La cugina (1965), romanzo di Ercole Patti (1904-1976), scrittore originario di Catania e romano d’adozione, ha tutti i numeri, a cominciare dal titolo, per diventare un film con Lando Buzzanca e Rossana Podestà o Agostina Belli. A giudicarlo dal di fuori, cioè in base ai suoi contenuti, La cugina è un’adunata colossale di tutti i feticci etnologici e i macchiettismi e bozzettismi che rendono turisticamente appetibile una certa cartolina della Sicilia. Non manca niente: l’intreccio erotico in contesti bucolici; il pettegolezzo di piazza, di corridoio e di ufficio legale; i cameratismi fracassoni e le convivialità smodate; mogli passite che sconfinano in trivialità di gruppo pateticamente demodées; fanciulle in fiore tormentate da voglie incomprensibili e costrette a barcamenarsi in un equilibrio delicato, fibrillante, fra candore e corruzione; vecchi la cui sessualità si sfoga ormai solo su un piano visivo o con perlustrazioni lascive di sguattere compiacenti e cameriere canterine; avvocati in disarmo ridotti a fare i grilli parlanti di paese che inveiscono contro tutto quanto è fuori dalla loro portata, credendo di dare a intendere che sanno molto perché molto sono capaci di disprezzare.
La cugina del titolo, Agata, è una ipersemplificazione della femmina italiana secondo l’iconologia borbonica. Ancora bambina, si sottomette alle manipolazioni furtive del cugino Enzo con l’arrendevolezza di una bambola dipannolenci. Da adulta e maritata, coltiva l’ascendente che esercita su Enzo diventando non solo disponibile agli incontri con lui, ma sollecitandoli nei modi più sfrontati e impensati, col risultato di destare in Enzo il risentimento del maschio latino che nell’intraprendenza dell’amante fiuta la natura fondamentalmente igienica della sua stessa bramosia, e se ne ritrae schifato. Come una mano che si interroghi sulla propria salute prendendo l’altra per il polso, Agata intensifica gli amplessi clandestini tentando di scoprire, nel piacere di Enzo, il proprio.
Tuttavia, i parossismi del loro rapporto non riescono a rendere meno banale il segreto di Pulcinella che li ispira. Agata intuisce che andando a letto con Enzo sostituisce (ma malamente, senza riuscire a colmarne il vuoto) una presenza perduta. Pur di provare di nuovo l’ebbrezza di premersi sull’inguine la bambina sprovveduta che Agata è stata, Enzo si accontenta di scopare la donna in cui quella bambina non ha potuto evitare di trasformarsi. Siccome il piacere sessuale si associa in lui al modo frettoloso in cui ne ha goduto la prima volta, e al panico di infrangere un divieto, niente di tutto ciò che non accade di nascosto, col pericolo di venire interrotti, ha il potere di eccitare sessualmente Enzo. La logica del suo desiderio si accorda con l’interpretazione erotica del furto di cui scrive Jean Genet nel Diario del ladro (1949). Secondo Genet, l’azione di rubare eccede i suoi fini utilitaristici. Un ladro, a lungo andare, non ruba più per colmare una mancanza di denaro, ma si pone nella condizione di avere bisogno di soldi per rinnovare il godimento di sottrarli in modo illecito.
Fintanto che Patti ce le mostra dall’interno, questa esigenza di sospendere una spada di Damocle sulla propria virilità allo scopo di aizzarne l’ardore, questo vizio di guardare la parte vuota del bicchiere stando dentro a quella piena, come per crogiolarsi nella propria opulenza, danno vita a quadri di una luminosità che definisce alla perfezione volumi e profondità di persone e ambienti. Ma il convergere delle sensazioni sul versante sessuale, così abbondante e preciso in ogni sviluppo e sfumatura, produce un senso di stanchezza e di desolazione emotiva. I personaggi de La cugina non conoscono né transizione né superamento; soltanto due situazioni: la tensione del sesso verso la tomba, l’esorcismo della tomba tramite il sesso. Patti conduce la vicenda del libro dentro questo vicolo cieco, ossessionato anche lui dal sospetto che la nascita sia solo l’inizio della morte.
Qualche immagine buttata lì quasi con sciatteria basta a Patti per evocare la morte (in costume medievale) e farla irrompere nel bel mezzo del festino del sesso. Ecco allora, in ordine sparso: il cognato arteriosclerotico dell’avvocato Fragalà che orina a gambe larghe sulla rivoltella credendola un pitale; il cocchiere novantenne dei Leotta che giace paralizzato nel seggiolone accanto alla finestra di casa, con la moglie che lo prende a schiaffi e a pugni godendo nel vederlo dimenarsi e schiumare di rabbia impotente; il Lanzafame e il Parisi, amici per la pelle, che ammazzano il tempo e la noia sparandosi per gioco con fucili ad avancarica e pistoloni appartenenti a una collezione di vecchi cimeli di guerra e armi da museo custodita gelosamente; i due bisbetici cugini don Alfio Musumeci e Filadelfo Toscano, indaffarati a spiare l’uno nell’altro ogni infinitesimale alterazione verso il peggio, entrambi legati per la schiena alla ruota dei sospetti e delle apprensioni di malattia e di rincretinimento.
Il vero tema del romanzo di Patti è il rapporto di cuginanza che lega la morte al sesso, ed entrambi al fascismo visto come condizione ineludibile di ogni relazione tra maschi e femmine. La filosofia ninfopanica di Enzo sottintende la boria del fascistello che biasima la facilità delle donne a ogni post coitum. A sua volta, la trafila erotica di Agata sottintende che le donne, dopo tutto, non intendono rinunciare all’uomo, e se un uomo meschino è tutto quello che possono racimolare, si accontentano. Agata si lascia trascinare al pari di Enzo, con la differenza, rispetto al cugino, che da lei nessuno si aspetta che si comporti in un modo anziché in un altro. Il guaio è che nemmeno Patti, a quanto pare, ha pensato di prospettare alla sua protagonista una qualche alternativa al conformismo.
