CÉLESTINE | Diario di una cameriera | Un romanzo di Octave Mirbeau (Ed. Elliot, 2015)

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Diario di una cameriera | Un romanzo di Octave Mirbeau (Ed. Elliot, 2015)

 

Ah, i borghesi! Che eterna commedia!

 

di Massimiliano Sardina

 

Quella della femme de chambre è una figura particolarmente abusata nella letteratura, specie nella seconda metà dell’Ottocento, in quel problematico e delicato frangente di passaggio tra i rigori conservatori dell’accademia e i fermenti innovatori dell’avanguardia. La servitù domestica incarna un’umanità altra, un ibrido tra popolo (dal quale proviene) e borghesia (per la quale lavora): un punto d’osservazione privilegiato, assolutamente ideale per cogliere quella che Mirbeau chiamava «tutta la tristezza e la comicità della condizione umana.» La relazione tra schiavo e padrone è vecchia come il mondo, ricalca l’archetipo preda e predatore, quella legge incontrovertibile che condanna il più debole nelle grinfie del più forte. Nel XIX secolo il domestico, e più ancora la domestica (la cameriera, l’inserviente, la serva, la sguattera, la donna delle pulizie o talvolta più semplicemente “la donna”) occupa il gradino più basso nella gerarchia sociale, l’ultimo gradino della rispettabilità, immediatamente dopo viene la prostituta; si consideri che fino ai primi anni ’50 del ‘900, una donna di servizio poteva “riscattarsi” nella maggioranza dei casi solo attraverso il matrimonio, unica alternativa alla strada o a una vita di stenti. Subalterni e sottomessi a servizio dei potenti ce ne erano ai tempi dei faraoni come ce ne sono oggi, – il presente non è che una riproposizione in salsa tecnologica del passato – certo non li chiamiamo più schiavi, ma la sostanza è rimasta pressoché la stessa, è solo cambiata la forma.

Nel tratteggiare la figura di Célestine, una giovane e bella cameriera d’origine bretone, Mirbeau offre un impietoso spaccato del suo tempo che è il tempo di oggi e che sarà il tempo di domani. Célestine però è tutt’altro che lo stereotipo della cameriera docile e sottomessa, è una donna (per il suo tempo, come per quello attuale) assolutamente moderna, libera, spregiudicata. Utilizzando una diffusa convenzione narrativa – adottata per potenziare l’effetto naturalista ma anche per prendere le distanze dalle contraddizioni del personaggio – l’autore si dichiara in sede di premessa un semplice revisore del diario di Célestine R***, anzi perfino riluttante se mettervi mano o meno. «Fui pregato di rivederne il manoscritto, di correggerlo, di riscriverne alcune parti. Prima rifiutai, pensando, non senza motivo, che così com’erano, nel loro disordine, queste memorie avevano un’originalità, un sapore speciale, e che “mettendovi del mio” non avrei fatto che renderle banali.» Il personaggio consegna la sua storia (sotto forma di diario intimo) all’autore, più avvezzo nelle belle lettere, non per farne un romanzo ma unicamente con la preghiera di rifinirne la forma. «Facendo il lavoro che lei mi aveva chiesto, cioè aggiungendo qua e là qualche parola al libro, ho una gran paura di averne alterato la grazia un po’ mordace, di averne diminuito la forza triste, e soprattutto di aver rimpiazzato, con della banale letteratura, ciò che in quelle pagine era emozione e vita.»

