NATALE: Storia di una festa universale | Una rilettura laica

natale_laico_riti_pagani (5)di Giuseppe Maggiore

Cosa festeggiamo realmente a Natale? In che modo hanno avuto origine molte delle usanze legate a questa ricorrenza? E soprattutto: chi oggi può celebrare il Natale? Per rispondere, partiamo dal dato, ormai noto, secondo cui il ciclo di festività che va da Natale a Capodanno, così come lo conosciamo oggi, convogli e riproponga sotto una nuova luce molte delle usanze sviluppatesi in tempi remotissimi. Le date in cui si svolgono queste feste così come molte loro modalità, trovano piena corrispondenza in ben più antiche celebrazioni cosiddette “pagane”. Per brevità, ci limiteremo a menzionare le tre principali feste dell’antica religione romana che ne rivelano le più evidenti similitudini: i Saturnalia, il Dies Natalis Solis Invicti e le Calende di Gennaio.

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Il ciclo di festività Saturnali si teneva dal 17 al 23 dicembre e venne istituito in ricordo dell’insediamento del dio Saturno nel tempio; queste celebrazioni tendevano a ripristinare una mitica età dell’oro governata dalla giustizia e libera da ogni forma di oppressione. Per questa ragione durante i sette giorni dei Saturnalia aveva luogo un vero e proprio sovvertimento dell’ordine sociale (gli schiavi godevano di un temporaneo stato di libertà), tutto era accompagnato da grande sfarzo e opulenza (con abbondanti banchetti), e da una certa licenziosità (con orge liberatorie), ma il tutto avveniva anche in un clima di comunione e di reciprocità (accompagnato dall’uso di scambiarsi dei doni augurali detti “strenne”). Altro elemento caratterizzante di queste feste era l’elezione del Princeps, ovvero di un fantomatico re che presiedeva alle celebrazioni, vestito con abiti dai colori sgargianti (con prevalenza del rosso, ritenuto il colore degli dèi) e con il volto coperto da una maschera. Questo Princeps rappresentava al contempo il dio Saturno, personificazione dei cicli della natura, protettore dei campi e dei raccolti e custode delle anime dei defunti.

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Ai Saturnalia seguiva la festa del Dies Natalis Solis Invicti, celebrata il 25 dicembre. Questa ricorrenza derivava dal culto orientale del Sol Invictus (raffigurato nelle sembianze di un giovane imberbe con il capo cinto da un’aureola a raggiera). Riguardo a questo culto, il vescovo Epifanio di Salamina, vissuto in Palestina nel IV secolo, riferisce di una festa pagana tributata al dio Aîon generato dalla Vergine Kore che nelle città d’Arabia e d’Egitto celebrava il trionfo della luce sulle tenebre. Tale culto venne introdotto a Roma dall’imperatore Eliogabalo (morto nel 222), ma fu consolidato e ufficializzato nel 274 dall’imperatore Aureliano, il quale intese con ciò creare un forte elemento di coesione tra le varie regioni dell’impero, ove già si celebrava ampiamente il culto del dio Sole. Egli scelse il 25 dicembre (ritenuto il giorno del solstizio d’inverno, in cui il Sole sembra appunto rinascere), per la dedicazione del tempio al Sol Invictus nella città di Roma, e con ciò ne istituì la festa estesa a tutto l’impero.

Ma al 25 dicembre (giorno associato al Natale del Sole), convergono molte narrazioni relative a personaggi divini che nell’antichità hanno goduto di una grande venerazione da parte dell’uomo. In questo giorno sono nati: il dio egizio Horus (raffigurato sul grembo della madre Iside, con il capo sormontato da una corona solare); il dio Mithra (secondo una delle leggende, partorito in una grotta da una vergine e soprannominato dai suoi dodici discepoli “il Salvatore”); le due divinità babilonesi Tammuz (incarnazione del Sole, raffigurato con un’aureola di dodici stelle, in grembo alla madre Ishtar, e che risorge dopo tre giorni dalla morte) e Shamas (onnipresente dio del Sole, che tutto scruta: presente, passato e futuro). Per finire, solo nel IV secolo abbiamo – grazie al Chronographus anni 354 redatto da Furio Dionisio Filocalo – la prima menzione ufficiale del 25 dicembre associato alla nascita di Gesù (personaggio ritenuto dai seguaci del Cristianesimo il Dio fatto uomo).

