Che cos’è il tempo? A questa domanda ha cercato di rispondere l’artista sudafricano William Kentridge, presente a Roma con due grandi eventi paralleli: la mostra Vertical Thinking (allestita negli spazi espositivi del MAXXI) e la performance teatrale Refuse the Hour (replicata più volte al Teatro Argentina, con la partecipazione dello stesso Kentridge). Nel bagaglio delle esperienze di Kentridge, attivo su più fronti creativi a partire dai primi anni Settanta, si intrecciano teatro, scenografia, cinema e disegno d’animazione; le ricerche sperimentali attraverso i singoli medium espressivi non tardano a tradursi in un linguaggio composito di forte impronta multimediale (con un occhio di riguardo sempre rivolto verso la componente teatrale), un linguaggio ibridato che incorpora contaminazioni e stabilisce continue relazioni. All’opera eseguita Kentridge contrappone l’opera in esecuzione, un artwork al tempo stesso in progress e in regress, in un alternarsi intermittente di tracciatura e cancellazione. Tutta la sua produzione (dai film animati realizzati con disegni a carboncino fino alle serigrafie, alle installazioni e alle opere multimediali) riflette sulle meccaniche non lineari del tempo, sulle infinite variabili probabilistiche e possibilistiche sottese al prima-durante-dopo. Kentridge rifiuta le false certezze del tempo convenzionale (il tempo cronologico e lineare scandito a uso e consumo dell’uomo metropolitano) e sceglie di indagare un tempo dilatato, elastico, pluriverso, dove il presente non è che un’oscillazione tra passato e futuro. Lungi dal risolversi in un’operazione nostalgia (per intenderci, nessun vagheggiamento romantico sul tempo perduto) la sua ricerca si concretizza in visualizzazioni del “tempo delle possibilità”, quelle infinite potenziali variabili cui sono soggette le azioni; nell’opera viene così a palesarsi il conflitto tra compiutezza e incompiutezza, in un continuo avvicendarsi di affermazioni e ritrattazioni, sottolineature e cancellature, strato su strato, metafora della molteplicità degli eventi di cui è fatta la storia (passata, presente e futura). Al “discorso sul tempo”, sempre centrale e portante, Kentridge collega riflessioni esistenziali che spaziano dal versante scientifico a quello più strettamente artistico, senza trascurare il rapporto con gli artisti del passato e questioni per così dire più terrene (in particolare le problematiche del suo amato paese d’origine).
Protagonista del percorso espositivo Vertical Thinking è il linguaggio in divenire; la mostra si snoda in un itinerario di storie aperte, in relazione le une con le altre, storie vissute da protagonisti transitori e intercambiabili in ambientazioni e scenari altrettanto mutevoli. Tra le opere esposte: Preparing the flute (2005), un teatrino con meccanismi luminosi e musiche mozartiane; Cemetery with Cypresses (1998), un omaggio a Il ritorno di Ulisse di Claudio Monteverdi (con Ulisse che ritorna in una clinica di Johannesburg); Zeno Writing (2002), un omaggio alla celebre opera letteraria di Italo Svevo ma soprattutto una riflessione sofferta sulle problematiche sudafricane contemporanee; Flagellant (1997), sul tema dell’apartheid, un singolare autoritratto con espliciti riferimenti all’Ubu Roi di Alfred Jarry. Il cuore pulsante della mostra è The Refusal of Time (2012), una grande installazione multimediale preceduta da una wunderkammer (un’anticamera con tutti gli studi, i progetti e i bozzetti preparatori dell’opera). The Refusal of Time, summa di tutta la ricerca di Kentridge, si profila come una vera e propria stanza del tempo, una grande macchina scenica che tenta di rappresentare con ogni mezzo (fisico, visivo, acustico) la non linearità della dimensione temporale. L’opera, esposta per la prima volta all’interno della rassegna dOCUMENTA di Kassel (2012), nasce da un confronto con lo storico della scienza Peter Galison, ed è stata realizzata in collaborazione con Catherine Meyburgh (video editor) e Philip Miller (compositore). Nella “stanza del tempo” il visitatore entra in relazione con cinque video proiettati simultaneamente e con una curiosa scultura lignea (posta al centro della stanza) di ispirazione vagamente leonardesca. Il tutto si aziona nella semioscurità: il marchingegno ligneo compie un movimento pneumatico (una sorta di respiro meccanico) e i video prendono a scorrere disorganicamente alternando giganteschi metronomi asincronici a una serie di azioni ripetitive.