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Già nel 1880 Èmile Zola aveva decretato la morte dell’uomo metafisico, e proclamato il romanzo naturalista come il solo capace di restituire la “verità” della realtà. Lo stile del Journal ammicca a quello del documento d’inchiesta, ma Mirbeau – in ossequio alle tinte forti, ai viraggi violenti e ai segni audaci e sintetici della poetica espressionista – spinge il vero fino al caricaturale e al grottesco. Il romanzo rivela indubitabili punti di contatto con Quel che bolle in pentola di Zola (del 1882) che, con forti accenti antiborghesi, aveva raccontato anche il dissidio tra servitù e padroni. Le Journal d’une femme de chambre uscì in feuilleton su “L’Écho de Paris” e “La Revue Blanche” tra 1891 e 1892; apparve per la prima volta su volume unitario nel 1900 (edito da Fasqelle)), a un anno di distanza da Il giardino dei supplizi. In letteratura come in pittura si era diffusa già dalla metà dell’Ottocento la scuola di pensiero del Realismo, un’analisi tematica ed estetica calata a capofitto nella realtà, e attenta in particolar modo al mondo degli umili e ai ceti più popolari. Il diktat accademico che solo l’aristocratico (o il borghese) può assurgere a soggetto dignitoso di un’opera letteraria o pittorica viene progressivamente infranto dai nuovi propositi realisti; si pensi ai soggetti popolari protagonisti delle tele di Gustave Courbet, il pittore che diede avvio alla tendenza realista nella Francia di metà Ottocento (nonché il primo a usare il termine “Realismo”). Quando Mirbeau, all’inizio dell’ultima decade dell’Ottocento, assegna a Célestine il ruolo di protagonista del suo romanzo aderisce certo a una tendenza già consolidata, anche se non ancora completamente digerita da critica e pubblico. Un subalterno che spodesta il capo dalla centralità del racconto, una comparsa che si ritaglia dallo sfondo e si arroga il primo piano, la luce di una candela di sego che mette in ombra lo sfavillio di un lampadario di cristallo: in Célestine tutto è portato all’estremo, e il capovolgimento si celebra con dissacrante irriverenza.

In Mirbeau l’approccio naturalistico si fa sfrontato realismo, una diagnosi sboccata dei risvolti più laidi del tessuto sociale, senza censure, anzi insistendo proprio laddove altri se la sarebbero svignata in dissolvenza; per “eccesso di verità” i personaggi mirbelliani appaiono talvolta grotteschi, iperreali, ma sempre spaventosamente umani, ordinari pur nell’eccezionalità. Così è Célestine. Dal Journal emerge un campionario umano mostruoso, un esercito di prevaricatori e di opportunisti, un’orda criminosa di piccoli e grandi delinquenti, un teatrino dell’immondo popolato di maschere deformi, nel gioco crudele innescato da chi gioisce su chi subisce. I contrasti però sono tutt’altro che prevedibili: nessun moralismo spicciolo sul ricco che soverchia il povero; Mirbeau sa bene che la questione è molto più complessa e controversa, e che nell’umanità non si danno mai divisioni così nette. Nel Journal tra buoni e cattivi non c’è una separazione netta. Le vittime, appena possono, appena le circostanze lo rendono possibile, non esitano a vestire i panni dei carnefici (anzi lo fanno con maggiore irruenza); nessuno scrupolo, nessun rimpianto, nessun senso di colpa, solo il perseguimento d’una soddisfazione, d’un appetito, di un capriccio. Célestine non è  migliore delle sue padrone, di quelle fredde nobildonne cui è costretta a far da serva (costretta dal suo destino, dalla sua condizione). Se si trovasse al loro posto agirebbe allo stesso modo, con le stesse metodiche e lo stesso stile. Quando c’è da incassare un’umiliazione Célestine la incassa, ma con lo stesso tempismo riesce talvolta a regalarsi anche le sue piccole vendette, in ossequio a quell’insindacabile legge degli equilibri che governa ogni società.

