Sofia Coppola, autrice dal tocco delicato e inconfondibile, conferma col nuovo film il suo interesse nell’affrontare e restituire l’universo adolescenziale: dalle vergini suicide e le fresche spose perse per le strade di Tokyo, sino alla banda di ladruncoli di The bling ring. Qualche anno fa la regista lesse sulla rivista Vanity Fair un articolo di Nancy Jo Sales intitolato I sospettati indossano Louboutin, in cui si parlava di un gruppo di adolescenti di Los Angeles che dal 2008 iniziò a compiere una serie di furti nelle ville di personaggi ricchi e famosi quali Lindsay Lohan, Orlando Bloom, Rachel Bilson, Paris Hilton e altre celebrità perennemente braccate dai paparazzi. La Coppola, dopo un incontro con la giornalista, attratta irresistibilmente dalle potenzialità di una storia basata su fatti realmente accaduti, legge le trascrizioni dei rapporti della polizia e inizia a scrivere la sceneggiatura, un racconto sul filo del rasoio perché niente è più impegnativo del dare profondità e spessore a persone superficiali. L’intento che l’autrice si prefigge è quello di ritrarre persone e non personaggi, mostrando come la cultura dominante imponga gusti e valori e faccia evaporare continuamente il labile confine tra bene e male, giusto e sbagliato. Il bottino della baby gang (bling ring significa banda della bigiotteria), composta da quattro ragazze e un ragazzo, è di circa tre milioni di dollari in orologi, borse, occhiali da sole, gioielli, abiti e scarpe rigorosamente griffati; i teppistelli di buona famiglia controllano sul web gli spostamenti delle celebrità e, incredibile ma vero, si intrufolano nelle loro case al motto di “andiamo a fare shopping”. Il furto della gang appare come un disturbo ossessivo compulsivo del tutto speculare a quello della ricerca di fama e visibilità da parte dei divi derubati. Curioso ma altrettanto sintomatico che la refurtiva venga poi indossata, fotografata ed esibita su facebook.
Il film, intrigante e d’atmosfera, pone una serie di domande cui è impossibile dare risposte chiare e precise; la complessità riguarda il presente, non passa attraverso il filtro di uno sceneggiatore abbastanza cinico da trasformare la storia in satira, l’intento è quello di documentare il presente, non di rifletterlo, tanto che in alcune scene viene usata la vera casa di Paris Hilton, di professione ereditiera e dall’imbarazzante gusto per tutto ciò che è appariscente. Inizialmente i cinque ragazzi dalle personalità intercambiabili si trovano nel contesto del college oppure in spiaggia, fanno discorsi insensati come i loro animi, vacui, sfogliano delle riviste, vanno in discoteca in uno scenario in cui le palme dei boulevards accarezzano il cielo: la fotografia è curatissima, la colonna sonora interessante. Le persone idolatrate negli anni della mancanza di privacy, gli anni zero, sono diverse dai divi cinematografici o televisivi venerati nel secolo appena trascorso. Chi adora questi neo-dei del nulla non è interessato a fare proprio un loro oggetto per avere un feticcio ma cerca di entrare in contatto fisicamente con le star, vuole apparire come loro, indossare gli stessi capi firmati perché sono glamour e nell’era del consumismo senza limiti tutto è alla portata di tutti e se non lo è, ogni mezzo diventa lecito se il contatto con la realtà è filtrato da televisione, social network e riviste scandalistiche. I ragazzi, infatti, non si rendono conto di commettere dei crimini, il loro atteggiamento è disincantato, indifferente e la macchina da presa li osserva mentre documenta le loro azioni con ritmo apparentemente frenetico; di tanto in tanto una slow motion raggela lo spettatore, i protagonisti vengono inquadrati impietosamente in tutto il loro gelido splendore, affinché lo spettatore prenda coscienza di ciò che la regista vuole indicare: “guardali, non sono come tutti gli altri ragazzi che conosci?” In ogni caso, volutamente, non emergono giudizi o condanne da parte di Coppola che sceglie di rappresentare la vicenda usando tutti i riferimenti multimediali disponibili: foto tratte dal web, dai social network, da telecamere di sicurezza, da interviste televisive. La zampata della Coppola, regista intelligente e di talento, emerge quando i ragazzi che penetrano negli appartamenti sono inquadrati da dietro, un’allusione neanche tanto velata ad altri adolescenti, quelli del Van Sant di Elephant, anche loro protagonisti, vittime e carnefici di una società americana apparentemente impazzita.
La generazione degli always connected, ragazzi perennemente connessi a internet, ha smesso di sognare e questo è in contraddizione con la dimensione onirica che il film sembrerebbe suggerire, una scelta molto criticata dalla stampa specializzata americana. Non sarei così severo: il film non poteva essere più falso della realtà; Sofia Coppola filma il vuoto spinto di individui che sono delle scatole vuote e come tali riempibili di qualsiasi ideologia, fanatismo, religione o moralismo. La storia non offre possibilità di racconto, si avverte un’opprimente sensazione di impotenza; il film risulta freddo ma lo è volutamente perché non può esserci empatia con questi ragazzi privi di sogni e fantasia. Ma attenzione: nessuna denuncia sociale da parte della bella Sofia, semmai un avvertimento, un’esortazione affinché questi eterni Peter Pan, che non sono degli alieni mutanti ma i nostri vicini di casa e i nostri figli, elaborino un nuovo concetto di trasgressione ed abbiano l’attenzione e le informazioni che meritano.
Carlo Camboni

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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 16 – Settembre 2013
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