STORIA DI ADA
di Marco Cavalli
Ambientata nel triangolo Volterra-Cecina-Grosseto, Storia di Ada (1967) di Carlo Cassola (1917-1987) si svolge in un periodo imprecisato del ventennio fascista. L’imprecisione è intenzionale, perché il tempo nel racconto coincide con l’interpretazione interna che ne dà la protagonista. Ada è un’eccezione a una certa prospettiva unilaterale di povertà e ignoranza, e come tale ci viene presentata in apertura di romanzo: “Ada era venuta a grande distanza dagli altri. (…) non pareva della famiglia. Le sorelle e i fratelli erano scuri di carnagione, lei bianca al punto da avere le lentiggini. (…) Erano tutti fieri di lei. Non c’era caso di vederla sporca o in disordine. Fino a undici anni andò a scuola. Mentre le sorelle e i fratelli s’erano fermati alla terza, Ada fu promossa tutti gli anni e prese la licenza di quinta. Era più brava lei, che veniva dalla campagna, dei ragazzi di paese”. Ada ha una bella grafia, maniere da cittadina apprese chissà dove ed è portata per lo studio, tanto che il padre vorrebbe risparmiarle i lavori faticosi. La ragazza peraltro non vede contraddizione tra l’attività nei campi e quelle in serbo per lei con la prosecuzione degli studi. È questo, forse, il suo unico torto: non cercare di distinguersi. Un giorno, un incidente con la trebbiatrice le costa la perdita della mano destra. I disagi meccanici causati dalla menomazione vengono presto superati. Ada si adegua, impara a scrivere con la sinistra, ritorna operosa. Ma è come se le belle maniere, la facilità nello studio, la leggiadria e tutte le doti che la ponevano al di sopra della sua condizione abbiano perduto la loro magia. La mutilazione produce un cambiamento: non una conversione psicologica, ma un accomodamento tra le novità inespresse della natura di Ada e le abitudini di famiglia. Non che Ada si rassegni; il suo temperamento le ingiunge di finire quel che ha iniziato e le proibisce di sciupare le buone qualità. Ma dopo l’incidente Ada volta le spalle a tutti gli sviluppi imprevedibili di quelle qualità.
Col ritorno della stagione della trebbiatura, i genitori spediscono Ada dalla zia, a Marina di Cecina. Il paese si va svegliando alla coscienza del suo avvenire turistico, saggia le promesse di benessere sventolate dal regime. Lo zuccherificio sovrasta il centro balneare e con le sue scorie industriali presenta alla popolazione gli effetti indesiderati della prosperità. Per le strade che inalberano la toponomastica fascista è tutto un viavai di motociclette. È la spiaggia il nuovo spazio sociale, e i parenti di Ada, come il resto dei marinesi, vi macinano la loro vita di piccola borghesia agricola. Le pagine più felici del racconto di Cassola sono quelle che descrivono le impressioni di Ada durante il soggiorno estivo a Marina di Cecina. Indovinata è l’idea visiva di rappresentare le bardature del regime con i feticci della villeggiatura e delle vacanze visti però nel loro declino incombente, con l’occhio di chi ne è già sazio o di chi, come Ada, fatica ad abbandonarvisi. La seduzione degli status symbol deriva per metà dalla loro accessibilità e per l’altra metà dal desiderio che trasmettono di essere rinnovati indefinitamente. La domanda di ottimismo che i cittadini rivolgono alla stagione estiva, dopo mesi di disoccupazione, salari bassi e ristrettezze, ottiene una risposta confacente ma dimessa, rimpicciolita: un cucchiaino in più di polvere di caffè nella macchinetta, l’accesso alla spiaggia allargato ai poveri, motociclette, un certo permissivismo sessuale.
Con la morte prematura del padre, Ada trasloca in pianta stabile a Marina. Trova un impiego alla Posta, prende tutto quel che le riserva il nuovo mestiere con la stessa gratitudine che se l’avesse scelto. Gentile e servizievole, non si interroga sulle nuove abitudini, se non siano peggiori o migliori delle precedenti. Pur essendo ancora una bambina nella sorpresa o nello sgomento che suscita in lei ogni fatto nuovo, si sforza di ridurre le cose alla loro giusta importanza, di vivere la vita spensierata e indaffarata che tutti hanno l’aria di condurre in paese. Il colpo di cui ha sofferto in segreto, di non essere cresciuta secondo le regole misteriose del suo carattere, le pesa sempre di meno. La speranza ora è di maturare secondo le regole del mondo. Ma per credere nel miracolo della vita spensierata, e nei nuovi rapporti che instaura, Ada dovrebbe dimenticare la cultura che le ha insegnato a non attendersi alcun miracolo dalla vita. L’epoca le offre l’opportunità di invecchiare secondo nuovi ideali di dissipazione e di spregiudicatezza. Ada, che al suo arrivo a Marina non sapeva nuotare, impara in fretta ma resta prudentemente “dove si tocca”. L’abitudine alle rinunce, i sacrifici, l’hanno incallita a resistere all’impulso del momento e a guardare lontano, a ciò che può venire dopo. Non ha la fiducia cieca di sua cugina Bice in altre esperienze, quali che siano, più vicine ai propri desideri. Per Ada, il bene da perseguire non è il desiderio bensì una posizione di tranquillità di fronte alla propria coscienza, una salute dell’anima che metta il desiderio in relazione pacifica con le nuove condizioni di vita. Riconoscere la situazione per quella che è non è più la premessa per poterla cambiare, ma per adattarla all’ambiente.