Mirbeau usa Célestine come una vanga per disseppellire le cadavre exquis della borghesia. Chi meglio di una femme de chambre conosce tutto il lercio e tutto il marcio che i nobili s’illudono di nascondere sotto il belletto? «Come una cagna fiuta nel vento l’odore lontano della selvaggina» così Célestine, sotto il decoro e l’apparenza sontuosa, sente subito «la vita disordinata, i legami rotti, l’intrigo, la fretta, la febbre di vivere, la sporcizia intima e nascosta.» Nello spogliatoio di una gran signora – slacciati i busti, scivolati i pizzi, le sete e i merletti, esalati i profumi e soffiate via le ciprie – non c’è che una donna, un corpo nudo, indifeso. La femme de chambre si fa depositaria di questa visione, di questa svestizione, e può così contemplare (non senza un morboso compiacimento) tutto quel che di sfatto, di vizzo e di sgraziato la nobildonna si premura di celare al mondo. Célestine ha accesso alla verità, e il passe-partout che spalanca i camerini della borghesia per carpirne i segreti più inconfessabili, le debolezze e le bassezze. Di padrone ne ha avute tante, ciascuna con le sue fisime e con un grado di crudeltà variabile. Tutte sprezzanti, dispettose, indisponenti, umorali, impettite in una smorfiosa alterigia, e cattive, profondamente cattive. Célestine china la testa, porge l’altra guancia per convenienza, fino a che regge la sua soglia di sopportazione. Poi ci sono i mariti di queste signore, i padroni maschi, che il più delle volte si sentono legittimati all’avance sessuale: il corpo domestico come proprietà, un bene mobile su cui è lecito accampar diritti (in taluni casi la servitù conta meno dell’animale da compagnia).

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Lo smascheramento della borghesia non trascina alcuno strascico moralistico: per Mirbeau il succube è parimenti colpevole, parimenti biasimabile (sono ingranaggi, unti, dello stesso meccanismo). Nel Journal non c’è alcun intento di tratteggiare una lotta di classe: il respiro che agita le righe è disincantato, anarchico, d’un pessimismo stemperato nel realismo e mitigato da certa sottile ironia. La grandezza di Mirbeau sta nell’esasperazione credibile della realtà, nel lampo espressionista che insieme fulmina e illumina la visione per restituirla in tutta la sua limpida crudezza. Célestine scrive il suo diario a Mesnil-Roy, in Normandia, dove presta servizio nel podere dei Lanlaire. Il testo si muove in due tempi: quello che descrive gli eventi che si susseguono giorno per giorno presso i Lanlaire, e quello del ricordo, dove Célestine rievoca le esperienze con i precedenti padroni «… posso vantarmi d’averne viste di case e di facce e di anime sporche». Le Journal si apre con un doppio avvertimento: uno dell’autore del romanzo e uno dell’autrice del diario. Nella dedica al giornalista e scrittore Jules Huret, fine conoscitore delle “maschere umane”, Mirbeau definisce Le Journal d’une femme de chambre «un libro privo di ipocrisie». Nella premessa, come abbiamo già riportato, Mirbeau si fa scudo del suo personaggio per eludere a priori gli attacchi dei critici e dei “nobili”. A rincarar la dose ci pensa Célestine quando afferma «… voglio avvertire chi mi vorrà leggere che, scrivendo questo diario, non intendo usare la benché minima reticenza, né nei miei confronti, né verso gli altri.» Ne ha per tutti come ne ha per se stessa: non si sottrae, e se getta fango sugli altri non lo fa per rendersi più splendente. C’è filosofia nelle sue parole, e finanche saggezza.

