“Cu sarba attrova”
(Chi conserva trova, proverbio siciliano)
I paesi fantasma (o ghost town), residui di memorie e civiltà umane perdute, storie di persone e comunità, testimonianze dei cambiamenti economico-sociali, cataclismi naturali o epidemici, sono un patrimonio culturale da studiare e una risorsa la cui valorizzazione ha potenzialità economiche ancora inespresse e in grado di offrire occasioni di sviluppo e lavoro. Abbiamo bisogno di luoghi nuovi, diversi dalle città, dove un’individualità esasperata e conflittuale abita spazi spersonalizzati, di modelli di relazione con l’ambiente che siano conservativi e non consumino più un territorio già devastato e a forte rischio idro-geologico. Il recupero, su molti fronti, può essere un orizzonte di rinascita umana e sociale.
In Italia esistono circa 5.000 paesi fantasma, un numero che non ha eguali in Europa e si ritiene che altri 3.000 piccoli centri, in via di spopolamento, siano a rischio di estinzione totale. Il boom economico degli anni cinquanta e sessanta, sostenuto dallo sviluppo della rete ferroviaria e dalla diffusione dell’automobile, generò una progressiva urbanizzazione delle grandi città e il conseguente svuotamento dei piccoli centri, un’inedita dinamica demo-geografica, concentrata soprattutto al centro sud e nelle zone appenniniche (ma anche nelle zone montuose del nord); si emigrava verso le metropoli e le grandi industrie in cerca di lavoro e benessere mentre i piccoli centri subivano gli effetti socio-economici immediati di questi flussi, ovvero la scomparsa di antichi mestieri legati all’artigianato e l’abbandono di alcune colture specifiche in agricoltura. La peculiarità del territorio italiano, costituito da un numero elevato di piccoli paesi molti dei quali isolati, ha ulteriormente contribuito ad alimentare il fenomeno migratorio e in tal senso alcuni studi parlano di geografia dell’abbandono. Le città fantasma e i loro scenari evocativi non sono semplicemente un fenomeno imputabile al mito del progresso alla portata di tutti o il drammatico risultato di eventi naturali imprevedibili e devastanti dal punto di vista ambientale (terremoti, frane, inondazioni); questi centri possono aiutarci a comprendere l’uomo attraverso l’ambiente e il territorio: rappresentano un invito a riflettere su quanto provvisorio e precario sia ciò che l’uomo crea, quanta parte della nostra identità è stata perduta, quanta parte di questa identità possiamo recuperare. I vecchi saggi dicevano “chi conserva trova” (“cu sarba attrova”, dialetto siciliano). Un borgo dismesso può essere recuperato e diventare una valida risorsa per la nostra disagiata economia. Alcuni interventi di recupero sono nati per iniziativa di privati cittadini che hanno rintracciato i proprietari delle vecchie case e acquistato a prezzi ragionevoli, abitazione dopo abitazione, piccolissimi centri abbandonati che dopo il restauro sono diventati autentici gioielli turistici: hanno così visto la luce “alberghi diffusi” e “ecovillaggi” immersi in splendidi contesti naturali. Questo tipo di turismo, particolarmente appetibile per i cittadini nord europei e americani, riscontra ultimamente un crescente successo anche tra i nostri connazionali perché in grado di offrire un’occasione imperdibile, la scoperta di uno stile di vita differente rispetto alla realtà dei grandi centri urbani, un’alternativa stimolante alla prevedibile vacanza nei villaggi turistici all inclusive. L’associazione “Borghi più belli d’Italia” e progetti come “Aperto per ferie” mirano alla creazione di piccole comunità in grado di coinvolgere architetti e artisti pronti a prestare la loro opera per trasformare luoghi in rovina in strutture accoglienti ed invitanti. Già sul finire degli anni cinquanta un ceramista, Mario Giani, in arte Clizia, visitando i ruderi di Bussana Vecchia, una frazione di Sanremo abbandonata cinquant’anni prima per un terremoto che coinvolse l’entroterra sanremese, lanciò l’idea di creare una piccola comunità di artisti dotata di una Costituzione per regolare i rapporti sociali dei suoi abitanti. Utilizzando le stesse macerie del terremoto fu recuperata nel corso degli anni l’architettura del piccolo borgo medioevale, oggi vivacissima meta turistica ricca di botteghe e ateliers e conosciuta come “borgo degli artisti”.
Ancora più eclatante il caso di Santo Stefano di Sessano in provincia dell’Aquila. Un imprenditore svedese, Daniele Kihlgren, ha investito gran parte del suo ingente patrimonio per trasformare un’intera borgata nel cuore del Parco Nazionale del Gran Sasso in una struttura ricettiva famosa in tutto il mondo. Sono state ristrutturate le antiche dimore ricreando l’originaria atmosfera e, grazie al coinvolgimento dell’antropologa Nunzia Maraschi, sono state recuperate perfino antiche ricette, tecniche di tessitura ormai in disuso e semenze scomparse da anni. Bellezza, eco-sostenibilità, ed economia possono convivere e ispirare un progetto concettualmente avanzato: è possibile sostenere una riconversione ecologica dell’economia. Un azzardo? No, perché è già stato sperimentato.
