E TU, CHE PAZZO SEI?  | Tomaso Garzoni da Bagnacavallo | Uno spiritoso psichiatra del Cinquecento

giuseppe_benassi_raccontadi Giuseppe Benassi

 

benassiDoveva essere un uomo geniale, e un bello spirito, padre Tomaso Garzoni da Bagnacavallo, appartenente all’ordine dei Canonici Regolari Lateranensi, autore di uno spettacolare L’ospidale de’ pazzi incurabili (1586), dove classifica gli abitanti di questo mondo secondo le rispettive pazzie. Dopo un prologo sulla “pazzia in universale” ecco catalogati i matti: frenetici e deliri, maninconici e selvatici, scioperati o trascurati, ubbriachi, smemorati o dementi, stupidi, persi e morti, tondi, grossi e di facile levatura, scemi e sori, balordi o matti torlurù, goffi e fatui, viziosi, dispettosi o da tarocco, ridicoli, gloriosi, simulati o da burla, lunatici o pazzi a tempo, pazzi d’amore, disperati, eterocliti, balzani, stroppiati del cervello, matti spacciati, buffoneschi, allegri, solazzevoli, faceti et amorevoli, bizarri e furiosi, furibondi, bestiali, da ligare o da catena, sperticati o di tre cotte, ostinati come un mulo, pelati, sfrenati come un cavallo, stravaganti, estremi e per il senno, da mille forche, ovvero del diavolo. Usa una lingua espressionistica ed esplosiva, mobile e eteroclita, burlesca, pre-gaddiana e post-folenghiana, ricca di coloriture dialettali padane, grecismi, latinismi e neologismi. La sua volontà di catalogare i pazzi, ma in pratica tutta l’umanità, dimostra horror vacui neomedievale, gusto del barocco, e ansia para-scientifica. Il suo immaginifico ospedale è diviso fra maschi e femmine: per i primi c’è qualche speranza terapeutica, per le seconde nessuna. Con grande ilarità, Garzoni conduce i suoi lettori fra i reparti del suo ospedale, il cui centro coincide con la centrale di tutte le follie: la vanagloria. E chiede spiritosamente ai suoi “onorati spettatori” venti soldi per l’ingresso, a compenso del “sollazzo e trastullo” che ne ricaveranno.

BENASSI1Ogni specie di pazzia ha il suo nume tutelare, e si invitano i visitatori a pregare tali numi affinché intercedano per la guarigione. Ogni cella reca sulla porta l’emblema che rappresenta la specie di pazzia di chi vi sta dentro. Ogni genere di follia trova esemplificazioni in personaggi della storia e della cronaca. Insomma un “romanzo” così folto di immagini da far pensare ai dipinti di Bosch, di Bruegel, dei surrealisti. È l’apparente condanna della follia (forse dettata dal clima controriformistico e inquisitorio, di lì a poco Giordano Bruno verrà arrostito in Campo de’ Fiori), si tramuta in verità nel suo opposto, un elogio simile a quello di Erasmo, con affascinante ambiguità, come rivelano i versi finali: Io saprò ben cantar senza di voi / mattescamente umori e frenesie / ch’albergan nel cervel di tutti noi. Qual’è il più bel cantar che di pazzie, / soggetto al mondo tanto universale / che merita lode e onor per mille vie? I matti son sì semplici e sì buoni / che fuor dal gregge dell’ipocrisia / son tratti, e fuor di quello dé gnatoni. Versi ove non mancano neppure affetto, tenerezza e stima verso i pazzi: Né consigli ricerca, né procura / il matto, c’ha la legge ne’ calcagni / e tutto quel che fa lo fa a ventura. Ha tutti gli atti in sé ben regolati, / e vive allegramente e senza affanno, / a la barba di tanti disperati. Non ha il pensier, non ha la fantasia / sopra i denari com’hanno gli avaroni / che mertano il mal an che Dio li dia.

E uno che si dedicava a simili opere, doveva anche lui essere un bello squinternato…

Giuseppe Benassi

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