 

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Il ciclo dei festeggiamenti proseguiva quindi con le Calende di Gennaio, che coincidevano con l’elezione dei nuovi consoli romani (il 1° gennaio) e a cui seguivano almeno tre giorni di festeggiamenti. Queste feste ci vengono descritte dal racconto che ne fa il sofista greco Libanio (IV secolo): «La festa delle Calende viene celebrata ovunque entro i confini dell’impero romano. (…) Ovunque si vedono bicchieri e tavole imbandite; nelle case dei ricchi regna una lussuosa abbondanza, ma anche in quelle dei poveri il cibo è migliore del solito. Ognuno è preso dall’impulso di spendere denaro. Chi per l’intero anno aveva preferito risparmiare, si dà improvvisamente a spese spropositate. Chi, fino a quel momento, aveva vissuto in povertà, in occasione di questa festa sperpera ogni suo avere in divertimenti. (…) La gente non è generosa solo con se stessa, ma anche con gli altri. Fiumi di regali a volontà (…). Le strade pullulano di uomini e bestie cariche di regali (…). Come le migliaia di piante in fiore sono l’ornamento della primavera, così queste migliaia di doni sono l’ornamento delle Calende (…)». Secondo il racconto di Libanio, i festeggiamenti iniziavano già dalla vigilia e si protraevano per tutta la notte, tra danze, canti e divertimento. All’alba del 1° gennaio si adornavano le proprie case con fronde di alloro e altre piante sempreverdi (come il vischio, l’edera e l’agrifoglio), le quali erano ritenute piante dai poteri straordinari (in particolare il vischio, che nella tradizione celtica possedeva grandi poteri curativi ed era in grado di allontanare la sfortuna); le feste proseguivano per i primi tre-quattro giorni del mese di gennaio, durante i quali era consuetudine ritrovarsi nelle case per giocare a dadi, padroni e schiavi.

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Questo rapido excursus sugli antecedenti del Natale (che, come abbiamo visto, celebravano la nascita di un dio i cui nomi variano a seconda dei diversi culti e delle diverse epoche), ci consente di rilevare innanzitutto l’elemento ancestrale che identificava la divinità di cui si festeggiava il “compleanno” con il Sole (che appunto in questo periodo sembra man mano rinascere dall’oscurità dei rigori invernali), ma anche interessanti analogie con quanto ancora oggi accade nel corso delle festività di fine anno. Oggi come allora, ciò che caratterizza queste ricorrenze è la convivialità attorno a delle pratiche che esaltano l’abbondanza e il benessere; che richiamano a un clima di comunione fraterna attorno ad abbondanti banchetti e alla profusione di doni (strenne); che riflettono la necessità di dedicarsi ad attività ludiche e di mero divertimento, attraverso giochi, canti e danze. L’antico uso di decorare le case durante le Calende di Gennaio (presso le regioni dell’impero romano) ci richiama a una consuetudine tutt’ora molto praticata, che è quella appunto dei decori natalizi. Ma di queste festività natalizie, sono soprattutto alcuni simboli per antonomasia a rivelare la loro antica ascendenza da pratiche riduttivamente (e spesso in un’accezione negativa) definite “pagane”: pensiamo al “Ceppo” e al più celebre “Albero di Natale”.

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Il Ceppo di Natale è una tradizione (rimasta viva almeno fino agli inizi del XX secolo), la cui più antica attestazione ci riporta nella Germania del XII secolo, e che ebbe ampia diffusione anche in Francia – dove veniva chiamato anche chalendal e calignaou (da Calende) -, Inghilterra, nei paesi dell’Est Europa (Serbia, Croazia), nella penisola iberica (Spagna, Portogallo), nelle regioni del Nord Italia (in particolare Lombardia e Toscana), fino a giungere negli Stati Uniti e in Canada. La vigilia di Natale veniva abbattuto un albero (in genere una quercia o un pino, in taluni casi un albero da frutto) il cui ceppo, solennemente trasportato in casa, veniva posto nel camino e acceso dal capofamiglia.