Ancora abbastanza giovane per lasciarsi alle spalle la cultura della miseria, Ada non lo è abbastanza per scordare di averla vissuta. Le rimane addosso un rigore monastico, un’aria di povertà devota e di vita dura, dignitosa. Le vanità commerciali la attraggono ma le restano estranee e sconcertanti. Il caffè si ostina a prepararlo con un solo cucchiaino di polvere; l’abbondanza (anche di tempo) continua a rappresentare per lei un lusso, e i lussi si pagano. Ada invidia l’innocenza con la quale i coetanei passano dalla vita nei campi ai bagni di mare. La cugina Bice è già al fastidio di dover condividere la spiaggia con i poveracci e mostra tutti i sintomi di un’accidia che Ada è impotente a decifrare avendo quale unica pietra di paragone l’insofferenza delle sorelle verso la vita di campagna. Tutto ciò che a Marina poteva offendere un contadino e risvegliare in lui un sentimento iroso di inferiorità, per Bice è passato in secondo piano, è diventato un divertimento comune, volgare. Ada invece prova ancora vergogna a rivelare la sua origine campagnola. L’ultima visita al podere in abbandono, che il padre, fittavolo, sognava di riscattare, Ada la compie di nascosto, con la fretta colpevole di chi vorrebbe seppellire il passato ma sente che non si può, che non è giusto. A quella delle amiche Ada preferisce la compagnia della zia, la madre di Bice, la quale non fa che rinvangare il periodo della Grande guerra e per questo motivo è schivata dai familiari. Gli agi che a Marina di Cecina sembrano contrapporsi agli stenti del passato, per la zia non sono che le stesse miserie cambiate di nome (“La zia non sapeva i nomi delle vie. Non sapeva nemmeno il nome della piazza dove abitava. – Si chiama Piazza Generale Tellini, zia. – Senti che razza di nome. Ah, ora ricordo: sono stati i fascisti. Una notte cancellarono il nome e ci scrissero in quell’altro modo. – E prima come si chiamava? – Piazza della Chiesa, mi pare. Ce n’è una sola di piazza, che bisogno c’è che abbia un nome?”).
La militanza di Ada nei due eserciti (l’antica cultura contadina e la cultura fascista) non va mai oltre la coscrizione. Dal secondo esercito, cui pare destinata per anagrafe, Ada si congeda in seguito all’incidente che la priva dell’uso della mano. Rientrata nei ranghi del suo corpo d’appartenenza, lo trova in piena smobilitazione. I pochi superstiti la guardano in cagnesco: loro non possono fare altro che attendere la promozione a quella milizia scelta da cui Ada si è allontanata con tanta leggerezza. Le sorelle non le perdonano di accontentarsi, lei che potrebbe desiderare di più. La stessa gentilezza del padre trasuda la delusione del genitore che nelle superiori facoltà della figlia aveva concentrato sogni segreti di riscatto. Quando ciò che rimane del primo esercito si aggrega alle fila del secondo, il sistema di pregiudizi e di doveri ai quali Ada è stata educata le è d’ostacolo a una completa assimilazione. Ada non lega con la giovinezza letteraria in cui il fascismo le suggerisce di identificarsi. Il virilismo e l’atletismo non fanno presa su di lei. Il giovanotto che al mare si tuffa dall’alto di una piattaforma, Ada lo trova “vanitoso” invece che audace e interessante. Nel tentativo di ringiovanire sulle indicazioni della nuova moda, Ada si scurisce persino i capelli, senza con questo riuscire a nascondere la propria immaturità, la propria vocazione a crescere all’indietro.
L’amore, presentatole come un’evasione dalle servitù congiunte del lavoro e dei legami familiari, diventa anch’esso un altro impegno morale, un’ennesima responsabilità di cui farsi carico. Un giorno, mentre è in spiaggia, alcuni bambini chiedono ad Ada di giocare con loro: lei capisce che agli occhi del mondo è ancora una ragazzina e che non c’è più tempo di aspettare il desiderio del matrimonio per sposarsi. Malgrado l’amore le mostri la sua faccia brutale e persino quella fatua e meschina, Ada si riconcilia alla svelta con le ostilità, sempre sbagliate nel loro bersaglio, degli uomini. Al matrimonio non chiede che di diventare vecchia, passiva e un po’ vaga nelle sue aspettative. Gli uomini, benché troppo precipitosi (il militare Athos) o troppo irresoluti (Aldo, il fratello di Lina), vanno perdonati fino alla fine, accettati come sono. Prima di sposare un soldato semianalfabeta, che per firmare ha bisogno che gli si guidi la mano, Ada si sente attratta da Duilio, l’operaio dello zuccherificio infortunatosi a una mano e al quale lei regge la scatola dei fiammiferi per consentirgli di accendersi la sigaretta. Luigi, il marito, le muore quasi subito, dopo averla resa madre di una bambina il cui nome, Anna – racchiuso, come Ada, tra vocali uguali – prefigura un destino analogo. La bambina infatti manifesta la stessa precocità della madre (“La bimba per fortuna cresceva bene. Era precoce, aveva cominciato a parlare a cinque mesi; a un anno, camminava già”) e la stessa avventatezza foriera di incidenti (“Gettò un urlo di spavento perché la bimba le era scappata sulla strada mentre passava una macchina. Corse a riprenderla”). La storia di Ada, come quella dell’Italia, si ripete identica a se stessa.
Marco Cavalli

“Célestine” by Iano
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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 25 – Dicembre 2015.
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