È il momento di mettersi a leggere Christina Stead (1902-1983), romanziera di prim’ordine quasi totalmente ignota al grande pubblico. Presentarla non è semplice, perché le sue doti sono più facili da cogliere che da descrivere. Letty Fox (1946), uno dei suoi romanzi più belli, è tra i libri più divertenti e drammatici del Novecento non solo australiano e anglofono. Di questa bellezza composita fanno fede alcuni aspetti del romanzo che, se ci si sofferma a esaminarli, sembrano piuttosto contraddire la qualifica di capolavoro.
Per esempio pare proprio che Letty Fox manchi completamente di quella che si chiama una struttura organica. È un’opera voluminosa, spropositata, asimmetrica; tuttavia, si sente subito che potrebbe camminare per altre settecento pagine senza accusare fatica, senza farla pesare al lettore e soprattutto senza dar segno di volersi fermare. L’uscita di scena di Letty, la protagonista, lascia addosso, simile all’odore di pioggia sugli abiti, un rimpianto simile a quello che suscitano solo certi eroi di Dickens, incontenibili, più grandi in ogni senso della storia in cui si muovono. Il romanzo omette di dare ragguagli su personaggi per niente secondari, destinandoli a un limbo nel quale è impossibile raggiungerli. Una smemoratezza che si fa perdonare perché è in armonia con Letty Fox, con il suo protagonismo, la sua trascuratezza affannata. L’inconcludenza di Letty, il suo disordine di vita e di ragionamento, determinano l’andatura digressiva del racconto, cosparso di rinvii, diversioni, false partenze, casualità solo fintamente misteriose. Quanto nel romanzo converge e gli dà coesione, è un’espressione del carattere accentratore di Letty. Tipico di Letty è avere assiduità con un gran numero di persone e dimenticarsene non appena smettono di esserle utili o di prestarsi al suo gioco. Non è strano, allora, che all’atto di congedarsi, Letty ci lasci a digiuno di informazioni su sua sorella Jackie – per citare solo una figura tra le molte di cui siamo costretti a ignorare la fine.
Bisogna dare giustizia alla Stead e dire non che Letty Fox manca di una struttura ma che ha la struttura che non sa di avere. Letty è la risposta a questo enigma ed è, insieme, la sfinge che lo pone.
Come un Tom Jones in tailleur e borsetta, Letty ama rivolgersi obliquamente al lettore. Gli fa l’occhiolino, flirta con lui, invocando una complicità che fino a un attimo prima non c’era e che però può essere utile creare, specie se si avvicina uno di quei momenti – e non sono pochi – in cui Letty prova l’urgenza di confessare una qualche stupidaggine da lei commessa.
Letty ha ventiquattro anni quando decide di tracciare un bilancio della sua vita. Ventiquattro anni è un’età prossima al climaterio per una giovane donna nubile cresciuta nell’America del New Deal, in una famiglia-alveare comandata da api regine specializzate in tracolli matrimoniali e finanziari. Vecchia per un senso di usura interiore, e per abitudine a falsificare i conti (che infatti non tornano neppure in questo bilancio), Letty si ricapitola a partire da un’infanzia anarchica, manicomiale, trascorsa in mezzo a madri e nonne dominanti che inscenano la passività, e a maschi infingardi e promiscui, bravi a parole e pertanto irresistibili. Tra questi uomini-fuco da cui la spensieratezza fugge via più prontamente e completamente che dalle loro donne, già preparate alle delusioni, spiccano Solander e Philip, rispettivamente padre e zio di Letty.
Solander Fox è l’uomo delle negoziazioni pecuniarie e affettive. Il suo elemento è l’instabilità, la precarietà. In esso, a forza di restarvi immerso, finisce col trovare una identificazione e, in ultimo, una specie di appagamento, come di pesce adagiatosi sul fondo. Sia lui che Philip si dannano per sfuggire ai ricatti non solo economici di madri, mogli, amanti, figlie. Una fuga che conducono da maschi, vale a dire a passo di gambero, accollandosi una donna per disarcionare la precedente.