Se l’economia finanziaria e speculativa (mattone, cemento) è in grave crisi perché non stimolare nuovi investimenti scommettendo su risorse quali il paesaggio e il turismo consapevole?
L’art. 9 della Costituzione stabilisce che la Repubblica “tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.” Io propongo: non solo grandi opere – che richiedono enormi sforzi collettivi dal punto di vista finanziario – ma micro interventi mirati che coinvolgano imprenditori illuminati e cittadini, accompagnati da uno Stato-amico che agevoli il recupero culturale e identitario semplificando i passaggi burocratici necessari, garantendo una migliore qualità della vita nei paesi in via di ripopolamento; si deve inoltre assicurare la promozione della qualità e la certificazione dei manufatti e dei prodotti di questi luoghi. E ancora: da anni lamentiamo la perdita delle agro-biodiversità, cui hanno contribuito leggi sbagliate – anche europee – che annullano le nostre colture specifiche: si possono ben sostenere prodotti agricoli e alimentari identitari – tipici di ciascun centro – con programmi di rimessa a coltura di sementi in disuso, con il vantaggio di gestire una piccola porzione del nostro territorio rigenerando le biodiversità. La gestione responsabile delle scelte turistiche sostenuta da un’azione di networking e la compravendita delle case restaurate in base a modelli ecosostenibili di residenzialità, creano effetti diffusi nell’economia reale ed è per questo che anche i legislatori locali, stimolati dal successo di alcuni progetti particolarmente riusciti, hanno agevolato il ripopolamento e la riscoperta di centri abbandonati o in via di abbandono. La rinascita economica non interessa solo la ghost town ma anche i comuni limitrofi. Alcuni casi:
– il patto del Matese che ha coinvolto quindici comuni, il recupero e la ristrutturazione di quaranta lotti abitativi destinati alla ricettività turistico – residenziale, con creazione di cinquanta posti di lavoro e settanta piccole attività artigianali ed eno-gastronomiche;
– la “cittadella telematica”, un progetto che prevede il recupero edilizio, il restauro e la dotazione di modernissime strutture tecnologiche nel borgo di Colletta di Castelbianco (Savona).
– Monestevole, vicino a Perugia, comunità ecosostenibile inaugurata di recente, in cui lavorano quindici persone che producono prodotti biologici e in cui è possibile essere ospitati e seguire corsi sulle tecniche di permacultura;
– l’incredibile bellezza Poggioreale, in Sicilia, paese precipitosamente abbandonato dai suoi abitanti in seguito al terremoto della valle del Belice, e il cui futuro è ancora incerto; il regista Tornatore ha girato in questo centro due film, “Malena” e “L’uomo delle stelle”.
Non tutti i borghi sono recuperabili, tuttavia; sono necessari il giusto equilibrio tra architettura e paesaggio e vie d’accesso percorribili: la natura, infatti, tende a riappropriarsi di ciò che il cemento le ha sottratto. Per questo si deve e si può andare oltre, sovrapponendo problemi, idee e risorse. Di particolare interesse la proposta dell’architetto e urbanista Giovanni La Varra che, lanciando un progetto visionario ed estremo, ha già scatenato in rete discussioni e polemiche. Egli dichiara, senza mezzi termini: “E se invece di costruire nuove carceri recuperassimo i vecchi borghi abbandonati?”
Ora, conosciamo tutti il problema del sovraffollamento delle carceri, sappiamo quanto le strutture siano fatiscenti ed inadatte ad accogliere il dettato costituzionale, che a riguardo recita: “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.” (art. 27)
Invece di costruire, come previsto dagli ultimi governi, undici nuove carceri e ampliare le vecchie strutture, creando grandi e ingombranti edifici dal forte impatto su città e ambiente, La Varra propone “la cella e il territorio”, la chance di immaginare un modello di recupero ambientale e umano inedito e sperimentale. Il Piano Carceri potrebbe essere integrato da un’opzione quale il ripopolamento di specifici borghi all’uopo trasformati in borgo-carceri dove il detenuto sconti la pena di modo che la costrizione sia un’esperienza diversa dalla segregazione tra quattro pareti: un progetto che, selezionando alcune pene non particolarmente gravi e garantendo standard di sicurezza verificabili con le nuove forme di controllo elettronico (braccialetto), possa coinvolgere le guardie, gli assistenti, il detenuto e i suoi parenti. Un patto tra detenuto, amministrazione penitenziaria e magistratura basato sulla fiducia: un progetto rivoluzionario, appunto.
Per alcuni le rovine delle ghost cities rappresentano solamente un inventario della decadenza, una collezione di racconti legati al passato, alla memoria e alle tradizioni…
“La vera scoperta non consiste nel trovare nuovi territori, ma nel vederli con nuovi occhi.” (Marcel Proust).
Carlo Camboni

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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 15 – Giugno 2013
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