Zero Dark Thirty racconta la storia dell’agente della CIA Maya e della sua caccia ostinata, durata dieci anni, al nemico pubblico numero uno degli Stati Uniti, Osama Bin Laden. La sua ossessione è anche quella di un paese profondamente scosso dall’attentato dell’11 settembre 2001, evento che ha ridefinito i limiti di tolleranza dei suoi abitanti e messo in discussione i sistemi di sicurezza gestiti dalla sua intelligence. Schermo scuro, voci terrorizzate in sottofondo, le urla strazianti dall’inferno delle Torri Gemelle. Inizia così, in modo brutale, il film della Bigelow, e la prima mezz’ora è un tour de force per la mente e il cuore. La giovane agente interpretata da Jessica Chastain, arriva in un’area segreta del Medio Oriente dove assiste ai metodi coercitivi con cui vengono interrogati i detenuti presunti terroristi. Uno dei metodi per estorcere informazioni è il waterboarding, la tortura dell’acqua, nota sin dai tempi dell’Inquisizione e usata anche dai Khmer rossi in Cambogia e Pinochet in Cile: consiste nell’immobilizzare il detenuto, adagiare un asciugamano sulla sua faccia e versare acqua simulando un annegamento controllato. Lo smarrimento iniziale di Maya mentre assiste alle torture riflette l’andamento confuso delle indagini. In questa prima parte del film è importante osservare il linguaggio del corpo della Chastain per capire tutta la fragilità e l’inesperienza di una recluta proiettata nell’inferno del campo d’azione dove la preparazione accademica si scontra con la pratica del waterboarding, la costrizione dei detenuti in una scatola di legno simile a una bara e l’umiliazione della nudità, particolarmente offensiva per i musulmani. Lei incrocia le braccia, fa no con la testa, chiude gli occhi, guarda in terra.
Il lavoro sulle informazioni e i dati raccolti negli interrogatori e nelle intercettazioni porta Maya a focalizzare la sua ricerca sul nascondiglio di Bin Laden seguendo le mosse del suo corriere più fidato, colui attraverso il quale comunica con il mondo. Si tratta di Abu Ahmed Al-Kuwaiti. Si arriva così alla scena della cattura del capo di Al Kaeda, girata in modo magistrale: si ha la sensazione di essere fisicamente presenti nel luogo in cui si svolge l’azione e si percepisce sia il coraggio e la determinazione degli agenti che la paura delle vittime presenti nel bunker di Bin Laden al momento dell’assalto. Un dubbio assale lo spettatore sin dalle prime scene, stabilire dove finiscono i fatti e inizia la fiction perché è sul sottile confine tra documentario, thriller e dramma che si gioca l’intera costruzione della storia. Un lavoro intellettuale richiesto allo spettatore che riflette una delle tesi di Zero Dark Thirty, dimostrare che dietro l’uccisione di Bin Laden non c’è la forza bruta di un esercito che ha sparato a caso su un bersaglio ma un lavoro di intelligence che ha richiesto la catalogazione e l’analisi di migliaia di dati, interrogatori e filmati e lo studio e la comparazione di questo materiale top secret. Le scene più cruente hanno provocato negli USA polemiche, dibattiti e accuse alla regista di fascismo e apologia della tortura.
A dimostrazione che per gli americani la ferita dell’inferno di Guantanamo è ancora aperta e ogni motivo è buono per strumentalizzare persino un’opera d’arte, la Bigelow e lo sceneggiatore Mark Boal sono stati accusati da tre senatori di una presunta collaborazione con la CIA e l’accesso a informazioni riservate. Tuttavia il film stesso smonta le critiche che vengono rivolte alla regista. L’interrogativo che pone il film è di segno opposto rispetto alle accuse: non ha senso chiedere alla Bigelow perché ha rappresentato la tortura, semmai ci si deve chiedere chi ha ordinato questi metodi e queste politiche. Trovo imbarazzante sottolineare che è indegno per un artista cadere nell’errore della censura o, peggio ancora, nella negazione. La grande regista americana realizza un’opera lucida e rigorosa basata sui fatti; questo conta e lo dice anche Bigelow: “la raffigurazione non significa sostegno ed endorsement”. Lo spettatore, vero protagonista del film, viene obbligato a esplorare il suo inconscio coi propri mezzi e le sue conoscenze grazie ad uno strumento visivo vivo e palpitante, ricco di rimandi politici e sociali, realistico quanto basta per essere credibile storicamente con il plus di una costruzione drammatica che inchioda alla poltrona per 157 minuti.
Ultima nota sull’ambiente maschilista in cui è costretta ad agire Maya, che viene rivelato in modo sottile, con inquadrature su sorrisi e sguardi d’intesa tra gli uomini mentre la protagonista cammina per i corridoi o espone le sue tesi in modo puntiglioso. La situazione del sola contro tutti rappresentato nel film è in fondo un grande classico del cinema al femminile di tutti i tempi. Viene da pensare che Maya sia una sorta di alter ego di Bigelow, prima donna nella storia del cinema a vincere l’Oscar come miglior regista. Nel finale il riconoscimento del cadavere di Osama e la realizzazione che il simbolo del male non era un’entità astratta o un’icona ma un uomo in carne e ossa; la fine dell’ossessione è, forse, l’inizio di un nuovo incubo. Maya entra nella pancia di un aereo che la riporta a casa. In primo piano il suo viso solcato da poche lacrime, è umana, lo spettatore può scrivere la fine che preferisce.
E ora? La missione è compiuta, la guerra non è finita. L’ossessione, eterna compagna della solitudine.
Carlo Camboni

“Nativity” by Iano
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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 14 – Marzo 2013
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