a cura di Giuseppe Campisi
Amedit incontra uno dei più prestigiosi pianisti italiani, il maestro Giovanni Mazzarino, il quale vanta collaborazioni con artisti del calibro di Steve Swallow, Randy Brecker, Kurt Rosenwinkel, Massimo Urbani, solo per citarne alcuni. Molto attivo anche nell’ambito della didattica della musica jazz, ha avuto diverse esperienze come direttore artistico di festivals e concorsi, tra i quali Piazza Jazz e il Premio Internazionale di Musica Enzo Randisi, oltre che di strutture didattiche come quella di ArteMusica, a Caltagirone, della quale ci parlerà.
Maestro, lei, oltre a essere molto attivo come concertista, svolge anche un incessante lavoro di didatta. Nell’Italia dei conservatori, quali sono i problemi che la musica jazz incontra?
In Italia, purtroppo, ci troviamo a dover fare i conti con una situazione didattica che presenta non poche problematiche, alcune anche paradossali. Il problema, innanzitutto, è a monte: la musica non ha uno status di livello, la gente non si rende conto che quello del musicista è un lavoro serio. A questa scarsa considerazione si va ad aggiungere il fatto che non si investe sull’educazione, appunto perché, nell’immaginario collettivo, la musica non è una cosa professionalmente seria e non rende. Se consideriamo poi il fallimento dei conservatori, che con gli studi di matrice classica riescono a dare un bagaglio che si ferma essenzialmente alla conoscenza dello strumento,ci rendiamo conto di come non sia poi così strano se ci troviamo in una situazione disastrata nel campo dell’educazione musicale. L’insegnamento del jazz nei conservatori, di recente introduzione, è totalmente privo di programmi strutturati, i metodi di reclutamento dei docenti sono assolutamente inadeguati, valutando titoli artistici inutili per l’insegnamento di questo genere (per intenderci, basta aver insegnato cinque anni musica in una scuola media per poter insegnare jazz – disciplina complicatissima – nei conservatori), quando invece dovrebbero essere presi dei docenti che conoscono il linguaggio, che l’hanno vissuto e lo vivono.
Tanto per descrivere una di quelle situazioni paradossali cui accennavo, io ho suonato con Steve Swallow ed Adam Nussbaum, due dei più grandi musicisti di questo pianeta, a Parigi al Duc des Lombardes, storico jazz club nel quale si esibivano nomi del calibro di Gillespie, Powell, Dexter Gordon; il concerto – tutto esaurito – è stato registrato da Radio France, una delle radio più importanti in Europa, e ne è stato fatto un disco, ed il conservatorio di Palermo per questa cosa mi ha dato una valutazione di 0.25. Invece, il concerto fatto dal maestro X per l’associazione culturale Y nel paesino sperduto Z viene valutato 1.25, sempre ammesso che sia stato davvero fatto (non sono poche le associazioni culturali che timbrano titoli artistici ad libitum). Paolo Silvestri, uno dei più grandi arrangiatori e compositori in Europa, riconosciuto da tutti, ha difficoltà a prendere una cattedra in composizione; da poco gliene hanno affidata una di musica d’insieme e dovrebbe quasi essere loro grato. C’è gente che ha 22 anni e ha più titolo artistici di uno che ne ha 50, e anche anagraficamente sarebbe impossibile. E poi viene valutato tutto, meno che la reale preparazione per insegnare musica jazz, con cattedre che vengono assegnate a simpatia. Io sono sempre arrivato tra i primi tre o quattro in graduatoria, ma ce ne sono state alcune in cui sono stato addirittura dichiarato non idoneo, così come Pietro Tonolo, grande sassofonista, ad esempio. Com’è possibile arrivare primi in un posto ed essere non idonei in un altro? La differenza è considerevole …
Per non parlare di situazioni incresciose come quelle sempre del conservatorio di Palermo, che è giusto che la gente conosca, nel quale le prove che vengono proposte per il reclutamento dei docenti non hanno nulla a che fare con il jazz e con la sua didattica: ti mettono davanti una partitura complicatissima di Bottesini, se sei un contrabbassista, e pretendono che tu la suoni a prima vista (e già un concertista avrebbe difficoltà). Cosa c’entra questo col jazz? Non vengono valutate le conoscenze armoniche, la capacità di spiegare, per non parlare del fatto che ci sono alcuni che arrivano e leggono quelle parti benissimo, come se le avessero già lette, e non c’è altro da aggiungere. Pensiamo poi al fatto che i docenti insegnano praticamente solo ad ore, trovandosi a doversi spostare di diverse centinaia di chilometri ricattati dal “punteggio”, senza avere un minimo di possibilità di organizzare in maniera dignitosa la propria vita, e che invece le graduatorie per diventare direttore di dipartimento (con stipendio fisso) sono blindate, e abbiamo detto davvero tutto.
