LOREDANA | Traslocando. È andata così. | La delirante autobiografia della Bertè

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Traslocando. È andata così. | La delirante autobiografia della Bertè

di Maria Dente Attanasio

 

Che la Bertè sia uscita di senno è cosa nota, ma fino a che punto si sia potuto spingere il suo reiterato e trito delirio lo dimostra a chiare lettere questo libretto imbarazzante (uno sfogo sbobinato e rielaborato per Rizzoli da Malcom Pagani), buono solo a intrattenere le solite quattro checche avvelenate e non certo a veicolare un profilo positivo e credibile dell’artista e della persona. Pruriginoso, sboccato, volgare, gossipparo, sensazionalistico, fintamente introspettivo, pateticamente autoreferenziale, egoico, ma soprattutto falso, menzognero e paradossale: è il tipico prodotto che certa bieca e sciacalla editoria cerca di confezionare sulla pelle di chi non ha più niente da perdere, soprattutto la dignità (davvero una caduta di stile per Rizzoli). Il solo fatto che questo libro sia stato pubblicato è la dimostrazione di quanta terra bruciata intorno si sia fatta la Bertè, di quanto oggi sia sola, mal consigliata e mal accompagnata.

Il sottotitolo È andata così non spiega le ragioni reali del perché sia “andata così”. Per la Bertè è sempre e comunque colpa degli altri. Forse perché deve aver sentito da qualche parte che “essere contro” fa rock e fa figo, fa tanto di sinistra, fa tanto Fidel e Che Guevara, fa tanto “Il Manifesto” e cose così. Peccato però che abbia condotto una vita tutt’altro che di sinistra, legandosi a sportivi di successo e frequentando salotti, case bianche e festival di Sanremo. Dalla metà degli anni Ottanta la Bertè ha gestito la sua carriera in modo discontinuo e superficiale, inanellando insuccessi e vendendo sempre meno dischi; stesso discorso per quel che concerne le esibizioni dal vivo, altrettanto sporadiche, improvvisate, quasi sempre in contesti di modesta capienza. Naturalmente anche questo è colpa degli altri, dei musicisti, dei discografici, degli autori, dei produttori, mai comunque della diretta interessata, la grande artista incompresa che, parole sue, ha “litigato con la vita”. Gli aspetti più ridicoli e paradossali del libro sono la favola dell’amicizia con Andy Warhol (che nella realtà deve averle stretto la mano di sfuggita in qualche corridoio), poi Michael Jackson che nientemeno la manda a prendere in Limousine e le regala i suoi vestiti, Jimi Hendrix con cui va a braccetto per Roma, Fidel Castro che su suo consiglio si abbona a “Il Manifesto”, fino a Bin Laden che passeggia in casa Bush (naturalmente in presenza di Loredana).

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La nota più dolente è l’ingratitudine (dichiarata e compiaciuta) che riserva a chi l’ha sopportata e voluta bene disinteressatamente per una vita: Aida Cooper in primis (che liquida con sufficienza in poche righe), ma soprattutto Renato Zero. Quello che la Bertè si guarda bene dal confessare sono le inadempienze verso i musicisti, gli insulti a destra e a manca, i concerti annullati per capricci da diva con il pubblico lasciato lì in piedi ad aspettare, le crisi isteriche in sala prove e negli alberghi, le canzoni mediocri penalizzate da arrangiamenti tutti uguali, le accoppiate opportuniste con Gigi D’Alessio e Ivana Spagna pur di imbucarsi a Sanremo, le pretese, le offese, il non rispetto per il lavoro degli altri, e in generale il dispotismo caratteriale. Terribile l’espressione ricorrente “rotto in culo” che riserva a questo o a quell’altro, proprio lei che di “rotti in culo” ne ha sempre avuta piena la platea. Il privilegio d’aver avuto accanto un cantautore immenso come Renato Zero – che nell’album Traslocando del 1982 le aveva regalato la bellissima Una, in Lorinedita del 1983 Al mercato dell’usato, in BabyBertè del 2005 Deliri a 45 giri, e come produttore su etichetta Zerolandia Amici non ne ho (1994) – non si è tradotto in una crescita né sul piano professionale né su quello umano; che nei confronti di Zero la Bertè sia divorata dall’invidia è palese, e le parole che usa nei suoi confronti in questo libro sono vergognose e diffamatorie. Fuor che per se stessa, dicevamo, la Bertè ne ha per tutti: per il padre che (a suo dire) si masturbava davanti al suo letto di bambina (e che nel maggio 1995 avrebbe ammazzato di botte la povera Mia Martini nell’appartamento di Cardano al Campo); per la madre che la dava a tutti, per il tennista Borg che strafatto di droga si faceva sodomizzare a sangue (dagli efebi!)… più o meno cosucce su questi toni.

Di musica, al di là di aneddoti trascurabili, Loredana parla poco. Si limita a sminuire gli autori che hanno scritto per lei, definendosi autrice di tutte le sue canzoni, adducendone i contenuti autobiografici. Nel suo complesso un’operazione triste, per certi versi anche furba, ma c’è da credere che le si ritorcerà come un boomerang. Meglio farebbero le lettrici malcapitate a leggersi l’autobiografia del cantante Scialpi, uscita pochi mesi fa per Piemme (e da me recensita su Amedit), un racconto coraggioso e sincero, maturo, che non solo offre una preziosa e obiettiva panoramica sul mondo musicale di quegli anni, ma che coglie l’occasione anche per denunciare attivamente l’assenza in Italia di determinati diritti civili.

Maria Dente Attanasio


Cover Amedit n. 25 - Dicembre 2015 "Célestine" by Iano

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Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 25 – Dicembre 2015

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3 Comments

  1. Gentile Sig.a Attanasio, si capisce lontano un miglio che lei è un “tantino” prevenuta nei confronti della Bertè, però da qui a scrivere cose non vere (” Andy Warhol che nella realtà deve averle stretto la mano di sfuggita in qualche corridoi”) dovrebbe pensarci un attimo. Warhol infatti girò, per la Bertè, il videoclip ” Movie ” e poi le fece lo scatto della copertina dell’album “Jazz”. Ed effettivamente, a New York, la Bertè ha frequentato il maestro della Pop-art. Poi che ci fosse in confidenza è da verificare, ma che ci avesse collaborato è fuor di dubbio. Capisco che il libro sia molto schietto e duro ma credo che le cose vadano riportate correttamente.

  2. Il video per Movie è opera di Don Munroe, non di Warhol, la foto sulla copertina di Made in Italy è di Christopher Makos. Il fatto che la foto su “Jazz” del 1983 (scattata anni prima nella stessa sessione fotografica) sia attribuita al solo Makos senza alcun riferimento al Warhol Studio lascia pensare che il coinvolgimento di A.W. sia stato limitato o nullo.

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