(Su Amedit n. 15 – Giugno 2013 )
Se Sunset Boulevard (1950) di Billy Wilder, What ever happened to Baby Jane? (1962) di Robert Aldrich o Strait-Jacket (1964) di William Castle non vi hanno irrimediabilmente devastato l’adolescenza (e piacevolmente, si intende), allora faticherete non poco a comprendere a pieno l’estetica indagata da Schmidlin. La sua operazione sul piano formale è presto detta: la traduzione in terracotta policroma (o resine o cere) di uno specifico repertorio iconico, cinematografico e non, per lo più ascrivibile a una determinata queer-culture il cui archetipo femminile oscilla approssimativamente (non vorremmo scontentare nessuno) tra Bette Davis, Joan Crawford, Gloria Swanson e Marlene Dietrich. Di queste ineguagliate dive ante-litteram, come di altri personaggi di cui diremo più avanti, Schmidlin sceglie di immortalare (in ossequio alla cultura di cui sopra) non l’age d’or della smagliante giovinezza ma l’age noir, l’emblematica impietosa stagione senile. Si osservino le opere qui riportate: Baby Jane: looking for daddy, Dead-ringer e Serial Joan. Siamo lontani dall’iperrealismo perturbante di un Duane Hanson o di un Cattelan, e parimenti lontani dalla lucida stilizzazione ceramica di un Ontani; Schmidlin individua un linguaggio capace di mediare tra la celluloide e il manichino, senza nulla sacrificare alla resa del dettaglio epidermico.
Forte delle esperienze precedenti nel visual design, nella grafica, nella pubblicità, nella scenografia e nel teatro Schmidlin mette a punto le soluzioni acquisite e le convoglia in una sintesi operativa efficace e personalissima. Sia nei busti che nelle sculture a figura intera l’ibridazione si compie attraverso una trasposizione misurata e consapevole che ha ben chiaro l’effetto finale; in altre parole, Schmidlin rifinisce e patina le sue opere in ogni singolo particolare ma non insegue la simulazione stucchevole da museo delle cere. L’assenza di iperrealismo stempera quasi involontariamente l’aura inquietante dietro un velo di implicita trattenuta ironia; sotto questo aspetto, ma solo parzialmente, l’estetica di Schmidlin si può assimilare a certa iconografia macabro-fumettistica dei Luna-Park anni Settanta. I soggetti ritratti, e Schmidlin lo sa bene, hanno ben poco a che vedere e ancor meno da spartire con il cosiddetto “femminile”: quel particolare archetipo di diva sul viale del tramonto sta alla donna (quella dell’immaginario eterosessuale) come un canguro sta alle scienze occulte. Le quattro dive sopracitate se sono state donne o femmine lo sono state solo loro malgrado, perché la diva, ormai è acclarato (anzi è insindacabile mitologia), è una creazione squisitamente omosessuale, è la proto-trans per antonomasia, una proiezione che va al di là del genere, lo sconfessa: la diva è un travestito. Schmidlin però nel suo lavoro si spinge ancora oltre: non si limita a trasporre nella tridimensionalità dell’oggetto scultoreo la diva (ossia l’attrice), ma vi traspone bensì il personaggio interpretato, il ruolo incarnato nella pellicola, iconizzato nella finzione connotante.
Quindi non Bette Davis ma Baby Jane Hudson, non Gloria Swanson ma Norma Desmond, non Joan Crawford ma Lucy Harbin. L’ambiguità semantica crea un effetto straniante, l’impatto visivo è notevole anche nei soli documenti fotografici. Eletto a opera d’arte l’idolo di terracotta imbellettata si mostra alla stregua di una musa inquietante e inquietata e, contemporaneamente, si fa tabernacolo di tutta una serie di rimandi e implicazioni, primo fra tutti il concetto di bellezza e di seduzione legato alla morte e alla caducità. Seduzione e morte, abbaglio e ombra, rigoglio e marcescenza, venustà e vetustà: gli imperativi della funebre estetica barocca. Tra un estremo e l’altro, tra l’ammiccamento e la cecità Schmidlin invola un copioso sbuffo di cipria e condanna l’immagine a un’ambiguità impassibile.
I volti appartengono già al buio ma tentano con ogni mezzo di farsi luce. Se giocano o se fanno sul serio, chi può dirlo? Di sicuro cercano di stabilire un legame con chi gli sta di fronte, con chi li sta osservando. La seduzione innesca l’interazione, tra l’attrazione e la ripulsa, indifferentemente. La ricerca di Paolo Schmidlin non si fossilizza sul sunset boulevard hollywoodiano ma abbraccia fin da subito – ricordiamo che l’artista è attivo all’incirca dalla metà degli anni Novanta – altri territori dove il corpo, nel suo ineluttabile disfarsi e trasformarsi, resta indiscusso protagonista. Tra i temi affrontati figurano in particolar modo la transessualità (dal maschile al femminile) e, più in generale, la ricerca di un’identità attraverso l’ossessione della bellezza e della corporeità.
Nelle opere di Schmidlin non è esplicitato alcun giudizio: la vecchiaia non è mostrata sotto una luce negativa, è semplicemente constatata e restituita, in dichiarata antitesi con i modelli edonistici vigenti. Si veda a tal riguardo il busto che ritrae l’attrice (e anche scultrice) Gina Lollobrigida, dove un’insistita patetica cosmesi non fa che sottolineare la presenza, quasi aggressiva, delle rughe; tutta la violenta grinzosità della vecchiaia è dichiarata senza mezzi termini nel busto Tenebre (1993), dove a un moccolo di candela è assegnato l’ingrato compito di alludere alla transitorietà, al memento mori. Il passo dalla vecchia Hollywood alla contemporaneità si palesa più prepotentemente nella Miss Kitty (2006) che ritrae l’ex papa Joseph Ratzinger in un curioso imbarazzante déshabillé (un fin troppo esplicito riferimento all’omofobia di facciata ostentata dallo stesso in più occasioni), nonché in una più improbabile lasciva regina d’Inghilterra (Porno Queen, 2007). Con queste due opere Schmidlin incappa nello scandalo facile, utile però a garantirgli quell’attenzione mediatica che il repertorio precedente non era riuscito così massicciamente a catturare. Le sue opere migliori, più interessanti e incisive, restano quelle legate all’iconografia delle vecchie dive, come Baby Jane: looking for daddy o come la splendida eterea Marylin dormiente, quasi una Biancaneve sotto incantesimo in attesa del bacio rigeneratore del principe azzurro. Terrecotte, cere, resine… Le sculture di Paolo Schmidlin, in ultima analisi, sono forse un tentativo di fermare la corruzione del tempo, di eternare la bellezza, pur se vizza e sfiorita, pur se travestita e grottesca. Tutto il suo immaginario iconico ruota intorno alla maschera che la morte imprime sulla vita, una vita che, incipriata, per un altro istante sopravvive e seduce.
Massimiliano Sardina
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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 15 – Giugno 2013
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