A differenza del più accorto Solander, Philip si sforza di tenere a bada le pretendenti continuando diligentemente a sedurle una dopo l’altra. Lo fa con uno scetticismo di fondo e una stanchezza che gradatamente tolgono al gioco della seduzione ogni imprevedibilità, ogni brio. Lo stress di non riuscire ad allietare nella bufera – lui, giullare di corte – uno stuolo crescente di Re Lear muliebri un po’ predisposti e un po’ indotti alla pazzia, spinge Philip al suicidio. La sua morte è la nota cupa di un romanzo che per il resto suona un allegro-marziale imperterrito e inquietante come una marcetta di Kurt Weill. A musicare e orchestrare sono uno stuolo di figure femminili dal carisma napoleonico, che nutrono un’opinione spropositata della propria importanza, incapaci di immaginare un mondo di ricatti e di compromessi in cui la loro faccia tosta sia insignificante.
Sia nonna Fox (misantropa, finta tonta), sia nonna Morgan (la nonna materna, mantide iperattiva con un perenne zampino nelle speculazioni immobiliari), non danno segno di sentire gli anni. Guardano al futuro con cupidigia e intanto si barcamenano campando di proroghe sui pagamenti. Saldano un vecchio debito contraendone un paio di freschi e di più modesta entità, e si consolano evitando di sommarli. Il loro è un parassitismo spigliato, giulivo, che non si fa mancare niente, nemmeno la sua teorizzazione. Tra l’errore che ingenera sconforto e lo sconforto, è quest’ultimo la minaccia da cui guardarsi. Spietate nella denuncia delle insicurezze femminili, le assecondano in pieno e fino all’ultimo, quasi che a parlarne sia una terza persona estranea ai fatti, una donna informata sui misteri dolorosi dell’amore ma intenzionata a non rinunciare a essi, perfino dopo averli smascherati. Per le donne della Stead, l’Uomo Giusto da incontrare (e incastrare) è un miraggio irremovibile, un orizzonte dietro il quale il sole non tramonta mai. I sentimenti amorosi sono un fatto personale; rispetto a essi, gli uomini hanno una funzione di stimolo, li ispirano e basta. Nessuna riflessione, nessun giudizio hanno il potere di far deviare una passione. Tutt’al più è la passione a influire sui giudizi, a distorcerli.
Se l’amore non richiede, anzi non tollera, la conoscenza del maschio, il matrimonio promuove la conoscenza, analitica, del diritto di famiglia. Matrimonio e amore sono qualifiche indispensabili, ma il matrimonio di più. Una volta maritata, una donna ha messo in cassaforte la propria rispettabilità; poco importa se per farsi sposare le tocca perderla. Il pericolo vale soltanto per le donne che vivono nella sicurezza di avere accanto un marito. Per tutte le altre esiste l’insicurezza – uno stato di sospensione che legittima qualunque licenza, qualunque colpo basso. Non una delle giovani e meno giovani che circondano Letty, conosce la rispettabilità altro che come espressione verbale. L’esperienza non ha relazioni con ciò che indicano le parole. Farsi mantenere può voler dire mantenere un uomo nell’attesa che capisca qual è il suo compito o, per lo meno, che cosa ci si aspetta da lui. Un compito reso anacronistico dal concretizzarsi insperato, per i maschi, di una possibilità chimerica prima dell’avvento della Grande Depressione: vivere a carico di una donna cedendole in cambio l’illusione del contrario.
Non stupisce allora che una donna incallita, conscia di troppe cose, si affacci anzitempo in Letty bambina facendo i suoi piani. Lasciata a se stessa, senza la grazia dell’inesperienza che parli per lei, Letty spia, origlia, fa incetta di frasi fatte che a tempo debito ritorcerà contro i familiari. I genitori la trattano con colpevole cordialità cameratesca, ne fanno la testimone dei loro contenziosi.
