di Giuseppe Maggiore
pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 26 – Marzo 2016
Dopo un iter lungo e arzigogolato in cui si è visto e sentito di tutto, l’Italia è finalmente pervenuta a una legge che riconosce e tutela le unioni tra persone dello stesso sesso, conferendole lo statuto di “famiglia”; non solo: questa legge riconosce e tutela, seppur in forma più blanda, anche le unioni di fatto tra tutte quelle persone che scelgono una semplice forma di convivenza alla formalizzazione del matrimonio. La legge estende alle unioni cosiddette “civili” gli stessi diritti di cui gode l’istituto matrimoniale tradizionale. Va subito detto che questo rappresenta un passo di avanzamento importante, dopo un vuoto legislativo piuttosto lungo e ormai non più tollerabile. Per quanto tardiva e mutila, questa legge costituisce un buon punto di partenza, ma non certo di arrivo. Sono passati esattamente trent’anni da quando, nel 1986, vennero presentati i primi disegni di legge in proposito. Trent’anni di governi che si sono succeduti senza essere in grado di dare attuazione alle varie proposte formulate in aula.
Al dinamismo di una società che intanto andava mutando ha fatto da contraltare l’immobilismo di una classe politica incapace – o colpevolmente disinteressata – nel saper cogliere e farsi interprete delle nuove istanze sociali. Nel frattempo il resto del mondo è andato avanti, perlomeno tutti quei Paesi che compongono l’Unione europea di cui la stessa Italia fa parte; Paesi che hanno adeguato le loro legislazioni recependo e facendo propri i principi sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani (1948) di cui è figlia la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (2000). Questi testi proclamano in primo luogo e a chiare lettere che “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”, stesso principio, del resto, sancito dalla nostra Costituzione della Repubblica Italiana (1947). Questo non ha impedito allo Stato di agire per molto, troppo tempo, in modo pregiudizievole, negando di fatto questo fondamento della dignità umana a molti suoi cittadini. Colpevole una Chiesa, che quello stesso principio, insieme laico e cristiano, ha per statuto e che sempre e ovunque si è battuta contro ogni iniziativa volta al riconoscimento di questi diritti, ma ancora più colpevole una classe politica – tanto di ieri quanto di oggi – che le ha permesso e continua a permetterle ingerenze inaccettabili e fuori luogo, in seno a un Paese che almeno sulla carta si definisce laico e democratico.
A giudicare dai tempi e dai modi del dibattito politico intorno a questo tema, e dal tortuoso percorso che ha portato a questa legge, sembra quasi che il riconoscimento dei diritti civili per tutti i cittadini sia una novità, una mera invenzione, peggio ancora il frutto di un capriccio, o espressione d’un’assurda pretesa da parte di uno sparuto e alquanto bizzarro gruppo di persone. Perché è questo il sapore che ha questa legge: quasi fosse una concessione, un contentino, un regalo accordato. Non diritti riconosciuti come fatto ovvio, come un principio naturale fondato proprio sull’uguaglianza e la dignità delle persone, e nemmeno come naturale conseguenza di un dare-avere reciproco tra lo Stato e i suoi cittadini, piuttosto diritti strappati con le unghie e coi denti, dopo anni e anni di soprusi, violenze, umiliazioni e violazioni d’ogni sorta che i destinatari di questa legge hanno dovuto subire. Quanto inutile e ingiusto dolore c’è voluto affinché tante esistenze costrette alla clandestinità potessero solo cominciare a sperare, un giorno, di potersi vedere riconosciute alla luce del sole dal proprio Paese e dalla società di cui fanno parte? Vite esuli in casa propria; cittadinanze ingiustamente negate per troppo tempo. Da una legge che giunge con vari decenni di ritardo, che ha avuto una così lunga e faticosa gestazione, e che soprattutto poteva contare sui tanti precedenti di analoghe iniziative intraprese dagli altri Paesi, era lecito aspettarsi ben altro che il semplice riconoscimento di diritti a persone da cui da sempre si sono pretesi solo doveri.