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L’azione si svolgeva con un particolare cerimoniale, durante il quale il tronco dell’albero, spesso adornato con fiori e nastri colorati, veniva cosparso di grano (o granoturco) e vino, talvolta vi veniva posto sopra anche del denaro e un’arancia; la sua accensione era accompagnata quindi da un brindisi augurale. Il ceppo continuava ad ardere per tutte le notti successive fino all’Epifania e ciò che ne restava veniva accuratamente conservato fino all’anno dopo per l’accensione del nuovo ceppo. A questo singolare Ceppo di Natale venivano attribuite varie proprietà magiche, tanto che il carbone e le stesse ceneri erano utilizzate per vari scopi: ad esempio come rimedio per varie malattie (sia degli uomini che degli animali), come concime nei campi per favorirne il raccolto, o come protezione dai fulmini; si riteneva inoltre che esso potesse favorire anche la fertilità delle donne. Come molti studiosi hanno rilevato (Mannhardt, Frazer, etc.), nelle credenze che rivestono il Ceppo natalizio è possibile riconoscere l’ascendenza dagli antichi culti ancestrali legati al Fuoco Sacro e Perpetuo, in cui il fuoco veniva per l’appunto identificato ora come simbolo della generazione umana ora come simbolo della luce solare; la sua venerazione mirava quindi alla perpetuazione della vita in ogni suo aspetto. L’elemento vegetale presente nel rito (l’albero) e la sacralità di cui è rivestito (tanto da ritenere prodigioso anche il solo contatto con esso), rimandano ancora alle credenze arcaiche sugli spiriti della vegetazione con cui, attraverso l’albero, si desiderava entrare in contatto al fine di ottenerne i poteri vitali di rigenerazione; la sua accensione presso il focolare domestico, infine, richiama alla memoria la convinzione presso i popoli primitivi che gli spiriti degli antenati continuassero a dimorare nel focolare, visto come centro della vita familiare e dimora perpetua dei propri avi. Una chiara derivazione dalla tradizione del Ceppo di Natale finita nei tempi moderni anche sulle nostre tavole è il “Tronchetto di Natale”, dolce tipico francese oggi molto diffuso grazie all’industria dolciaria.

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L’Albero di Natale. Quanto abbiamo visto a proposito del ceppo natalizio, è per molti aspetti valido anche per quest’altro simbolo delle festività di fine anno, ancora più celebre e maggiormente diffuso. Si tratta di una tradizione tipicamente nordica, di cui invano molti studiosi hanno tentato di ricostruire l’esatta genesi, ma che può a buona ragione ritenersi come una variante di tutti quei riti che fin dalla notte dei tempi avevano per protagonisti alberi e piante sempreverdi, quali simboli, come abbiamo già visto, della linfa vitale che resiste alla morte. Esso rappresenta emblematicamente il risveglio della natura dai rigori invernali, celebrando il trionfo della vita sulla morte.