È ovvio dunque che da tutto ciò verranno fuori studenti con un titolo, sì, ma con una preparazione mediocre ed inadeguata al mondo del lavoro, che porta poi alla convinzione – a mio avviso falsa, perché se uno è bravo lavora, eccome! – che il jazz e la musica non siano da considerare professionalmente appetibili, ed è proprio da qui che nasce il mio impegno nella didattica, con eventi come quelli dei seminari di Piazza Jazz o come la scuola ArteMusica, presso la quale sono direttore artistico. Se lo Stato non assicura un’educazione di livello, è giusto offrire un’alternativa di un certo tipo, e se è vero che oggi non possiamo rilasciare titoli di studio riconosciuti, è anche vero che non potranno ignorarci per sempre, e le esperienze di Siena e Roma ne sono una dimostrazione.
La situazione sembra essere disastrosa. Quali sono a suo avviso le cause di questo degrado? Pensa che il fatto che l’Italia possa avere una tradizione legata alla musica classica danneggi la considerazione che si ha del jazz e la sua istituzionalizzazione?
Tra le cause, la prima è certo quella che riguarda la mancanza di investimenti, ed ancora una volta, poi, non si può non puntare il dito contro una didattica male organizzata, anche per quanto riguarda la musica classica. Il problema non riguarda la nostra tradizione o i nostri talenti, ma l’insegnamento e come è strutturato. I programmi di musica classica dei conservatori sono fermi al 1932 e quando uno studente studia composizione supera a stento il 1900. Il non volerci rinnovare è essenzialmente legato alla casta, che, se si attuasse veramente un’opera di modernizzazione e si verificassero le competenze alla luce non solo di ciò che la musica era ieri, ma anche di ciò che è oggi, vedrebbe diversi suoi esponenti costretti a cedere il passo a gente indubbiamente più competente. Dunque non si parla più di conservare una tradizione, ma un posto di lavoro e i privilegi ad esso correlati, ed anche per questo non si è mai investito sul jazz.
Alla luce di tutto ciò, cosa pensa del futuro della musica, più in generale, e della musica jazz in particolare?
Il futuro della musica passa solo attraverso una cosa: la politica. Se non c’è un vero cambiamento, difficilmente ci sarà futuro. Basterebbe dare un’occhiata ai paesi civilizzati, magari quelli del nord Europa, per farsi un’idea, non solo riguardo la musica, ma riguardo diversi aspetti della vita; parliamo di posti in cui si ha una certa concezione di servizio. Abbiamo bisogno di servizi e ci vuole gente che lavori, davvero, e che spinga per il cambiamento. Non ha senso mettere Zichichi come assessore ai beni culturali a fare da “facciata”, quando probabilmente vista l’età alla fine non seguirà come dovrebbe gli iter burocratici e tutto rimarrà in mano all’assessorato (che per la Sicilia è come se fosse un ministero), per cui verranno tracciate delle linee guida ma di fatto facendo cambiare poco o nulla.
Dobbiamo capire che il futuro passa da un buon modo di amministrare, che valorizzi le nostre risorse, al di là di questa crisi, che di fatto è un golpe mondiale organizzato dalle banche. Dunque il fulcro è nella politica disinteressata, che fa la differenza, e che venga incontro a quanto di buono c’è e si crea.
Ad esempio, la struttura di cui sono direttore artistico, ArteMusica, punta ad avere un alto profilo qualitativo in termini di docenti. Un docente di alto livello, però, non può andare sotto 25 o 30 euro l’ora, ed alla scuola è giusto che rimanga qualcosa. Quanto dovrebbe pagare l’utente? Dovrebbe spendere 120 euro mensili che andrebbero all’insegnante, che diventerebbero 150 o 160 affinché qualcosa rimanga alla scuola, e che arriverebbero addirittura a 200 considerando le tasse che si dovrebbero pagare. Come posso chiedere ad una persona che guadagna 1100 euro al mese di spendere quasi il 20% del proprio stipendio per l’educazione musicale del figlio?
È qui che dovrebbe intervenire un’amministrazione, venendo incontro a questo tipo di esigenze e divenendo partner anche parziale di un determinato progetto (come accade per Piazza Jazz, festival che organizzo e che costa 100.000 euro quando il comune me ne dà 20.000 di contributo, ma che cerco di realizzare cercando fonti alternative di incasso da investire – dal biglietto al gadget), con contributi anche di poche migliaia di euro annui che possano consentire di abbattere le rette o assegnare borse di studio e premi, visto e considerato che ci sono anche dei precedenti, qui a Caltagirone, di istituti musicali definiti tali non si sa bene come, che prendevano dalla Provincia di Catania un contributo di 286.000 euro, senza farsi carico di affitto o spese varie, e con risultati dal punto di vista musicale assolutamente pessimi. Allora l’aiuto è elargito in considerazione di cosa? Ai posteri l’ardua sentenza.
Giuseppe Campisi

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Condivido in pieno quanto detto dal bravo Giovanni Mazzarino. Non aggiungo altro perché rischierei delle querele da parte di qualche Corservatorio di Musica e/o docenti di musica”Jazz “.