Le atmosfere evocate sono quelle di fine Ottocento, con espliciti riferimenti alle sequenze fotodinamiche di Muybridge e ai Lumiere. La contestualizzazione in questo preciso frangente storico non è casuale e non risponde a soli criteri estetici; Kentridge si riallaccia significativamente alle prototecnologie della fotografia e del cinema che per prime, e non senza stupore, sperimentarono la riproduzione e l’inversione del movimento nel tempo, ed erano gli stessi anni della standardizzazione temporale, della sincronizzazione globale ai fusi orari. Nei cinque filmati in bianco e nero scorrono storielle semplici: la moglie con l’amante / il marito che irrompe / la moglie che cerca di nascondere l’amante… il nastro si inceppa, la bobina si riavvolge, torna indietro istericamente e mostra tutte le varianti possibili della storia, anche le più assurde e surreali (…la moglie che tenta di nascondere l’amante mettendogli in testa una tovaglia). E poi ombre cinesi, scene di una danza, un uomo che scavalca ripetutamente una sedia… quello che emerge è il frazionamento del tempo, il suo divenire quantistico in progressione e a ritroso in un’unica caleidoscopica soluzione di continuità.
L’acustica (suoni, rumori, musiche, ticchettii) accompagna e rafforza la suggestione spingendo man mano il visitatore in uno iato spazio temporale straniante. Kentridge prende a prestito i trucchi di montaggio del cinema delle origini, il loop, le sostituzioni e le sparizioni alla Mèliés, e deliberatamente se ne serve per irridere e contrastare la linearità del tempo. Ciò che è irrimediabile nella vita reale una volta accaduto non lo è per la realtà impressionata su pellicola, dove tutto è suscettibile di correzioni, di riavvolgimenti, in una continua riformulazione dei destini. All’irrimediabile disordine umano fa da contraltare l’ordine sempre ricreabile nell’atemporalità della pellicola. La citazione dello zootropio si traduce in un’azione ossessiva, ripetuta che non consente via di fuga: il soggetto continuerà a scavalcare quella sedia all’infinito, non potrà mai sottrarsi né al suo tempo né al suo destino. Stordito e fagocitato nella grande macchina di The Refusal of Time il visitatore fatica a concentrarsi su un singolo schermo; la sua attenzione è continuamente reclamata ora a destra ora a sinistra ora alle sue spalle, e lo sguardo non può che migrare di proiezione in proiezione. Lo sfasamento è graduale, e già dopo i primi cinque minuti di permanenza nella “stanza del tempo” subentrano il disorientamento e la perdita d’informazione. Non è la narrazione a catturare ma il tempo della narrazione, un tempo slabbrato e rammendato di continuo che si impone prepotentemente in primo piano, all’unisono col respiro pompato dalla macchina leonardesca. Nel “tempo delle possibilità” tutto avviene, è già avvenuto ed avverrà secondo modalità plurime. <<Tutto per me è temporaneo – ha dichiarato Kentridge nel suo soggiorno romano – e quindi tutto può essere salvato e può risorgere. Il cattivo può diventare buono. Tutte le possibilità sono aperte.>>
Passato, presente e futuro si stratificano e si cancellano, si compenetrano e si scavallano, si fondono e si scindono senza mai prevaricarsi, senza che mai una dimensione temporale prenda definitivamente il sopravvento sull’altra. È così anche il tempo dell’Arte, e William Kentridge lo sa bene, un’Arte che vive e sopravvive di continui ricicli, di continue citazioni e di imprescindibili rimandi. È il tempo agli sgoccioli, ma mai scaduto, dell’Arte contemporanea (avveniristica ma sempre più primitiva), un’Arte che raccoglie dal tempo e semina nel tempo.
Massimiliano Sardina

“Nativity” by Iano
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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 14 – Marzo 2013
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