di Massimiliano Sardina
La pianura sottostante si vedeva appena, infinitamente vaga e lontana.
Aguzzando lo sguardo tra i massi, Irma distingueva lo scintillio dell’acqua e
minuscole figurine che andavano e venivano tra banchi di fumo rosato, o di nebbia.
“Che cosa staranno facendo quelle persone laggiù, simili a un esercito di formiche?”
Joan Lindsay, Picnic a Hanging Rock
Tra le più recenti acquisizioni del MAXXI (il Museo nazionale delle Arti del Ventunesimo secolo di Roma) figura una videoinstallazione di Grazia Toderi realizzata nel 2001: Mirabilia Urbis, titolo anche della personale che ha da poco chiuso i battenti. Tra le opere esposte, tutte videoproiezioni, anche una seconda Mirabilia Urbis realizzata nel 2012. Il visitatore accede in un grande stanzone buio e si trova di fronte a un doppio schermo cinematografico; la visione non è perpendicolare ma sfalsata dal singolare posizionamento degli schermi leggermente direzionati l’uno verso l’altro e combacianti nella giuntura centrale ad angolo acuto. Questa soluzione stabilisce un’interazione straniante tra i due filmati potenziandone l’impatto visivo e generando al contempo la percezione di un’immagine unitaria. Le proiezioni mostrano un insediamento urbano visto dall’alto, a volo d’uccello, e nonostante le riprese siano notturne non fatichiamo molto a riconoscere, tra quelle linee di luce, l’inconfondibile trama planimetrica della città eterna. Mirabilia Urbis Romae: il riferimento va a quelle vecchie proto guide turistiche (quelle pre-Grand Tour, per intenderci) che fin dal XII secolo venivano consultate dai viaggiatori più eruditi. Il “meraviglioso” (Mirabilia dell’Urbe) è tutto quanto può solleticare la curiosità del visitatore, dalle rovine del paganesimo alle sovrapposizioni del paleocristiano. All’osservazione del particolare (nel dettaglio) Toderi sostituisce e privilegia quella del generale (nell’insieme) in una sorta di zoom alla rovescia. Il “meraviglioso” scaturisce a una certa distanza dispiegando una dimensione corale. Da quell’altezza la figura umana non può essere percepita, e ciò che compare è solo materia plasmata: edifici, strade, ponti, strutture, un reticolo a tratti schematico e a tratti caotico, la testimonianza grandiosa e scintillante di un insediamento. L’umanità dorme protetta nelle sue scatole di pietra o si sposta per le strade attraverso curiose scatolette di metallo, un’umanità al tempo stesso assente e presente, invisibile e lampante. Complice la notte, la panoramica si fa ancora più indistinta e tutto ciò che la pellicola riesce a impressionare sono piccole pulsazioni luminose. Prevale un viraggio rosso, quella cromia dell’effetto dopler osservata dagli astronomi nelle galassie che si allontanano nell’universo in espansione.
In Mirabilia Urbis – e più ancora in altri video realizzati con riprese satellitari – Toderi promuove un’arte alta, vertiginosamente anti individualistica. Da una simile ottica tutto diventa pari tempo insignificante e significativo, tutte le domande e tutte le risposte diventano possibili. L’umanità compare nel suo sforzo millenario di adattamento sulla crosta terrestre, con gli antichi apparati monumentali e con le nuove tecnologie energetiche. La città eterna è chiamata a fare da campione a mille altre città disseminate sulla superficie del pianeta, città invisibili di calviniana memoria, agglomerati umani di storie attecchite le une sulle altre una generazione dopo l’altra. Con le sue opere Toderi individua un nuovo punto di vista e un nuovo punto di fuga prospettica. La visione dall’alto, artisticamente parlando, riconferisce alla vita tutto il suo mistero. Ed è questo, semplicemente questo, che ci è dato di desumere da Mirabilia Urbis o da altre opere come Atlante Rosso (2012) o Rosso (2007), la contemplazione di una grande materia misteriosa. Toderi invita l’osservatore a porsi domande fondamentali e, soprattutto, a spogliarsi dei punti di vista individuali terra terra. Guardare dall’alto vuol dire guardarsi, fondere la propria natura singola in una porzione più ampia, in una collettività, in una condizione e in una contingenza comuni. Quando in arte si scomodano i massimi sistemi si entra in un territorio minato e uscirne dignitosamente è dura, ma non è questo il caso di Grazia Toderi che anzi dimostra di sapersi ben destreggiare fondendo riflessioni scientifiche a quelle più strettamente artistiche. Formatasi all’Accademia di Belle Arti di Bologna, Toderi comincia a dedicarsi alla videoarte già agli inizi degli anni Novanta; i primi esperimenti, tutti volti all’analisi della relazione tra tempo e movimento, privilegiano singoli oggetti e contesti di spazi domestici, ma ben presto lo zoom (sia quello fotografico che quello filmico) si allarga agli esterni, in un allontanamento progressivo da piazze, stadi, città fino a comprendere interi continenti. Le immagini catturate dal cielo (con telecamere installate su aeroplani, elicotteri e satelliti) costituiscono solo il materiale di partenza, un repertorio fotografico e filmico che prima di confluire nel video (quello finale e definitivo destinato alla proiezione-installazione) passa attraverso una serie di elaborazioni; in fase di montaggio, infatti, Toderi lavora per sovrapposizioni, dissolvenze e viraggi, con la sintonizzazione di un sonoro che altro non è se non il suono-rumore del cosmo.
