Compie quarant’anni uno dei film più inquietanti della storia del cinema, cult capostipite di un nutrito filone di horror movie incentrato sul tema della possessione demoniaca. La prima proiezione risale infatti al 19 giugno 1973, e per celebrare il quarantennale il film è stato riproposto nelle sale cinematografiche di tutto il mondo per un solo giorno, per l’appunto il 19 giugno 2013. Certo, il pubblico di oggi (annoiato, assuefatto, intrattenuto a cucchiaiate di sbobba 3D), non è più quello di allora (ancora ingenuo e a digiuno di sensazioni forti), ma il film, nonostante la risatina idiota di qualche sprovveduto a corto di cultura cinematografica, si è difeso bene. Tratto dall’omonimo romanzo (1971) di William Peter Blatty, autore anche della splendida sceneggiatura, la storia ha per protagonista la dodicenne Regan MacNeil, vittima di un grave e misterioso disturbo della personalità che in un primo momento si tenta di ascrivere al raggio della psichiatria. Alla diagnosi della possessione si arriva per gradi, dopo avere escluso ogni anomalia attraverso ripetuti elettroencefalogrammi e indagini affini sia sul piano medico-neurologico sia su quello psichiatrico. Blatty ha dichiarato di essersi ispirato a una storia vera, e in particolare a un articolo apparso sul “Washington Post” in data 20 agosto 1949, dove è
riportata l’incredibile vicenda di un quattordicenne di Mount Rainier (nel Maryland), ritenuto posseduto da un’entità malvagia e curato, guarito, con un rito esorcistico; stando alle testimonianze, il ragazzino era preda di violente contrazioni muscolari tanto forti da far sobbalzare il letto al quale era legato, parlava latino e altre lingue sconosciute, bestemmiava con un colorito vocabolario sacrilego e blasfemo, aggrediva con forza sovrumana, spostava oggetti e mobilio attraverso il pensiero, reagiva con ripulsa e convulsioni all’aspersione di acqua santa e contorceva le membra in posture inverosimili (tutti sintomi inequivocabili, secondo la credenza religiosa cristiana, di una possessione demoniaca).
Nella trasposizione romanzata di William Peter Blatty saranno i medici stessi, in maniera indiretta e non ufficiale, a indirizzare le cure della piccola assistita sul versante esorcistico, ma appellandosi più che altro al potere curativo dell’autosuggestione. Nel romanzo, così come nel film, i dialoghi tra i dottori specialisti e la madre della bambina – un’attrice di successo prima serenamente disinteressata alle questioni religiose e ora travolta da qualcosa di più grande di lei – ricoprono un ruolo fondamentale e sono funzionali a mettere in relazione problematica il punto di vista della scienza e quello della fede. Testimone della malattia della figlia, dai primi sintomi alla patologia conclamata, la madre compie un percorso che trascende il suo sereno ateismo in un’obbligata accettazione del sovrannaturale. “Ci sarebbe una remota possibilità di cura, signora MacNeil…” Sembra quasi che il medico non voglia pronunciarsi o che ci abbia ripensato li per li, ma la madre, stremata, disperata lo incalza, disposta a tutto pur di salvare sua figlia “…una possibilità remota c’è, dovuta al fatto che lo stato di ossessione ha delle affinità con l’isterismo, in quanto l’origine della sindrome è quasi sempre da ricercarsi nell’autosuggestione. Sua figlia deve essere stata a conoscenza del fenomeno della possessione, deve aver creduto nella possessione, deve averne conosciuti alcuni sintomi, cosicché ora il suo inconscio ne produce la sindrome. Avendone la certezza, lei, signora MacNeil, potrebbe azzardarsi a tentare un altro tipo di cura, basato unicamente sull’autosuggestione. Quando il caso si presenta come quello di sua figlia, io considero questa cura una specie di shock-terapia, e questo anche se la maggior parte degli altri medici probabilmente mi darebbe la croce addosso. (…) Signora MacNeil, ha mai sentito parlare di esorcismi? (…) un certo rituale oramai fuori moda, con il quale rabbini e preti cercavano di cacciar via lo spirito insediatosi nel corpo dell’ossesso. Soltanto i cattolici non l’hanno ripudiato del tutto, ma lo tengono ben chiuso nella naftalina forse perché lo giudicano piuttosto imbarazzante. Ma su qualcuno che si crede veramente posseduto dal demonio, direi che il rituale può far davvero un enorme impressione. Del resto, generalmente ha sempre funzionato, anche se per ragioni che non avevano nulla a che vedere con le credenze popolari. Potenza della suggestione, nient’altro. La vittima credeva nell’ossessione e questo fatto stesso incentivava il fenomeno, o quantomeno la manifestazione della sindrome.” e conclude “Parallelamente, la fede nel potere dell’esorcismo poteva far scomparire i sintomi.” La titubanza della madre (“mi state dicendo che dovrei