Letty si distingue per un senso critico che la rende acutissima nel cogliere ogni gesto rivelatore di bassezza. Ma il prezzo da pagare all’esercizio di tale senso critico è la scoperta di essere l’unica a possederlo. Il paragone con l’immaturità dei parenti e degli adulti in generale, tutto a svantaggio della sua infanzia, spinge Letty a cercare un indennizzo, a investire sulla propria precocità dimenticando di non averla cercata. Anziché evadere dall’irresponsabilità, si mette a studiarla e subito dopo ad approfittarne. Diventa una volpe quando ancora non è che un pulcino, e scappa dal pollaio solo per rientrarvi da predatrice. In altre parole, diventa presuntuosa; a tratti anche malinconica e austera, ma per lo più presuntuosa – come e peggio di un adulto. Troppo intelligente per credere alla maturità dei familiari, è troppo cosciente della propria superiorità per non utilizzare l’intelligenza in modo banale, truffaldino, in linea con le abitudini dei Fox. Nel momento in cui viene toccata dalla volontà di manipolarla, l’intelligenza di Letty si colora di conseguenza, e anziché aiutarla a tenersi lontana dalle più comuni debolezze femminili, gliele fa inseguire come se fossero un modello di comportamento desiderabile.
Persa l’innocenza senza avervi mai creduto, Letty impara a fingerne una, nessuna e centomila a seconda delle occasioni. Comincia col lasciarsi alle spalle la coerenza affidando a un certo Amos, un uomo che le è antipatico, l’incarico di sbarazzarla di una verginità opprimente. Poi è la volta dell’intelligenza – fardello troppo pesante da sopportare. Letty non può fare a meno dell’intelligenza per allacciare relazioni, ma le tocca disfarsene quando è questione di farle durare. Le conseguenze della perdita le sembrano irreali in un ambiente sociale in cui l’unica pena temuta è quella, civile, dello zitellaggio.
Infine si fa sedurre da Adam, amico e coetaneo del padre, Ma questa è soltanto una resa in più: gli anni dietro di lei ormai sono una sequela di capitolazioni simili. Cinque anni prima di darsi ad Adam, Letty aveva ceduto alla pigrizia di andare con un uomo che non la meritava. Con Adam ritrova quella pigrizia con il cuore alleggerito, non provandone più vergogna né disgusto.
Negli equilibrismi cui la costringe la recita di un ruolo, nell’astuzia usata per calarsi nella parte in modo persuasivo, Letty non perde mai di vista le ragioni opposte della propria condotta. Ma la sua coscienza lavora ormai in automatico, come una piallatrice in cui si può introdurre qualsiasi moneta. Le monete vere ne escono falsificate, le monete false non vengono riconosciute come tali: i conti tornano sempre. Le idee semplici del matrimonio e della maternità restano le sole a muoversi in lei. L’ideologia della sistemazione coniugale le scarnifica la memoria. I libri, le amicizie, il lavoro, i contatti con le persone di spessore, non sono che un ornamento.
Abituata a non tenere in alcuna considerazione, nei suoi progetti, i mezzi e i costi, Letty si conserva vivace e socievole anche nei periodi di ristrettezze. Vede e propaganda se stessa come parte della indefinita moltitudine di giovani che vivono di vita precaria in America. Si dà l’aria di essere orgogliosa del suo stile bohèmien, dando a intendere di averlo adottato. Solander, bombardato di richieste economiche da parte delle donne di famiglia, le centellina il denaro, che Letty butta via per gli uomini, dei quali va matta al modo in cui, secondo la retorica virilista, gli uomini vanno matti per le donne, cioè cambiandole a ritmi forsennati, e sempre invano. Non appena le entrano in tasca dei soldi, Letty si innamora e li perde. I pochi lavori in cui si impiega li sceglie a seconda dell’aria che tira e, soprattutto, dell’uomo che la respira. Quando si infatua del marxismo e si inventa attivista, è per agganciare Clays Manning, giornalista free-lance di belle speranze dal fiato corto. Costui, con un giro tortuoso, riconduce Letty al socialismo, da lei altrimenti giudicato ridicolo, e ridotto a un alibi a forza, appunto, di adoperarlo come alibi.
C’è così tanta ingenuità nell’ipocrisia dell’eroina della Stead, tanto cinismo nella sua innocenza, che facilmente si nota il parallelismo tra Letty – incline a ripetere gli stessi errori ma fornita di una sua positività esistenziale – e le masse dei lavoratori, che valgono non per ciò in cui credono, ma soltanto perché credono.
Christina Stead, Letty Fox, trad. di Adriana Bottini, Adelphi 2002, pp. 734, euro 22,00.
Marco Cavalli
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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 17 – Dicembre 2013
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