L’elemento acustico si palesa quale ingrediente fondamentale, un vero e proprio legante che riempie la distanza tra la cosa guardata e il punto d’osservazione. È un suono primordiale, una vibrazione di fondo che non è propriamente né suono né rumore quanto una sorta di radiazione fossile (simile a quella che gli astrofisici associano al suono-rumore del Big Bang). Il viraggio rossastro associato al buio della notte non solo rimarca il concetto di lontananza e di infinito ma stabilisce anche in parallelo un rimando ben preciso, quello con le immagini televisive di guerra, ancora oggi così presenti nella memoria collettiva; le piccole luci intermittenti che fanno capolino all’interno dell’inquadratura brillano infatti come piccole silenziose esplosioni e, su un livello di lettura più astratto e dilatato, codificano un alfabeto misterioso rivolto a intelligenze aliene. Le immagini di Mirabilia Urbis attraggono l’osservatore con la loro potente carica magnetica e lo trasportano in una dimensione atemporale non soggetta alle leggi gravitazionali. Da lassù si conquista la visione destabilizzante, e al tempo stesso pacificata, del maestosamente piccolo; non conta più l’episodio, il singolo accadimento, perché ad emergere tutta insieme è la storia intera, l’evento globale nel suo divenire e nel suo tracciarsi immobile e mutevole. La visione dall’alto rivela un’inaspettata geometria, uno schema in fieri di linee e volumi in perenne interazione, e quasi sembra di scorgere la topografia di una nanotecnologia, i microcomponenti della scheda madre di un computer fatto di cemento e di asfalto. Toderi ci mostra come siamo visti da lassù, ci mostra la nostra solitudine scintillante, la nostra invasività sul tappeto soffocato della crosta terrestre, e ce lo rivela srotolando una mappatura enigmatica, complessa, inquieta. Siamo lì, siamo laggiù, nessuno escluso. <<È ormai evidente – come sottolinea Monia Trombetta, assistant curator del MAXXI – il proposito dell’artista di realizzare una mappatura del cielo e della terra, una rappresentazione della realtà contemporanea in continua e inarrestabile trasformazione. Soggetto delle sue opere sono le città nella loro indistinguibilità. (…) una “città universale”, in cui ciascuno può riconoscere o vedere svanire la propria.>> Quella di Grazia Toderi è un’arte tra cielo e terra, una visione di “mezzo” che unifica le differenze sovrapponendole, stratificandole fino a farle coincidere in una soluzione universale. Sotto questo aspetto tutta la sua operazione si permea prepotentemente anche di un’utopia politica e sociale: bisogna andare lontano e guardare da lontano per non essere più in grado di riconoscere differenze (alla consapevolezza si giunge per annullamento). Le videoinstallazioni Mirabilia Urbis sono la dimostrazione che più ci si discosta dalle piccolezze più si diventa capaci di cogliere quella grandezza intrinseca di cui siamo, nostro malgrado, partecipi.
Massimiliano Sardina

“Nativity” by Iano
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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 14 – Marzo 2013
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