è troppo giovane per sapere quello che realmente è successo nei lager. Famiglia, scuola, chiesa: tutti gli hanno taciuto la verità. A ventisette anni Johann non ha mai sentito pronunciare la parola Auschwitz. È il doloroso racconto di Simon ad aprirgli gli occhi, un racconto estorto dopo estenuanti insistenze (Simon è l’emblema del sopravvissuto che non riesce a raccontare, prigioniero di un dolore che è appunto inenarrabile, contraltare del carnefice che resta invisibile). Quando Johann apre gli occhi capisce che anche suo padre, come quasi tutti i padri del Paese, non era che un volgare nazista, e che dunque era morto come tale, e non come gli aveva sempre detto sua madre da “eroe di guerra”. L’artista Simon – le cui figlie gemelle furono straziate dall’angelo della morte Josef Mengele – funge da anello di congiunzione tra passato e presente; è lui a riconoscere in un insegnante di scuola elementare uno degli addetti alla selezione della Judenrampe di Auschwitz. Con l’aiuto del procuratore Fritz Bauer il giovane Johann Radmann riesce ad avviare una commissione d’indagine. Partendo dalle testimonianze shock di molti sopravvissuti e incrociando i dati con le informazioni raccolte nella monumentale burocrazia documentale redatta dalle SS (conservata in archivi altrettanto labirintici), la commissione riesce a stanare e processare ben ventidue criminali nazisti (il secondo processo di Auschwitz, 1963).
Il film di Ricciarelli mescola efficacemente personaggi realmente esistiti (come il giornalista Gnielka e il procuratore Bauer) e altri di fantasia (Johann Radmann è la somma di tre procuratori realmente esistiti). Il labirinto del silenzio media efficacemente la struttura del film dossier con quella del dramma giuridico. Ben delineate le psicologie dei personaggi e, più in generale, quella di un popolo che finge di non sapere o di non ricordare. «Questo Paese edulcora tutto, non vuole sapere la verità» dice l’artista ebreo, con rassegnazione. Il peso della colpa è talmente insostenibile che chiunque tentasse malauguratamente di sorreggerlo ne rimarrebbe schiacciato, appiattito, annientato. Più facile camminarci sopra, seppellendolo ogni giorno sempre più a fondo, giù fino all’inferno. Solo le vittime sopravvissute sanno e ricordano. Questo secondo processo ad Auschwitz ebbe se non altro il merito di riaccendere le consapevolezze e di costringere un’intera nazione a un complesso e profondo esame di coscienza. Nessuna concessione visiva alla nota iconografia dell’Olocausto, e anche quando i sopravvissuti testimoniano quanto visto e subito c’è la musica (di Niki Reiser) a tacitare quell’inenarrabilità. Un film di sobrio taglio civile, ben soppesato. Solita nota dolente la storiella etero di mezzo, ma nel complesso tanto di cappello. Ben risolto il contrasto tra l’effimero femminile, tutto volto al sartoriale, e la virilità della coscienza civile. La sceneggiatura è firmata dallo stesso Ricciarelli con la complicità di Elisabeth Bartel.
Pietro Valgoi

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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 26 – Marzo 2016.
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