Figlia di un pescatore (morto annegato) e di una prostituta alcolizzata, Célestine cresce nel degrado e nella miseria. All’età di soli dodici anni si concede sessualmente a un vecchio per un’arancia. Célestine non rievoca l’evento come un abuso, ma come un’esperienza vissuta con partecipe consapevolezza (sapeva il fatto suo fin da bambina, mai un velo di rimorso, mai un accenno di vittimismo). Lascerà presto il paesello natio (e la madre violenta) per entrare a servizio di questa e di quell’altra famiglia borghese. Quando, da adulta, riceverà la notizia della morte della madre piangerà a dirotto «… Anche se non ho mai ricevuto altro che botte da lei, ne sono stata profondamente addolorata, e ho pianto e pianto e pianto.» Anche in Dans le ciel il protagonista piange per la morte dei genitori cattivi. Célestine è consapevole fin da bambina della sua dualità, di quell’inclinazione ingenua e candida verso il vizio e la depravazione, il tutto accompagnato da una cinica e calcolata naturalezza, senza eccessi, con estrema prudenza. Si spiega così, nelle pieghe speculari delle sue contraddizioni, anche il rapporto con la religiosità. Mossa da una «eccessiva fantasia, esagerata e romantica» Célestine sa mimetizzarsi sullo sfondo ma vive la sua vita da assoluta protagonista. La sentiamo sincera quando ammette: «Non ho istruzione, e scrivo ciò che penso e ciò che ho visto.» La stessa sincerità di quando, tagliando corto con l’autoanalisi, conclude: «… io non so che cosa cerco e non so chi sono io.» Ha dalla sua un’intermittente impulsività, un sadico autolesionismo: «In certi momenti sento in me come un bisogno, una frenesia di insultare qualcuno…» Prova disgusto per le padrone crudeli e sgarbate, fuggirebbe volentieri dal fetore nauseabondo di certe lerce madame, e si sente più affine alla vera gente elegante del bel mondo, gente avvezza al bello, alle raffinatezze del galateo e alla lettura dei romanzi di Paul Bourget (la sua modernità è sempre stemperata dalla sua provincialità).

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Difficile inquadrare un personaggio come Célestine, difficile affezionarcisi, difficile provare empatia per la sua vita sventurata, ma in un qualche modo Mirbeau riesce a farcela amare, pur se con moderato trasporto. Più scorrono le pagine del Journal e più Célestine si mette a nudo, nel bene e nel male, senza vergogna. Dichiara di non aver visto che denaro sporco e ricchi cattivi, ma non si fa problemi ad affermare che «… appena sono al cospetto di un ricco, non posso fare a meno di considerarlo un essere eccezionale e bello.» L’archetipo della padrona odiosa è incarnato da Euphrasie Lanlaire, moglie del più mite Isidore. La “nobile signora” sovrintende ogni centimetro della tenuta trattando i subalterni dall’alto in basso, con spiccata autorità, un raro concentrato di frustrazione, cattiveria, avarizia e disumanità; si sarebbe tentati di ravvisare in Célestine un suo contraltare, ma non siamo in un romanzo di Dickens, qui serva e padrona s’assomigliano sotto diversi aspetti. Un capitolo a parte meritano gli uomini (servi o padroni) cui Célestine si è concessa «per amore o piacere, debolezza o pietà, vanità o interesse.» Dell’amore Célestine ha una visione disincantata, ma al contempo femminile e infantile; lo identifica con la passione divorante e distruttrice e lo priva d’ogni anelito sul piano squisitamente morale (lo stesso sentimento, tanto basso quanto totalizzante, caratterizza il suo rapporto grottesco con la religione). Nell’amore Célestine non crede ma vuole crederci. Non ne ha avuto né dalla famiglia e né dalla società, ma sa che cos’è e sa constatarne l’assenza in tutti i contesti in cui si trova a interagire. «Sono passata per molti ambienti borghesi e nobili, e raramente ho visto l’amore accompagnato da un sentimento eletto, da una tenerezza profonda, da un ideale di sofferenza, di sacrificio o di pietà, ovvero di tutto ciò che fa dell’amore una cosa grande e santa.» Célestine non è la verginella in attesa del suo principe, non ha di queste velleità; nell’uomo (padrone o servo che sia) ama e ammira il canagliesco, il brutale, il criminoso. «Fui colpita dalla sua allegria rozza, la sua volgarità, la sua grossolana oscenità.» Così la sua sessualità, spinta, feticistica, pericolosa (certe derive della sua libido a tratti sembrano quasi consegnarla a Sade). È capace di lucida autoanalisi quando ammette che «l’idea della morte, la presenza della morte al letto della lussuria sia una tremenda, una misteriosa eccitazione al piacere.» Esemplare al riguardo è la relazione col giovanetto moribondo Monsieur Georges. «Deliberatamente sacrificavo la sua vita e la mia. Con un’esaltazione aspra e feroce che decuplicava l’intensità dello spasimo, io aspiravo, bevevo tutta la morte dalla sua bocca e mi imbrattavo le labbra del suo veleno.»

