Agata, ragazza siciliana vissuta nel III secolo, viene celebrata tanto dalla Chiesa Cattolica quanto da quella Ortodossa come santa, vergine e martire ed è certamente una delle eroine cristiane il cui culto gode, da ben diciassette secoli, di una grande estensione e rilevanza. La sua figura, al pari di molte altre che popolano il pantheon cristiano, è avvolta in un’intricata commistione di storia, mito, leggenda e folklore, più volte vivificata dalla rappresentazione artistica e dalla pietà popolare. Catania, città ove, sotto il proconsole romano Quinziano, subì il martirio (5 febbraio 251), la venera come Patrona e concittadina, ed è anche il maggior centro di propulsione del culto a lei tributato. Sulla scia della popolarità e dei molteplici aspetti che caratterizzano la figura e il culto di Sant’Agata, la bibliografia che la riguarda si accresce di anno in anno grazie all’apporto di sempre nuovi e interessanti contributi da parte di studiosi internazionali, in gran parte pubblicati nei preziosi ed eleganti volumi editi dall’EAC (Edizioni Arcidiocesi Catania). Tra questi, fresco di stampa è Sant’Agata. Il reliquiario a busto – Nuovi contributi interdisciplinari, che, come già altri volumi dedicati al busto reliquiario, al tesoro e al sacro sacello che lo custodisce presso la cattedrale di Catania, propone una nuova raccolta di studi dedicati all’iconografia e al culto della martire catanese. Il lavoro, coordinato da Frédéric Tixier dell’Université de Lorraine-Nancy, vede tra gli altri un prezioso contributo del prof. Gianluca Millesoli, ricercatore presso l’Università degli Studi di Siena-Arezzo, che ha per oggetto il Ms. I dell’Archivio del Capitolo della Cattedrale di Catania (ACCCT), un volume per l’Ufficio divino a uso monastico che stando agli studi rappresenta oggi il più antico codice pergamenaceo in latino della Lettera di Maurizio in cui è narrata la traslazione del corpo di Sant’Agata da Costantinopoli alla sua città d’origine.
Per una città come Catania, che ha fatto di Sant’Agata il proprio vessillo e le cui vicende storico-culturali sono fortemente intrecciate al culto sviluppatosi intorno alla sua figura, il documento in questione riveste un inestimabile valore storico e filologico, oltreché letterario, poiché tratta di un avvenimento che fu particolarmente significativo, non solo per aver dato nuovo e maggiore slancio alla devozione verso la Santuzza ma anche per la rinascita della città sotto l’influsso dei Normanni. La vicenda della traslazione del corpo di Sant’Agata si colloca sulla scia delle incursioni saracene che ebbero luogo in Sicilia a partire dalla metà del IX secolo e che culminarono con la definitiva occupazione avvenuta nel 902 nella quale molte comunità cristiane vennero soppresse; l’invasione araba ebbe fine con l’arrivo dei Normanni, i quali, nel 1071, conquistata Bari, avanzarono verso l’isola, riuscendo a conquistare Catania l’anno 1085. Secondo il racconto del vescovo Maurizio, il generale bizantino Giorgio Maniace, non riuscendo a infliggere alle truppe musulmane la totale disfatta nelle battaglie di Troina e Siracusa del 1040, a causa della negligenza del comandante del flotta bizantina Stefano il Calafato, temendo le ire dell’imperatore, decise di portare con sé alcuni corpi santi, da offrirgli in dono al fine di ingraziarselo. Fece dunque ritorno a Costantinopoli con il prezioso bottino che comprendeva, oltre al corpo di santa Lucia da Siracusa, quelli di san Leone e di Sant’Agata, sottratti ai catanesi. L’episodio costituisce uno dei momenti più dolorosi della storia di Catania, in quanto il prestigio della città non si fondava soltanto nell’essere un importante porto di passaggio per l’Oriente, ma anche per il fatto di custodire il corpo della martire Agata. Il trafugamento di sacra corpora da parte del generale Maniace trova senso nel ruolo che le reliquie dei santi rivestivano fin dal medioevo presso le città che le custodivano, nell’ottica di affermazione cittadina e di difesa della propria identità, ma anche nell’uso strumentale a fini politici ancora particolarmente esercitato alla corte di Bisanzio. Il corpo di Sant’Agata rimase a Costantinopoli per ben 86 anni, fino al 1126, quando, secondo la narrazione del vescovo Maurizio, due soldati dell’esercito imperiale, il provenzale Gisliberto e il calabrese Goselmo, lo trafugarono per riportarlo in patria. Giunte ad Acicastello, dopo un lungo viaggio che aveva toccato Smirne, Corinto, Taranto, Messina, le Sacre Reliquie furono consegnate al vescovo Maurizio e portate in processione fino a Catania, accolte dal popolo festante e dalle autorità cittadine.
