Due “principesse-birillo” sono le protagoniste di questa favola mediterranea e nera raccontata da Emma Dante. Via Castellana Bandiera fa da palcoscenico al loro incontro, o meglio, al loro scontro, dato che Samira e Rosa, così si chiamano le due donne, si affrontano per ore, e per tutta la durata del libro, su due auto ferme l’una di fronte all’altra proprio in quella viuzza che dà il titolo al romanzo e che l’autrice rappresenta come un budello irto di diverticoli insidiosi e puzzolenti aggrovigliato nel ventre della vecchia Palermo.
È stato scritto che quello narrato da Emma Dante sembra un duello da Far West: niente di più “spaesato”. Prendendo a prestito il nome della Compagnia teatrale da lei fondata nel 1999, questa è una storia con denominazione di origine controllata: “Sud Costa Occidentale”. Il duello c’è, eccome. Più mimato di quello messo in scena usando la metafora del pugilato da un altro giovane drammaturgo palermitano, Davide Enia, in Così in terra (Dalai, 2012), ma non meno cruento. Le armi a scoppio scelte dalle contendenti sono due automobili che sulle prime machisticamente un po’ si incornano, poi al tocco delle due donne presto si maternizzano e assumono le sembianze di uova colorate covate all’inverso, dall’interno: «Samira spegne il motore. Rosa risponde automaticamente con lo stesso gesto. Le donne si fissano come due galline, con il collo teso e la testa leggermente spostata in avanti […]. Rosa e Samira dichiarano guerra alla loro sottomissione».
Samira non è una principessa “azzurra”: è una vecchia albanese che odia il mare, lo detesta da quando l’ha dovuto attraversare su una nave dal biglietto troppo caro, pagato con cinque anni di affitto di quarti di carne non più fresca a cani e porci del porto; prova ripugnanza per i Calafiore, la famiglia siciliana che l’ha “adottata”; sembra indossare sul volto una maschera di quelle lignee, africane; piscia in piedi e puzza di tana, di lupa.
Rosa, l’altra principessa-birillo, è una giovane donna arrivata a Palermo su una Multipla blu da Milano. Migrata da tempo al Nord, vive lassù assieme a Clara. Rosa ha le “corna dure”, giudica la propria omosessualità scandalosa; è una donna all’antica, elegante, bacchettona che ha paura della fine di un amore mai vissuto alla luce del sole. Clara è leggera, dipinge, sarà suo il tratto a spray che farà comparire un destriero che annuncia la fine del duello di Via Castellana, un rossosangue affratellato dagli eventi a quello che troneggia a Palazzo Abatellis, nell’affresco titolato “Trionfo della Morte”.
Ovunque, anche quando si fa notte, è avvertibile la temperatura bollente del mezzogiorno di fuoco – è estate, domenica, gli abitanti della città sono stremati dallo scirocco, ‘u ciatu d’u suli (il fiato del sole), il vento dannato che riesce a far impazzire uomini, animali e anche le pale dei fichi d’India – ma la vicenda in realtà si muove in immersione in un’acqua fitùsa, scura e gelida, poco spiaggiante; senza faro si finisce in gorghi e ingorghi che provocano una vertigine e insieme una premonizione di asfissia: c’è qualcosa di troppo famigliare e riconoscibile in quel gioco praticato dalle persone che vivono nel libro, tutti si muovono in un baraccone di specchi deformanti ma non abbastanza che inquadrano budelli e budella e case dai corridoi mefitici dove circola indisturbata l’infezione del malanimo. Baricentro della vicenda narrata e prototipo dei dispensatori di palle da bowling che colpiscono forte le due principesse sono i Calafiore, famiglia campione di una tipologia indigena attecchita attorno all’abusivismo, in ogni sua declinazione.
Attorno e dentro la vicenda raccontata c’è Palermo. Non uno scorcio da cartolina però, l’immagine prodotta pare stampata da una lastra incerata a carezze e poi graffiata a sangue da una lama di bulino: «Una vera e propria barriera, un diaframma separava la città dal mare. Non che gli si sia più avvicinata, Palermo, anzi, malgrado ogni tanto capiti che da uno scorcio del centro storico appare improvviso un pezzo di nave che galleggia tra i palazzi, sempre la città volta le spalle al mare». Il coro di anime che circonda le due donne è un insieme quasi indifferenziato di figure vocianti, agenti, medianti l’ennesima tragedia greca che nasce sul loro territorio; sembrano vorticare intorno, ma il loro ruolo è acclarato: in un acquario sarebbero i pesci pulitori, fagocitano tutto, sono i custodi dell’immobilità.