Ma Célestine è capace di spingersi ben oltre, e questo oltre è incarnato da Joseph, il tuttofare dei Lanlaire. Célestine se ne innamora perdutamente, e la sua fascinazione è accresciuta dal sospetto che quest’uomo sia un criminale della peggio specie; lo sospetta colpevole di un delitto tremendo – lo stupro e l’assassinio di una bambina – e questo non fa che accrescere la sua attrazione. Nel suo sembiante scorge le fattezze di un temibile idolo indiano «di una bellezza orrenda e malefica», intravisto tempo addietro nel salotto di una contessa. Agli occhi di Célestine Joseph è il trait d’union tra purezza e ferocia, tra bellezza e orrore, tra salvezza e perdizione. La passione è reciproca. Joseph intravede in lei la possibilità di cambiar vita, di smettere di star a servizio e, con i soldi risparmiati nel corso degli anni, sogna di aprire un caffè sul porto di Cherbourg. Nella Célestine dietro al bancone sembra echeggiare la barista dipinta da Manet nel 1882 ne Un bar aux Folies Bergère. Il quadretto alla fine si comporrà. L’insegna del caffè recherà la scritta “All’esercito francese!”, «luogo d’incontro ufficiale degli antisemiti più importanti e dei patrioti più ardenti della città.» Joseph è un acceso antisemita. Nella sua stanza sono appesi i ritratti di Déroulède e del generale Mercier accanto a immagini sacre. Célestine fruga dappertutto per trovare una prova che lo leghi al delitto della bambina, ma non trova nulla (la prova definitiva la leggerà in uno sguardo lanciatole da Joseph, e questo le basterà). Naturalmente anche Célestine è antisemita, anche se non sa spiegare il perché. Come coppia non fanno una piega. Acquisiti i mezzi economici dei più abbienti anche i poveri diventano “come i nobili”, ne arrivano a ricalcare esattamente gli stessi vizi e comportamenti. Dell’umanità – ma sarebbe più esatto dire della società – non ne esce un bel ritratto; più che una visione aprioristicamente pessimistica Mirbeau restituisce una diagnosi impietosa della società gerarchicamente strutturata (quella della Belle Époque come quella di qualsiasi altra epoca). Célestine fa da lente d’ingrandimento e da latte struccante, è il fonendoscopio che ausculta il battito irregolare e febbricitante del ceto dominante, è la cimice di una spia, la serpe in seno che aspetta solo il momento più opportuno per mordere e fuggire (e Joseph, l’ambiguo Joseph, è esattamente come lei, o almeno così dice di essere).

