(Verdi, Falstaff)
di Giuseppe Benassi
Chi pensi che la letteratura sia tanto più sublime quanto più inutile, troverà nel romanzo “La sinagoga degli iconoclasti” di Rodolfo Wilcock, appena pubblicato da Adelphi, una inconfutabile conferma. È uno splendido ghirigoro sul nulla, un ricamo sul vuoto.
E un delizioso catalogo di demenze eterne: telepatia, abolizione della forza di gravità, invisibilità, pietra filosofale, immortalità, oggetti taumaturgici o apotropaici, anima chimica, pentabiciclette – a cinque ruote -, fotografie di sette lune, etimologie deliranti, inversione della successione temporale, resurrezione dei morti, prove meccaniche dell’esistenza di Dio, evoluzionismi all’incontrario, invenzioni assolutamente inutili – tipo un treno sottomarino -, medicamenti da operetta, astrologia, alchimia, reincarnazioni e preincarnazioni, giri della ruota del karma, teorie della terra cava, misticismi d’oriente e d’occidente. Altre delizie assolute sono: la sceneggiatura del film “Tristano e Isotto”, o l’idea che la filosofia moderna consista nel casuale accostamento di vocaboli che nell’uso corrente raramente vanno accostati, con conseguente deduzione del senso o dei sensi che eventualmente si possono ricavare dall’insieme; per esempio: “La storia é il moto del nulla verso il tempo”, oppure “del tempo verso il nulla”. Heidegger é servito. Oppure la creazione di un ospizio di cretini, descritto come un eden, poiché il cervello e l’intelligenza sono solo una fonte di fastidi, e il modo per raggiungere quel paradiso é abolire ogni contatto col linguaggio. Il libro è strutturato per biografie di personaggi immaginari, mescolati a deficienti reali, illustrazioni di ameni passeggeri di una Nave dei Folli. È un dichiarato omaggio al Flaubert più sarcastico, la trascrizione in romanzo del finale di un’opera buffa, una gargantuesca risata gettata sul mondo, una scarica di fulmini d’intelligenza. Un ironico elogio all’Elogio della follia di Erasmo. Un libro di settecentesca leggerezza. Altre vittime illustri di elegante dileggio sono Wittgenstein, Sartre, il neorealismo italiano, e, forse, Luchino Visconti. Dell’autore, un argentino emigré in Italia, amico di Borges, di certo coltissimo, si sa poco o nulla; ma certo vale per lui l’aforisma di Proust, secondo cui per scrivere cose frivole occorre essere persone serissime.
Ecco un saggio della sua ilare scrittura “A due passi dal cinematografo, il nostro caro lago reso famoso da Byron fa il suo secolare rumoretto di leccate sui sassi, tra cui si aggirano senza nervosismi i nostri pulitissimi pesciolini cantonali (qui assai più magri che a Losanna, é il caso d’osservare)”. Oppure “Premesso che la condizione di cretino é per l’uomo normale la condizione ideale, studiare per quali vie i cretini imperfetti possano raggiungere l’auspicabile perfezione”. Oppure ancora “Gli utopisti non badano ai mezzi; pur di rendere felice l’uomo son pronti ad ucciderlo”. Cosa può un saggio lettore desiderare di più?
Giuseppe Benassi
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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 19 – Giugno 2014
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