Via Castellana Bandiera è stato edito da Rizzoli nel settembre 2008; dal libro Emma Dante ha tratto un film di cui è regista e interprete, il testo è stato sceneggiato assieme a Giorgio Vasta. Il lungometraggio costituisce l’esordio nel mondo del cinema della drammaturga palermitana già artefice di tante opere apprezzate create in gran parte per il teatro.
Ci sono molte tracce, lungo le 134 pagine del libro, del linguaggio scenico che Emma Dante ha utilizzato in alcuni suoi progetti teatrali, soprattutto nella Trilogia che ha dedicato al tema della famiglia. Le ragioni profonde del duello – a un certo punto della storia tragicamente strumentalizzato da Rosario Calafiore e dai suoi compari – le dichiara Rosa: «Per un attimo ha creduto che una vecchia extracomunitaria e una piccola borghese potessero, insieme, superare il confine che separa il reietto dall’uomo perbene, abbattendo il muro della diversità. Minchiate! C’è uno sbarramento tra gli esseri umani. Tremendo. Invalicabile. Un intoppo che gli impedisce di amare».
Di principesse in realtà non si parla nel volume, almeno fino a pag. 102, dove grazie a Natale – uno dei figli di Saro – e a una delle sue fughe notturne da casa Calafiore travestito da Cenerentola e con le terga foderate di vaselina, Emma Dante ci porta a spasso nella zona del Foro Italico: nel territorio che fu il regno dei giostrai e che ora è meta di un pellegrinaggio sessuale che si svolge sotto lo sguardo santo di Santa Rosalia «che si riposa sotto la Porta detta anche d’Africa, alle spalle della Kalsa, il famoso quartiere arabo», fanno la loro apparizione «duemila principesse di ceramica a tinte accese, alte cinquanta centimetri, che sfilano impettite […]. Un architetto milanese le ha disegnate, ispirandosi al profilo del busto di Eleonora d’Aragona, scolpito nel Quattrocento da Francesco Laurana».
L’architetto è Italo Rota, autore, tra le altre cose, con Gae Aulenti, della ristrutturazione degli spazi interni del Musée d’Orsay e del Museo d’Arte Moderna al Centre Pompidou di Parigi, e del progetto del Museo del Novecento, nel Palazzo dell’Arengario di Milano. Le sue “principesse” hanno i tratti somatici ridotti all’essenziale, i volti stereometrici e uno sguardo mimato rivolto all’altrove. Le due donne che si sfidano dagli abitacoli hanno la stessa conformazione di questi dissuasori – e cercano anch’esse, Samira in modo reiterato, di provocare il blocco di un traffico umano inquinante. Rosa e Samira soffrono di una cecità indotta da un incantesimo fatale che le impietrisce e insieme le rende fragili, prede di ambienti dove circola da sempre un vento funesto e l’allenamento all’apnea rappresenta l’unica salvezza possibile.
Emma Dante racconta utilizzando un linguaggio secco, da parlata, farcito di termini dialettali. Nel suo libro ci offre un city tour da effettuare da fermi in un luogo inquietante, brulicante di movimento eppure immobile (niente aria condizionata, finestrini sigillati, autobus verniciato di nero, ticket: 15 euro). Per il viaggio che invita a intraprendere, i dieci decimi di vista e le cuffiette per ascoltare la voce narrante sono indispensabili: il film, o uno spettacolo teatrale tratti dal testo non ne rappresentano un corollario, ma una traduzione che forse è un rimpasto necessario con le lingue originali da cui è nato.
I temi che affiorano nel paesaggio che scorre sulle pagine sono tanti, troppi, (la fame di civiltà, lo spaesamento, la migrazione, l’omosessualità vissuta come colpa, la violenza sottesa nei rapporti mascherati d’amore, i legami creati da cordoni ombelicali riesumati e annodati a strangolo, l’inanellamento di cliché appartenenti a un certo Sud, il degrado di una città… ), e in un libro che sceglie l’isolamento come rotta principale del racconto, rimangono in qualche modo tutti isole, più o meno emerse, popolate da personaggi veristi resi in parte caricaturali dall’ammassamento acquartierato dalle parti di Via Castellana Bandiera, obbediente al “Sopra le righe!” imposto dall’autrice: la scrittura qui, da sola, non riesce o non vuole restituire l’immagine onesta, il rilevamento effettuato da uno sguardo umano inedito, dell’arcipelago insidioso con il suo raccordo subacqueo di cui intende parlare. Dante sembra fidarsi di più di altri linguaggi (quello scenico, dove eccelle, e ora di quello cinematografico) che della possibilità di dire fino in fondo quel che ha da dire con una forma sola, e soltanto quella, certo consapevole, come tanti altri giovani registi italiani, che lo scontro con la scrittura per carta e basta, difficilmente è da Modulo Blu.
Laura Vicenzi

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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 16 – Settembre 2013
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