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Storicamente è possibile rintracciare vari antecedenti a questa tradizione tutt’altro che recente, tra cui le già menzionate decorazioni per le Calende romane, di cui rappresenta un’evidente evoluzione, sia sul piano formale che su quello simbolico. Vari studiosi ne hanno tracciato le analogie con gli Alberi del Paradiso (adornati con svariati decori colorati e illuminati da numerose fiaccole simboleggianti le anime) in uso nell’antichità presso vari popoli, nonché con l’Albero cosmico simboleggiante il perno dell’universo e la fonte della vita. Lo studioso tedesco Alexander Tille riallaccia l’albero natalizio all’antica credenza popolare secondo la quale alla vigilia di Natale gli alberi da frutto fiorissero e fruttificassero. In Yule & Christmas, Tille riferisce dell’uso, presso varie popolazioni europee, di portare a casa rami di ciliegio o di biancospino e di metterli in acqua nei primi giorni di dicembre affinché potessero fiorire tra Natale e Capodanno. Per i cristiani, che invano lottarono contro questa tradizione fortemente radicata presso le varie culture, l’albero di Natale acquisirà man mano il significato dell’albero della vita, identificato con Cristo: il 24 dicembre, secondo un’antica tradizione, era il giorno di Adamo ed Eva. Narra la leggenda che Adamo, il giorno che lasciò il paradiso, portò con sé un ramo dell’albero della Conoscenza, da cui prese vita l’albero con cui fu costruita la croce di Cristo (nuovo Adamo). L’albero, quindi, ancora una volta, ebbe così una sua legittimazione simbolica anche all’interno delle pratiche del mondo cattolico. Alberi da frutto, pini e agrifogli, spesso decorati e soprattutto accompagnati dall’elemento luce, sono stati da tempo immemore al centro di azioni rituali tipiche del periodo compreso tra Natale e Capodanno. Così come lo conosciamo oggi, l’albero di Natale è però attestato nella Germania del XVI secolo, dove i suoi rami venivano decorati con mele, noci e fiori di carta dai colori sgargianti; tale tradizione rimase confinata nelle regioni di cultura protestante almeno fino al XVIII secolo. A partire dal XIX secolo, nonostante i ripetuti attacchi da parte della Chiesa Cattolica, per la sua evidente origine pagana, l’usanza dell’albero di Natale vedrà una progressiva diffusione nei vari paesi europei, fino a estendersi a tutto l’Occidente. Oggi è il simbolo per eccellenza delle festività natalizie, in assoluto il più amato e più ricorrente nelle case di milioni di persone al mondo, arrivando a guadagnarsi un proprio spazio persino all’interno delle chiese. Le ragioni di tanta fortunata diffusione appaiono comprensibili, innanzitutto per il suo carattere universale e al contempo aconfessionale rispetto ad altri simboli delle festività natalizie (come ad esempio il presepio), e non ultimo per il grande potere evocativo, il fascino che suscita, e per quella sua peculiarità nel riuscire a stimolare la creatività e la libera inventiva di chi voglia allestirlo secondo un gusto personale.

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Il Presepio. A conclusione di questo excursus facciamo un rapido cenno al Presepio, tradizione tipicamente italiana che nel tempo si è diffusa anche in varie parti del mondo. Si tratta di una ricostruzione plastica dell’evento leggendario della Natività, così come ci viene narrato nei Vangeli di Matteo e di Luca (gli unici a fornirci delle scarne notizie sull’infanzia di Cristo). Ne fu promotore Francesco d’Assisi, che nel 1223 realizzò a Greccio la prima singolare rappresentazione vivente della nascita di Cristo, che consisteva semplicemente in una mangiatoia coperta di paglia posta tra un bue e un asinello (un’essenziale rievocazione in cui non erano presenti né il bambin Gesù, né i suoi due genitori Giuseppe e Maria). Il più antico presepio scultoreo sembra essere opera di un ignoto scultore bolognese della fine del XIII secolo ed è custodito a Bologna presso la Basilica di Santo Stefano. Tra il XVII e il XVIII secolo il Presepio guadagnerà un’ampia diffusione presso la popolazione e parallelamente diventerà anche una vera e propria espressione artistica che vede abili maestranze impegnate nella realizzazione delle varie sculture raffiguranti, non solo i personaggi del racconto biblico, ma anche una nutrita schiera di figuranti tra pastori, contadini, mercanti e animali, lasciando ampio spazio alla fantasia e alla libera inventiva. Sono particolarmente rinomati i maestri presepisti napoletani, ma anche quelli genovesi e bolognesi.