affidare mia figlia a un qualche stregone?!”) ha però breve durata, ed ecco che nella bella casa di Georgetown, nella cameretta claustrofobica dalla asettica porta bianca della piccola Regan, fa il suo ingresso il giovane gesuita Damien Karras. Appurata la possessione il prete informa il suo vescovo che, a sua volta, autorizza il rituale dell’esorcismo affidandolo all’anziano sacerdote cattolico e archeologo padre Lankaster Merrin. Nell’ultima mezz’ora del film si concentra il faccia a faccia, lo scontro tra il bene e il male: da un lato l’esorcista armato di rituale romano, croce e acquasantiera, affiancato dal giovane gesuita, e dall’altro il demone Pazuzu (re degli spiriti dell’aria) incarnato nel sembiante straziato e ormai irriconoscibile della fanciulla. La contrapposizione tra la personificazione del bene e quella del male compare già nella prima sequenza del film girata negli scavi archeologici dell’antica città di Ninive nell’Iraq settentrionale; qui il sacerdote archeologo dissotterra un’antica testina bronzea raffigurante il demone Pazuzu e, presagio dell’imminente incontro a Georgetown, tra le rovine, in un tramonto infuocato irrorato dal latrato di cani rabbiosi, si trova al cospetto di una grande statua in cui lo stesso demone è raffigurato alato, zoomorfo, con il fallo in erezione. La sfida è gettata: padre Merrin ha già lottato in gioventù contro Pazuzu e sa che ora dovrà affrontarlo di nuovo. Alla fine il bene trionferà sì, ma relativamente. Contrariamente alla volontà di Blatty il regista opta per un finale ambiguo: padre Merrin muore, stroncato dalla furia del demone, ma il gesuita padre Karras riesce a liberare la bambina costringendo il demone a entrare dentro di lui, e subito dopo si toglie la vita lanciandosi dalla finestra (in una riedizione del film in home video nel 2000 Blatty riuscì a includere un finale alternativo, più affine al respiro cattolico). Il finale aperto ha poi costituito il gancio dei due sequel L’esorcista II – L’eretico (1973) e L’esorcista III (1990), entrambi film validissimi.
La direzione del film fu proposta, tra gli altri, anche a Stanley Kubrick. Blatty volle fortemente e ottenne che a dirigerlo fosse William Friedkin. I due lavorarono al film fianco a fianco curando scrupolosamente ogni particolare e mirando a un risultato il più possibile realistico. Solo un attento realismo, infatti, avrebbe scongiurato il pericolo di scadere nel grottesco, nell’inverosimile e nel ridicolo. Reduce da esperienze documentaristiche e, in particolare, dai due ottimi film Festa per il compleanno del caro amico Harold (1970, tratto dalla commedia di Mart Crowely) e Il braccio violento della legge (noir del 1971, vincitore di cinque Oscar) il regista statunitense di origine ebraica William Friedkin si rivelò il più indicato per una pellicola così difficile e problematica. Coadiuvato da Blatty, seppe conferire al film quel particolare taglio realistico-documentaristico funzionale alla trasposizione dell’inverosimile nel verosimile, dell’assurdo nella dimensione reale. La riuscita del film deve molto anche alla sorprendente interpretazione della dodicenne Linda Blair, scelta dopo una lunga e sofferta selezione. Ottima anche la resa dei trucchi e degli effetti speciali – tutti certo ricorderanno la scena della levitazione, della camminata a ragno, del getto di vomito e della rotazione della testa a 360° – effetti molto innovativi per l’epoca e ancora oggi di forte impatto. Non ultime poi le musiche, – ricordiamo che il film vinse due Oscar, uno per la sceneggiatura e uno per il miglior sonoro – in particolare il tema centrale Tubular Bells di Mike Holdfield. Nonostante la sequela di censure il film ha incassato cifre da capogiro, ed è tuttora al nono posto del record mondiale di incassi. La prima proiezione in Italia è stata il 4 ottobre del 1974, con la visione vietata ai minori di 14 anni (in altri paesi è stata vietata anche ai minori di 18 anni); tra gli spettatori dell’epoca le cronache riportano casi di svenimenti, crisi di panico, di vomito e persino di infarto. Nel suo genere – sempre ammesso che possa considerarsi un film di genere, e di certo non è pienamente assimilabile all’horror tout court – L’esorcista è indubbiamente un capolavoro, un punto sul quale la quasi unanimità della critica è sempre stata concorde. Il film trattiene intatta la sua pregnante carica evocativa al di là di ogni orientamento religioso o razionale che sia, e ha il potere di smuovere interrogativi profondi, di far affiorare paure sopite, magari anche di dargli una forma.
Leone Maria Anselmi

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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 15 – Giugno 2013
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