Questa nazione ha beneficiato finora dell’apporto sociale, economico, culturale, tributario di tutta la sua popolazione, negando però a una parte consistente di essa il riconoscimento di pari diritti e pari dignità. La lotta per questo pieno e dovuto riconoscimento avrebbe dovuto essere la lotta di tutti i cittadini, la lotta di un popolo che si riconosce nei sacrosanti principi della persona umana, ancor più se questi cittadini si richiamano con tanta insistenza e orgoglio ai principi del cristianesimo. Ma così non è stato, e ancora una volta si è voluto lasciar da sole delle persone circoscritte in una categoria a dover lottare per se stesse. Lo spirito di solidarietà in questo Paese è mancato proprio lì dove avrebbe dovuto farsi sentire, non comprendendo che la solidarietà si esercita ovunque vi siano condizioni di ingiustizia, disparità e discriminazione da rimuovere. Principi cristiani o non, lo Stato non è in ogni caso solo e soltanto dei cosiddetti “cristiani”, lo Stato è di tutti nella misura in cui esige che tutti abbiano uguali diritti e doveri. Una nazione laica e democratica ha le sue leggi civili a cui dover prestare fede e quand’anche questi leggi giovassero alla tutela di un’infima minoranza ciò non fa di esse una questione di secondaria importanza, tanto meno può mandarle in deroga. Ammesso – e non concesso – che i cittadini gay e lesbiche in Italia fossero una sparuta minoranza ciò non farebbe che avvalorarne la tutela e di porre la questione del loro pieno riconoscimento civile tra le priorità che una sana democrazia è tenuta a porsi. Non è stata invece una priorità. Non è stata nemmeno una conquista di civiltà, perché i termini usati nel testo di legge che è passato non consentono di definirla a pieno titolo come tale.
La definizione “Specifica formazione sociale” appositamente concepita per riferirsi alle unioni tra persone dello stesso sesso, appare, nelle reali intenzioni di chi tra i nostri politici l’ha pretesa, non soltanto come un semplice espediente atto a distinguere queste unioni dal vero e proprio matrimonio, ma anche un modo per stabilire la diversità, e insieme il carattere di eccezionalità che si vuole assegnare a questo nuovo istituto sociale. Conseguentemente, anche i diritti da esso discendenti vengono ad assumere in linea di principio un carattere particolare: sono “speciali diritti, non eguali diritti”. Le parole hanno il loro peso e conferiscono forma a ciò di cui trattano all’interno di un determinato discorso. Detto questo, diciamo pure che il termine stesso “matrimonio” e l’istituto che designa, visto in una chiave di lettura storico-antropologica e per le specifiche connotazioni anche di carattere religioso che ha, appare comunque inadeguato alle nuove istanze e formazioni sociali, e per certi aspetti anche superato. Sarebbe più opportuno operare una netta e definitiva distinzione tra il “matrimonio” propriamente detto, la cui celebrazione dovrebbe svolgersi in seno a un’organizzazione religiosa, libera di disciplinarne i termini in base alla propria dottrina, e tutte quelle unioni aventi carattere prettamente civile, giuridico e sociale che cittadini credenti o non decidono di stabilire tra loro davanti allo Stato. Questa distinzione e le ragioni che l’accompagnano sono ben espresse dalla filosofa Martha Nussbaum in Disgusto e umanità – L’orientamento sessuale di fronte alla legge (il Saggiatore, 2011), di cui se ne consiglia la lettura. Compito dello Stato è dunque quello di riconoscere e tutelare la libertà degli individui in ogni aspetto della loro vita sociale, riservando la giusta discrezione verso ciò che attiene alle loro scelte più intime e private; ciascun cittadino deve poter organizzare la sua vita come meglio crede, come singolo o come coppia, in base alla propria natura e alle proprie aspirazioni, e deve poterlo fare all’interno di una cornice legislativa che gli garantisce uguali rispetto, dignità e trattamento. In virtù dei principi fondamentali della Costituzione che richiamano ai diritti inviolabili dell’uomo, alla laicità, al pluralismo, alla democrazia, all’uguaglianza e alla solidarietà, lo Stato non può e non deve opporsi al libero consorzio umano, in ogni forma esso si esprima, laddove ciò non comporta alcun danno altrui. Molto semplicemente lo Stato celebri dunque le Unioni civili in un quadro normativo che le prevede tutte, senza distinzione alcuna, senza così dover di volta in volta ricorrere o discutere leggi e leggine per questo o per l’altro caso. Le Chiese, dal canto loro, celebrino pure i loro matrimoni, pur avendo questi ultimi carattere esclusivamente religioso, senza alcuna valenza civile. La distinzione tra Stato e Chiesa va fatta, ed è bene che sia fatta anche nei termini di utilizzo.