Nessuno nel libro che faccia mai caso al calendario o si degni di gettare un’occhiata fuori dalla porta-finestra dei propri interessi privati. Agata non appare mai contrariata o turbata da un’indecisione. Non le succede mai di compatire il cugino per il suo gallismo professionale, di odiarne i gesti voluti, previsti, nemmeno come farebbe un bambino che impara a odiare, riconoscendole in se stesso, le affettazioni dei genitori. Quando l’uomo che diventerà suo marito decide di rapirla, Agata si presta al ratto senza battere ciglio ma anche senza dare il proprio assenso emotivo. Il fascismo di non scomporsi davanti al fascismo come fatto storico prevale su quest’ultimo e lo relega sullo sfondo, facendolo apparire una realtà confusa, sfocata: un film offerto in visione a un gruppo di attori che nel frattempo hanno scordato di avervi recitato una particina.
Marco Cavalli
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Lo scrittore catanese Ercole Patti (1904-1976), è senz’altro una delle figure più rappresentative del pantheon letterario siciliano, sebbene oggi non goda, a torto, della stessa notorietà di altri autori suoi conterranei. La sua prolifica attività di scrittore inizia fin da giovanissimo, ma è con il romanzo Quartieri alti (1940), che raggiunge la notorietà. Con Il punto debole (1952) ottiene il “Bagutta del venticinquennale” ed è finalista al Premio Strega. Nel 1954, con Giovannino, romanzo giocato fra Catania e Roma che riporta ai temi dell’apatia giovanile, della sindrome di Peter Pan e della disillusione, è ancora finalista al Premio Strega. Dopo le tre successive opere, Un amore a Roma (1956), Le donne e altri racconti (1959) e Cronache romane (1962), che chiudono questa prima fase avente come scenario Roma, Patti torna con le sue opere nei luoghi delle origini, la Sicilia: appartengono a questa seconda fase La cugina (1965), Un bellissimo novembre (1967), considerato il suo capolavoro, Graziella (1970) e Diario siciliano (1971), vincitore del Premio Selezione Campiello dello stesso anno. Con il libro successivo, Gli ospiti di quel castello (1974), vincitore del Premio Brancati-Zafferana, si apre una terza fase in cui la narrazione torna a Roma, città che lo ospiterà fino alla morte e nella quale lavorerà anche come autore teatrale e sceneggiatore cinematografico. Espressione della sua eclettica personalità è il suo rapporto con il cinema, di cui già molte sue opere letterarie sono pregne, e che si esplica in molteplici forme: dalla stesura di sceneggiature e soggetti originali, alla trasposizione di testi teatrali; dalla intensissima attività di critica cinematografica alla direzione di un settimanale di cinema. Ciò fa di Patti un esponente di quell’entourage intellettuale che vede, tra gli altri, Flaiano, Alvaro, nonché i suoi conterranei Brancati, Moravia e Marotta, i quali – come dice il critico cinematografico Sebastiano Gesù – hanno vissuto l’esperienza del cinema senza perdere la loro identità di scrittori, ma in un continuum interscambio di esperienze culturali e di vita tra le due forme espressive. Testimone di questo speciale rapporto tra Patti e il cinema è la vasta filmografia: come sceneggiatore per le pellicole del regista Mario Camerini (Come le foglie, 1935; Il cappello a tre punte, 1935; Darò un milione, 1935; Ma non è una cosa seria, 1936; Il grande appello,1936), per i film di Alfredo Guarini (Senza cielo,1940; È caduta una donna, 1941; Documento Z-3, 1942), per Tre storie proibite, 1952, di Augusto Genina; Il Bravo di Venezia, 1941, di Carlo Campogalliani; Quartieri alti ,1945, di Mario Soldati; Tempi nostri, 1954, di Alessandro Blasetti (sceneggiatura Gli innamorati); Un po’ di cielo, 1955, di Giorgio Moser; e ancora Io amo, tu ami…, 1961, di Alessandro Blasetti. Come autore del soggetto, per i film: Villa Borghese, 1953, di Vittorio de Sica e Gianni Franciolini (anche come sceneggiatore); L’amore difficile, 1962, di Alberto Bonucci, Luciano Lucignani, Nino Manfredi e Sergio Sollima (per il soggetto Le donne). Come autore dei romanzi da cui sono stati tratti i film: Un amore a Roma, 1960, di Dino Risi (anche nelle vesti di attore); La seduzione, 1973, di Fernando Di Leo (sua anche la sceneggiatura); Un bellissimo novembre, 1969, di Mauro Bolognini; La cugina, 1974, di Aldo Lado; Giovannino, 1976, di Paolo Nuzzi. Come revisore dei dialoghi nel film La mano nera – prima della mafia, più della mafia, 1973, di Antonio Racioppi. Infine solo in veste di attore in Mio figlio professore, 1946, di Renato Castellani. Tutto l’opera di Ercole Patti meriterebbe un’adeguata riscoperta. Due interessanti saggi tuttora reperibili sono: Ercole Patti e altro Novecento siciliano, Atti del convegno internazionale, Princeton 2003, a cura di Pietro Frassica (Interlinea edizioni, 2004) e Ercole Patti – Un letterato al cinema, di Sebastiano Gesù e Laura Maccarrone (Giuseppe Maimone Editore, 2004).

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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 15 – Giugno 2013
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