La coppia diabolica – dopo anni e anni di servile assoggettamento verso dispotici e  sprezzanti padroni – alla fine riesce a compiere la grande falcata e a salire, se non in cima, a un gradino sufficientemente superiore, quel tanto che basta a riscattarsi, a rifarsi del maltolto, a fregiarsi di una qualche dignità sociale. I poveri non sono meglio dei ricchi, anzi l’aver subìto li renderà poi più accaniti, più efficienti nell’esercizio della malvagità. Terra di mezzo tra servi e padroni è l’agenzia di collocamento di Madame Paulhat-Durand, un vero e proprio mercato di carne umana allestito per soddisfare le voracità borghesi. «Noi andavamo là ogni mattina e ogni pomeriggio, in massa, cuoche e cameriere, giardinieri e valletti, cocchieri e maggiordomi, e passavamo il tempo a raccontarci le nostre disgrazie, a parlar male dei padroni, a desiderare posti straordinari, incantevoli, liberatori.» Nelle ultime pagine del Journal Célestine compie gli ultimi passi della sua discesa agli inferi, e si consegna letteralmente nelle mani del suo idolo nefando. «…Sento che farò sempre tutto quello che vorrà e che andrò sempre dove mi dirà di andare… fino al delitto!» Una decisione calcolata, egoistica, mossa sì da un’oscura passione ma vagliata con prudenza. È in ossequio a questa sua latente prudenza che non si è mai prostituita, non certo per scrupolo morale; la paura l’ha confinata fin da ragazzina nel ruolo di femme de chambre, una condizione per molti aspetti certo scomoda e degradante, ma anche vantaggiosa (non tutte le padrone erano cattive, e in certe case Célestine ha fatto anche la bella vita).

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Le contraddizioni e i limiti di Célestine sono anche quelli di una provinciale, che tale rimarrà anche nella moderna e spregiudicata Parigi della Belle Époque. In Le Journal d’une femme de chambre si respira un clima presago. L’assetto sociale appare già destabilizzato, equidistante tra la grande aristocrazia del passato e la piccola borghesia del futuro (e non occorre sottolineare l’approssimarsi del primo grande conflitto bellico). Vero è che il Journal uscì in volume otto anni dopo la pubblicazione su rivista, ma i semi di “quel che sarebbe stato” c’erano già tutti, in particolare l’antisemitismo dilagante. Nel personaggio di Joseph c’è già il nazista tout court. «… Quando parla degli ebrei, i suoi occhi hanno dei bagliori sinistri e i suoi gesti si fanno sanguinari.» Alla sua uscita il Journal suscitò grande scandalo (gli ingredienti c’erano proprio tutti, compresi i riferimenti all’Affare Dreyfus). La denuncia di Mirbeau smonta l’apparato effimero che imbelletta la società civile e ne mette a nudo la struttura interna,  con tutte le sue inaccettabili forme di schiavitù. Non mancano, com’è tradizione di Mirbeau, le velenose imbeccate ai preti e, più in generale, alla religiosità istituzionalizzata. Su tutto però si impone la figura fortemente anticonvenzionale e biunivoca di Célestine, libera di trarre piacere tanto dal sesso quanto dal crimine, libera di assoggettarsi e di assoggettare, ma soprattutto libera attraverso la scrittura, libera di sputtanarsi e di sputtanare, libera di confessare il vero e libera di mentire.

Un grande romanzo. Uno dei più tradotti e regolarmente ristampati nella storia della letteratura mondiale, segno anche della sua intramontabile modernità (conosciuto in Italia anche come Memorie di una cameriera e Memorie licenziose di una cameriera), e certo l’opera più conosciuta di Mirbeau dal grande pubblico. Meritano menzione le versioni cinematografiche di Jean Renoir (1946), Luis Buñuel (1964) e la più recente (2015) con la regia di Benoît Jacquot. Ora Diario di una cameriera torna nelle librerie italiane con una bella edizione curata dalla casa editrice romana Elliot, con la buona traduzione di Laura Moscardini (che per la Elliot aveva già tradotto la prefazione di Mirbeau al romanzo Marie-Claire di Marguerite Audoux). La carica eversiva del Journal, a distanza di ben oltre un secolo, è rimasta pressoché intatta, come immutata in ogni sua sfumatura è la società dei servi e dei padroni. Anche Célestine si fa fatica a consegnarla al 1900, tanto è attuale se non avveniristica la sua emancipazione dai modelli vigenti di femminilità: lei lo dice chiaro e tondo che vuole un carnefice e non un principe.

Massimiliano Sardina


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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 25 – Dicembre 2015.

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