Due punti di questa legge che hanno suscitato molte polemiche sono quelli relativi alla fedeltà e al divorzio lampo. Con il primo la politica italiana ha esonerato le coppie omosessuali dal vincolo di fedeltà coniugale. L’intento, del resto ben dichiarato, è ancora una volta quello di distinguere queste unioni dal vero e proprio vincolo matrimoniale, ma soprattutto quello di gettare l’onta del discredito e della denigrazione nei confronti di queste unioni, associandole in modo del tutto preconcetto alla promiscuità e alla instabilità affettiva. Bene. A nostro avviso l’unione tra due persone è disciplinata dall’amore più che da una morale o da una legge. Va da sé che l’amore vicendevole dovrebbe ispirare in due individui che scelgono di condividere un progetto di vita insieme il reciproco rispetto. La questione della fedeltà all’interno d’una coppia attiene alla sfera privata, un fatto di coscienza intimo e profondo che per sua natura non può essere imposto o garantito da una legge. Non c’è quindi ragione di ritenere che debba occuparsene lo Stato. Riguardo invece al secondo punto, ossia il divorzio lampo, non c’è motivo di ritenerlo un elemento denigrante, ma anzi va nella direzione di un più generale snellimento delle procedure di divorzio che tanto auspicano le stesse coppie eterosessuali. Nonostante quindi le intenzioni fossero ben altre, riguardo a questi due ultimi punti presi in esame possiamo ritenere la legge in questione piuttosto lungimirante e all’avanguardia.
Ma l’aspetto più dolente della legge appena approvata è quello dello stralcio della cosiddetta Stepchild adoption. La falsificazione del suo significato è un film che avevamo già visto di recente con il termine “Gender”, e che si è ripetuto pari pari in questo caso, grazie alla solita campagna di disinformazione e di demonizzazione operata in perfetta malafede dai soliti ambienti delle catto-destre. Anche questa volta parlare alla pancia piuttosto che alla testa ha portato i suoi buoni frutti, sancendo la vera e più clamorosa sconfitta italiana sul piano civile. Dicesi “Stepchild adoption” quell’istituto giuridico che si applica quando due persone decidono di formare un nuovo nucleo familiare e una di loro o entrambi porta con sé un figlio avuto da una precedente relazione. Esso dà la possibilità a una persona di poter adottare il figlio naturale del proprio partner. Il fine preminente di questo particolare istituto è quello di tutelare il minore garantendogli l’instaurazione di un rapporto avente valore giuridico anche con il compagno o con la compagna del proprio genitore, e potendo godere così delle stesse tutele e degli stessi diritti di cui godono i figli aventi entrambi i genitori biologici. In Italia è già in vigore dal 1983 per le sole coppie eterosessuali ed esteso nel 2007 a tutte le coppie conviventi (purchè, s’intende, eterosessuali). Ancora una volta il sesso delle persone sembra determinare, in questo Paese, l’attitudine a poter amare, crescere ed educare degnamente un figlio. Tanta preoccupazione per il benessere dei minori non sembra curarsi affatto di tutti quei casi in cui questi crescono in ambienti malsani, in contesti familiari li dove quotidianamente sono soggetti a forme di violenza, abusi e maltrattamenti, o quando convivono con genitori criminali, assassini, spacciatori, mafiosi, usurai, e ancora nemmeno quando vengono fuori stili di vita sessuale non proprio “ordinati” da parte di genitori dediti alla prostituzione o alla pedofilia. In nessuno di questi casi si nega per principio il diritto alla genitorialità. Semplicemente perché c’è un pene e una vagina che messi insieme fanno la differenza. Questo non è avere a cuore il bene dei “nostri figli” ma semplicemente la prova provata di un pregiudizio atavico e infondato, un pregiudizio omofobico che ancora una volta genera soltanto ingiustizia e disparità. Cosa accadrà ai tanti bambini che intanto stanno già crescendo in seno a famiglie composte da gay e lesbiche? Cosa accadrà a loro se uno dei due (mettiamo proprio il genitore biologico) viene a mancare? Questa legge li condanna a essere una volta di più orfani, figli illegittimi, senza alcuna tutela e protezione.
Ancora una volta l’Italia ha dimostrato la sua inettitudine a sapersi realmente prendere cura dei suoi cittadini, e soprattutto di quelli più deboli, nascondendo dietro la negazione di un principio (ancor prima di un diritto) la sua inefficienza nel garantire un reale benessere alle famiglie. Si preoccupi piuttosto di attuare delle politiche economiche, sociali, previdenziali più favorevoli; ridia dignità ai tanti lavoratori e lavoratrici cui ha tolto ogni diritto e tutela. Ma questo è uno Stato che fa molto in fretta quando si tratta di togliere diritti, aggiungere tasse e dazi, e che si dimostra sempre poco solerte, piuttosto lento e restio quando si tratta di concedere diritti e reali tutele ai suoi cittadini. Alla luce di queste considerazioni, per concludere diremo che si poteva certamente fare di meglio, ma è comunque un inizio. C’è indubbiamente ancora molto da lavorare intorno a questi temi, soprattutto nella coscienza collettiva. Più che di lacune da colmare si tratta di pregiudizi da rimuovere. Ci auguriamo solo che non debba passare ancora molto tempo prima che si possa finalmente giungere al compimento di un pieno e incondizionato riconoscimento della persona umana degno di una vera società civile e democratica.
Giuseppe Maggiore
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