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Nonostante il suo recente sviluppo, anche per il presepio possiamo tuttavia rintracciare un antecedente storico, che in questo caso ci porta al culto dei Lari presso gli antichi romani ed etruschi (secondo una tradizione sopravvissuta fin oltre il XV secolo), riconnettendoci ancora una volta a quello degli avi dimoranti nel focolare domestico. I Lares familiares erano infatti gli antenati che dall’oltretomba continuavano a vegliare sulla famiglia, garantendo protezione e benessere. Nelle case dell’antica Roma c’era un’apposita nicchia atta ad ospitare i propri Lari, raffigurati con delle statuette in cera o in terracotta chiamate sigillum. Il 20 dicembre, in prossimità del solstizio d’inverno, veniva celebrata in loro onore la festa dei Sigillaria che prevedeva lo scambio tra parenti dei sigilla rappresentanti i familiari defunti nel corso dell’anno; queste sacre statuette venivano disposte in tale occasione all’interno di un piccolo recinto entro il quale veniva riprodotto un ambiente bucolico. Dinanzi a questo presepe (da prae, innanzi, e saepes, recinto), la famiglia si radunava rivolgendo delle invocazioni ai propri avi, lasciandovi infine delle ciotole di cibo e vino, che l’indomani sarebbero state trovate dai bambini colme di dolci e giocattoli portatigli in dono dai loro nonni defunti. È interessante notare come in questa antica tradizione coesistano elementi che ci riportano tanto al culto dei defunti quanto alla rappresentazione presepistica, fino a comprendere l’uso dello scambio di doni.

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Una festa per tutti. Un filo rosso, verrebbe quasi da dire un fiocco, unisce riti e simboli delle festività di fine anno dall’antichità fino a oggi. Segno di una continuità che nel tempo, attraverso il rito e la festa, i simboli e le idee, tiene uniti popoli diversi per storia e cultura, ma accomunati dallo stesso sentimento trascendentale capace di travalicare i confini della materia, dell’ordinarietà e delle realtà tangibili. Questo filo rosso rappresenta un prezioso unicum di tradizioni che, muovendo dalla magia, dalla superstizione, dal misticismo ha saputo cogliere, interpretare e dare forma ai sogni, alle paure e alle aspirazioni di uomini d’ogni tempo e d’ogni nazione; tradizioni che reciprocamente si sono influenzate nel corso dei secoli, e che, pur nelle varie trasformazioni che hanno subito, custodiscono l’impronta ancestrale d’un’epoca lontana in cui i confini tra lo spirito e la materia, tra l’uomo e la natura, tra la vita e la morte erano labili al punto da arrivare a fondersi inscindibilmente. Alla fine di questa narrazione ci chiediamo: Può il Natale essere una festa per tutti, a prescindere dalle proprie idee e dal proprio credo-non credo?

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Le celebrazioni natalizie (qualunque nome o significato gli si voglia dare), accomunano da sempre, come abbiamo visto, milioni di persone diversi per storia, cultura e religione; è oltretutto interessante rilevare come questo clima di festa coinvolga con modalità differenti anche molti atei, seguaci del neopaganesimo e areligiosi. Ciò ci porta a considerare queste festività, e i simboli ad esse legati, in una prospettiva più ampia e per certi versi svincolata dai significati dottrinali (vecchi e nuovi) attribuiti da questa o quella professione di fede. Se in passato molte di queste azioni rituali, variamente espresse, scaturirono da un sentimento religioso comune a tutti i popoli della Terra (di una religiosità spontanea, istintiva, priva di tutte quelle speculazioni teologiche che in seguito ne so no state fatte, o dalle quali è stata fagocitata), oggi, nel loro permanere e nell’ampia ed eterogenea adesione di cui godono, possiamo leggervi il bisogno da parte dell’uomo di far festa, di creare dei momenti che abbiano un carattere di eccezionalità, capaci di recuperare un sentimento di comunione, di condivisione, di recupero ed estensione delle relazioni familiari e sociali, e non ultimo di momentanea sospensione dall’ordinarietà di tutti i giorni (con tutte le attività, problematiche e preoccupazioni che spesso comporta). In un’ottica storica e antropologica, il carattere di universalità che possiede il Natale – sebbene oggi abusato dal consumismo sfrenato e dalle logiche di mercato –  lo rende una festa di eccezionale valenza, capace di inglobare molteplici significati e di coinvolgere chiunque voglia lasciarsene travolgere. Si può quindi esaltare il senso e il valore universali di questa festa, anche in una più ampia ottica laica, non necessariamente vincolata a una qualche credenza di tipo religioso. Dunque, a parte il dubbio amletico se sia più buono il pandoro o il panettone: Buone feste a tutti!

Giuseppe Maggiore


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