Nella sua Lettera Maurizio, oltre a verbalizzare l’evento, compone per la chiesa di Catania un Ufficio proprio della Traslazione, con il preciso intento di istituirne l’annuale celebrazione. Di fatto, il ricordo di questo avvenimento è sempre stato tra i più cari al popolo catanese, che ancora oggi celebrano solennemente il 17 agosto di ogni anno la cosiddetta “festa di mezz’agosto”, ricorrenza che sembra addirittura precedere, almeno per quanto riguarda gli aspetti esteriori, quella al giorno d’oggi più importante del 4 e 5 febbraio. Con la inventio memoriae della traslazione, Maurizio persegue un preciso disegno di ideale rifondazione cristiana della città di Catania, grazie ai Normanni finalmente riscattata dalle dominazioni arabe e bizantine, riconnettendola così all’Occidente latino. La rinascita della città sul piano politico, economico, sociale e culturale, passa attraverso un ritorno alle proprie radici cristiane, e in tal senso, tanto l’edificazione della nuova Cattedrale voluta da Agerio con il sostegno del conte Ruggero, quanto il ritorno delle insigni reliquie di Agata, avrebbero contribuito a riaffermare il ruolo e il prestigio della chiesa locale nonché del vescovo-signore della città. L’originale manoscritto della Lettera di Maurizio andò probabilmente perduto sotto le macerie nel terribile terremoto che colpì la Sicilia orientale l’11 gennaio del 1693, causando ingenti danni anche nella città di Catania, tra cui il crollo della Cattedrale ove era custodito. Di questo importante documento non ci sono pervenuti molti testimoni, così come non disponiamo di fonti dirette circa l’evento in esso narrato, tuttavia i vari e autorevoli studiosi che se ne sono occupati in passato (Gaetani, De Grossis, Carrera, l’abate Amico, Scalia) sembrano unanimemente concordare circa la veridicità storica della traslazione e dunque anche sull’autenticità dell’opera del vescovo Maurizio.
L’esemplare della Lettera, fatto oggetto dello studio del prof. Millesoli, è contenuto nel codice cartaceo manoscritto ACCCT, Fondo Principale, n. 55, ossia un volume denominato Liber Prioratus, nel quale sono raccolti vari documenti di diversa datazione relativi alla fondazione, privilegi e diritti legali della Diocesi e della Cattedrale di Catania. Il volume (uno dei rari superstiti del ricchissimo patrimonio librario dell’Archivio Capitolare), si presenta come un codice composito più volte rimaneggiato e riassemblato, le cui singole sezioni hanno datazioni diverse e non sono disposte seguendo un ordine cronologico. Nel suo complesso il codice, ancora troppo poco studiato, è dunque databile solo rispetto alle singole sezioni che lo compongono. La trascrizione della Traslazione delle reliquie di sant’Agata è ospitata ai f. 107r-117v, inserita in un fascicolo di otto bifogli; è vergata da un’unica mano in un’elegante minuscola corsiva di base mercantesca con linee di scrittura a piena pagina. Il racconto della Traslatio è preceduto dalla trascrizione della bolla di re Carlo d’Angiò datata 9 agosto 1268, subito seguita dal transunto del privilegio di Enrico VI alla Chiesa di Catania (1196); da ciò si evince come l’assemblaggio delle varie sezioni, anche all’interno di questo fascicolo, non segua un ordine cronologico. Grazie allo studio condotto dal Millesoli è oggi possibile stabilire per questa trascrizione manoscritta della Traslatio una datazione definitiva, mettendo finalmente la parola fine alla lunga serie di ipotesi circa la sua datazione e la relativa tradizione testuale. Vari studiosi (Naselli, Scalia, Cafà) avevano infatti proposto per il manoscritto in questione una datazione collocabile tra l’XI secolo e gli inizi del XVI secolo. Attraverso un accurato esame della scrittura e degli elementi decorativi (interessanti le analogie messe in luce tra i decori del manoscritto e gli affreschi all’interno del sacello di sant’Agata), Millesoli dimostra invece quanto inesatti e approssimativi siano stati questi pareri, in quanto frutto di un approccio che non ha tenuto sufficiente conto dell’insieme di tutti quegli elementi testuali, grafici e paratestuali di cui il manoscritto è ricco e che risultano davvero rivelatori ai fini di una sua esatta datazione. Dopo il testo della Lettera di Maurizio che narra della Traslazione agatina, il manoscritto prosegue con un Proprio dei Santi ad usum monastico, ed è qui che Millesoli individua ulteriori e più importanti elementi utili a suffragare la sua tesi: l’Ufficio Proprio della Visitazione della Beata Vergine Maria, ad esempio, vi è riportato con relativa Vigilia e Ottava; ciò costituisce di per sé già il primo indizio di un terminus ante quem in quanto, ricorda Millesoli, tale festa nel 1568 era stata privata dal papa Pio V sia dell’Ufficio proprio sia, soprattutto, della Vigilia e dell’Ottava. A conferma di ciò il testo reca a questo punto pure una nota a margine che tiene conto delle nuove indicazioni introdotte dal pontefice, certamente aggiunta dopo il 1568. Un secondo e forse più importante indizio è la presenza dell’Ufficio
proprio di san Francesco di Paola (santo morto nel 1507 e canonizzato nel 1519), ragion per cui, osserva Millesoli, il codice non può essere stato confezionato prima di tale data. Lo studioso può quindi a ragion veduta collocare il manoscritto I dell’Archivio Capitolare di Catania alla seconda metà del XVI secolo, e più precisamente tra il 1519 e il 1568, ciò che ne fa il più antico testimone oggi in nostro possesso sulla Traslazione di Sant’Agata.
Con il suo articolo, Millesoli promuove tra l’altro un nuovo dibattito che potrà coinvolgere diversi filologi, proponendo una tradizione del testo in lingua volgare ben più antica della tradizione latina, tramandata dal manoscritto. L’interessante contributo, pubblicato nel nuovo volume edito dall’EAC, non manca di menzionare anche gli altri testimoni della Lettera di Maurizio pervenutici (tra cui i due esemplari in volgare custoditi rispettivamente alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze e alla Biblioteca Comunale di Palermo), ma soprattutto ripercorre le vicende del Liber Prioratus, passato dalle mani dei monaci benedettini a quelle del clero secolare, compiendo un viaggio che abbraccia un lungo arco temporale, di cui, come conclude Gianluca Millesoli: «…rimane il primo, ma anche l’unico codice strictu sensu, capace di farsi nuovamente mirare, studiare e leggere, per raccontare ancora una volta la storia di Agata che è, in gran parte, la storia di Catania.»
Giuseppe Maggiore

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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 20 – Settembre 2014.
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